Bill Frisell con «Four», il suono del silenzio (Blue Note, 2022)
«Four» è un album ammaliante, un passaggio ipnotico guidato da una melodia che vampirizza e travalica il concetto di jazz tout-court. Attraverso call-and-response intelligenti, interplay ponderati e anti-spettacolari, eseguiti con intensità controllata e precise combinazioni cromatiche, Frisell conferma e riafferma la profondità silenziosa della propria visione del jazz.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nei dischi di Bill Frisell non ci sono impennate iperboliche, l’ultrasettantenne chitarrista americano, ora come allora, viaggia costantemente sotto un velo di serenità distesa, quasi un understatement sonoro congeniale alle sue corde e, non solo quelle della chitarra. I tanti sostenitori ne ammirano la pacatezza degli arrangiamenti ponderati e il suo tono twangy ricco vibrazioni. Molte delle sue uscite si avvicinano a splendidi esercizi formali che, raramente, toccano il blues e la ruvidezza afrologica del jazz. Non a caso Frisell ha accumulato strada facendo una discreta quantità di detrattori che lo considerano troppo tentennante, ondivago e dispersivo, per via di quella sua sua congenita e raffinata delicatezza lontana dal jazz avant-garde: eppure il chitarrista di Baltimora, a suo modo, è un innovatore, quanto meno un «diverso». Membro dei Naked City, gruppo non facilmente classificabile dei primi anni ’90, Frisell ha trascorso decenni all’incrocio tra la musica della grande provincia americana ed il jazz, con cui flirta da tempo, senza mai condurlo all’altare, attraverso un virtuosismo nostalgico privo d’irruenza. Il compositore di Baltimora ha sovente esplorato il country, si è dilettato con il surf, ha rielaborato colonne sonore di film classici ed ha perfino pubblicato un intero album di cover di John Lennon lussuosamente orchestrate.
Gli ultimi due dischi di Frisell in qualità di band-leader hanno rivelato le intenzioni di un musicista, forse in tema di bilanci – l’età lo consente – meno concettuali e più vicini a talune convinzioni personale e risvolti intimistici. Va da sé che la scelta dei collaboratori dovesse ricadere necessariamente su musicisti adatti al compito da svolgere. Nel suo ultimo concept, «Four» (2022), Frisell intercetta gli stimoli provenienti dal mondo circostante e le inquietudini del nostro tempo sulla scorta di un senso di malinconica resilienza di fronte al disagio del presente e del quotidiano vivere: il disco è disseminato di requiem per amici defunti. Nel giro di poco tempo, il chitarrista aveva perso tre intimi amici di lunga data, ai quali con «Four» porge l’ultimo saluto: «Dear Old Friend», caratterizzato da un suggestivo duetto iniziale tra clarinetto e pianoforte, finisce per trasformarsi in un’emozionante ouverture collettiva dedicata all’amico d’infanzia, Alan Woodward, che Bill conosceva ancor prima di imbracciare la chitarra. Il ricordo va ad un pittore nato a Seattle con «Claude Utley», dove appoggiandosi su una leva post-bop, Clayton ottiene i riflettori nella sezione introduttiva inducendo Frisell e Tardy (al clarinetto) a fornire il contrappunto. «Waltz For Hal Willner» è un omaggio a uno dei produttori più inventivi del jazz morto di COVID, dove le melodie sfalsate apportano al costrutto sonoro l’effetto vorticoso di una musica corale sacra. In fondo, Bill Frisell è una «stella timida», anche se in quei suoni silenziosi, nell’apparente esitazione, nelle pause e nel paziente raccoglimento si dispiega un’energia interiore che implode coinvolgendo il fruitore attraverso i ritmi circadiani della vita reale, con picchi sorprendenti ed inevitabili avvallamenti che giungono in rapida successione. Tuttavia, nella parte centrale dell’album s’indugia troppo a lungo su una lunatica e anomala forma di cool jazz, tanto che nella «dolorante» «Wise Woman» l’ensemble si ostina eccessivamente nella reiterazione dello stesso modulo narrativo.
Paesaggi sonori proiettati sul grande schermo della vita, sussurrati sotto traccia: questo è «Four». Nel complesso, la chitarra di Frisell possiede una «voce» unica, completamente diversa dai dettami del vernacolo jazzistico. Si potrebbe parlare, appropriatamente, di un musicista jazz da camera. Concepito durante la pandemia, «Four», è il suo terzo lavoro per la Blue Note, in cui il motore ispirativo nasce dai contrastanti sentimenti di perdita, rinnovamento ed amicizia. L’album è stato registrato con un nuovo quartetto, in cui Bill Frisell alla chitarra è supportato dal sassofonista e clarinettista Greg Tardy, dal pianista Gerald Clayton e dal batterista Johnathan Blake. I quattro sodali, pur non avendo suonato mai tutti insieme prima di quella data, in tale costellazione si caratterizzarono come una coesa unità armonica e melodica. Durante la quarantena, Frisell aveva annotato parecchie melodie e idee compositive, ma erano poco più che schizzi che, come tali, mostrò ai colleghi in studio al fine di motivarli ad improvvisare. «Nulla era davvero pianificato fino all’ultimo dettaglio», dice il chitarrista di Baltimora. «Ognuno aveva solo le informazioni che gli avevo dato. Ma eravamo assolutamente liberi di decidere chi avrebbe suonato cosa, come e quando». Oltre alle nove composizioni originali, alcune tracce del doppio album in vinile sono reinterpretazioni di temi presenti in «Good Dog», «Happy Man» e «Lookout for Hope». Senza un bassista, il line-up si muove tra melodie ariose come un acrobata su un filo, mentre il pathos segue sempre la giocosità che in «Four» sprofonda, sparisce e riemerge con improvvise emozioni appuntate su un taccuino in maniera diaristica. Ciononostante, l’album si sostanzia come una delle uscite più strutturate e deliberate della carriera di Frisell, collocandosi meno sull’asse della tradizione di «Good Dog, Happy Man» o «Nashville» rispetto a «Circuit Rider», album nato dalla collaborazione con Ron Miles e Brian Blade. A conti fatti, però, il Great American Songbook riaffiora ancora fra questi solchi: ad esempio, «Dear Old Friend» e «The Pioneers» ricordano per sommi capi taluni componimenti di Hank Williams. Tutto ciò è la conferma della naturale capacità di Frisell di far convivere sotto lo stesso tetto i due più grandi generi musicali americani autoctoni: il jazz ed il country.
Il tempo in 3/4 domina buona parte dell’album, come nella blueseggiante «Monroe», nella spazzolata «Wise Woman» e in «Good Dog. Happy Man», un pezzo di matrice folk che sfoggia un positivo ottimismo. Gli ultimi due brani, insieme a «The Pioneers», erano stati registrati in precedenza, così come il classico «Lookout For Hope», qui ridisegnato e calato in un’atmosfera onirica che lega il lacrimevole clarinetto basso ai suoni temperati della chitarra e del pianoforte. «Invisible» naviga a velocità di crociera solcando una melodia di seta, mentre «Holiday», più briosa, vede il line-up addentrarsi sul sentiero di un leggero funk, la cui libertà inizia partendo dagli agili colpi del rullante di Blake. «Good Dog Happy Man», originariamente un pezzo folk-rock, relativamente diretto, in «Four» diventa un mélange di swing rilassato, merito soprattutto del sassofono di Hardy e degli adamantini arpeggi di Frisell che emanano il tipico fascino della musica country del Sud. L’album offre però anche qualcosa di più avventuroso con «Dog On A Roof» che, dopo un abbrivio quieto e melodico, scivola rapidamente nel baratro di un universo meno rilassato, in cui gli armonici di Frisell incontrano le linee frammentarie del sax, la batteria smette di portare il tempo ed il piano si limita a pochi, cupi e spettrali accordi. Sul finale prende il sopravvento un groove duro e propulsivo che conduce ad un free form snervante che evidenzia quella via di mezzo tra dolore e gioia, tanto desiderata dal Frisell e soci. «Four» è un album ammaliante, un passaggio ipnotico guidato da una melodia che vampirizza e travalica il concetto di jazz tout-court. Attraverso call-and-response intelligenti, interplay ponderati e anti-spettacolari, eseguiti con intensità controllata e precise combinazioni cromatiche, Frisell conferma e riafferma la profondità silenziosa della propria visione del jazz.