Freddie Hubbard / Stanley Turrentine con «In Concert Vol 1», un capolavoro di jazz progressivo da riscoprire

Nel complesso, «In Concert Vol 1» è la rappresentazione plastica un ensemble di veterani in grado di reinventare la musica che suonano e se stessi… un ponte tra il jazz tradizionale e quello in divenire. Hubbard e Turrentine si abbracciano in un serrato corpo a corpo, scambiandosi un’energia senza freni inibitori come «giovani leoni» di un tempo. Un disco live emozionante e degno della risposta entusiasta del pubblico presente.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Gli album della CTI sono croce e delizia dei puristi del jazz moderno. A volte sanno di raccogliticcio o di mera operazione commerciale, altre di rimpatriata fra amici furbescamente organizzata dal tycoon dell’etichetta, lo scaltro Creed Taylor, uomo di lunga esperienza e mediamente più concentrato sul risultato economico che non su quello artistico. Del resto, l’arte come produzione si basa su investimenti tangibili, quindi deve avere un ritorno. Tra le innumerevoli uscite della CTI si annidano dischi insignificanti, così come dei veri e propri capolavori, sovente non schedulati negli annali della storia del jazz. Uno di questi è certamente l’album di Freddie Hubbard / Stanley Turrentine «In Concert», registrato nel marzo 1973 dal vivo alla Chicago Opera House e al Ford Auditorium di Detroit, curato da Charles Buchanan. remixato da Rudy Van Gelder e prodotto dall’infaticabile Creed Taylor. Freddie Hubbard alla tromba e Stanley Turrentine al sax sono accompagnati dal chitarrista Eric Gale, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al basso e dal batterista Jack DeJohnette.
Freddie Hubbard, praticando la scena l’hard bop e post bop, era diventato negli anni un musicista molto influente. Negli anni ’60 aveva suonato in album come «Maiden Voyage» (Herbie Hancock), «The Blues And The Abstract Truth» (Oliver Nelson), «Out to Lunch» (Eric Dolphy) e «Speak No Evil « (Wayne Shorter) muovendosi disinvoltamente fra tonale e atonale. Pur non essendo mai stato un sostenitore del free jazz, era stato coinvolto in due album epocali, «Free Jazz» di Ornette Coleman e «Ascension» di John Coltrane. Il trombettista di Indianapolis aveva iniziato a muovere i primi passi come band-leader in casa Blue Note, ma raggiunse il suo apice esecutivo e commerciale – con buona pace della critica – alla CTI Records nei primi anni ’70, dando alle stampe album quali «Red Clay», «First Light», «Straight Life» e «Sky Dive» che rimase in classifica nella Billboard Top 200 per sette settimane. Stanley Turrentine, nativo di Pittsburg, era alquanto noto per essere stato, negli anni ’60, il pioniere del soul jazz presso la fucina di Alfred Lion, vantando collaborazioni con Max Roach, Jimmy Dixon, Jimmy Smith, Les McCann, Horace Silver e l’organista Shirley Scott (sua ex-moglie), ma anche lui aveva trovato la giusta dimensione solo sotto l’egida della CTI: «Sugar» e «Salt Song» divennero presto i pezzi forti del suo catalogo da solista. Nel roster di Creed Taylor, il sassofonista contribuì allo sviluppo del movimento fusion, lavorando con George Benson, Bob James, Milt Jackson e Ron Carter, oltre che con Freddie Hubbard. In tale ambito, il suo caratteristico sax tenore, spesso intriso di blues, divenne presto un marchio di fabbrica molto richiesto.
Freddie Hubbard, Stanley Turrentine e soci, senza il condizionamento di una band di studio a volte soffocante, poterono sfoderare il loro sorprendente corredo improvvisativo come solisti. Tutto ciò venne agevolato dal groove fornito da Herbie Hancock, Ron Carter e Jack DeJohnette, i quali avevano ampiamente beneficiato del tutoraggio di Miles Davis; senza tralasciare Larry Gale, un chitarrista di rango poco noto alle cronache jazzistiche, ma che da adolescente aveva avuto la sfrontatezza di recarsi a casa di John Coltrane, dove gli fu concessa l’opportunità di suonarci insieme; nondimeno poteva vantarsi di aver registrato con Yusef Lateef, David «Fathead» Newman, Mongo Santamaria, Johnny «Hammond» Smith, Grover Washington Jr., nonché con Hubbard e Turrentine in momenti diversi; successivamente avrebbe preso parte a «Killing Me Softly», il successo planetario di Roberta Flack. Gale seppe travasare il caldo ritmo giamaicano nel rigido ed umido inverno di Chicago e Detroit. «In Concert» arrivò in un momento interessante della storia della CTI Records, quando diversi ingredienti del jazz come hard bop, arrangiamenti orchestrali, influenze soul-funk e cover pop cominciano a confluire all’interno della medesima formula esecutiva. In tale contesto, l’album svetta come una sorta di orgoglioso ritorno al jazz dal vivo, magnificato da uno dei migliori line-up che l’etichetta di Taylor abbia mai avuto. Per dovere di cronaca va detto che «In Concert Volume 1 & 2» furono originariamente pubblicati come album separati.
Come già accennato, i brani contenuti in «In Concert Vol 1» furono fissati su nastro il 3 marzo 1973 al Chicago Opera House e la sera successiva al Ford Auditorium di Detroit. Il primo lato del microsolco è interamente occupato da una lunga versione di «Povo», a firma Hubbard. Nell’album da studio era presente un’introduzione con la voce di Airto, qui l’incipit è riservato al ruminante pianoforte elettrico di Herbie Hancock, prima che venga avviato il groove dalla chitarra di Gale, seguito da Carter e DeJohnette. Da notare che la presenza di DeJohnette al posto di Cobham non rende la performance carente di funkiness, per contro la tavolozza ritmica vergata dalla batteria risulta assai più ampia. Considerando la lunghezza, «Povo» si dipana come una maratona strumentale, durante la quale emergono innumerevoli situazioni ritmico-armoniche ed improvvisative, alla medesima stregua di un insieme di temi legati in un’unica suite. L’introduzione ed il groove preparano il terreno per Hubbard e Turrentine. I due suonano qualche breve riff, quindi Hubbard parte in picchiata con un sostanzioso assolo, proiettandosi in avanti sulla scorta di traiettorie scandite e nitide, fedeli ai dettami dell’hard bop vecchia scuola. Turrentine lo segue a ruota scavando in profondità ed allungando il fraseggio con con un ricco contrasto tonale. I primi versi sono in linea con le inclinazioni funk-soul dell’impianto sonoro nel suo complesso, ma presto si avvertono alcune influenze cromatiche prossime alla tavolozza armonica di Coltrane. Turrentine porta il suo assolo nella stratosfera, seguendo le indicazioni di Hubbard, ma progressivamente precipita il sax verso la gamma più bassa e ringhiosa. Dal canto suo, Hancock va in perlustrazione attraverso una vivace notazione funkified, melodica e ritmica al contempo, mentre la chitarra, il basso e la batteria (con l’enfatico lavoro sui piatti di DeJohnette) creano un interludio di pura estasi fusion. L’assolo di Carter, collocato nel registro più alto del basso elettrico, incontra i favori di una melodia profonda, mentre la chitarra di Gale ne decora i bordi insieme al pianoforte di Hancock. «Povo» diviene così un ordigno esplosivo a retrocarica, quasi venti minuti di accademia del jazz-funk.
«Gibraltar» di Turrentine, contenuto originariamente nell’album «Salt Song», in cui si caratterizzava attraverso il suono di Don Sebesky, diventa una lunga perifrasi di quasi diciannove minuti che copre l’ intera B-Side, a cui dà la stura un feroce assolo di Jack DeJohnette, il quale passa da una serie di fluttuazioni sul suo kit emanando una selvaggia introduzione poliritmica; Carter ed Hancock si uniscono per stabilire una cornice latina, mentre l’ensemble parte alla carica. L’assolo di Hubbard emerge immediatamente senza soluzione di continuità rispetto alla tessitura dei cori iniziali, svettando soprattutto in virtù di un’intonazione più alta e della classica articolazione che lo contraddistingue. La strumentazione può far pensare inequivocabilmente alla fusion, ma la procace dinamica dell’arrangiamento si rifà al bebop e ad altre forme di jazz spontaneo, in cui il solito Hubbard si distingue con riff staccati e penetranti. Progressivamente, c’è un rallentamento del tempo, ma DeJohnette mantiene intonsa la furia dei suoi demoni creativi, mentre Turrentine risponde con un altro assolo a ruota libera, inserendo qualche frammento di «It Ain’t Necessarily So» intorno agli otto minuti, per poi aggiungere una citazione di «A Love Supreme»; Hancock continua a fare scintille, anche se il suo assolo appare più astratto ed impalpabile. Dal parte sua, DeJohnette ottiene una seconda incursione ancora più fragorosa, conservando l’energia dei suoi svolazzi iniziali e suonando pattern poliritmici sul tom e sul rullante, prima di impegnarsi in un assolo prolungato sui piatti. Nel complesso, «In Concert Vol 1» è la rappresentazione plastica un ensemble di veterani in grado di reinventare la musica che suonano e se stessi. Hubbard si eleva con una grazia ammaliante ed una perfetta risonanza. Hancock riafferma i power groove con toni distorti e ritmi sincopati, gettando un ponte tra il jazz tradizionale e quello in divenire. Hubbard e Turrentine si abbracciano in un serrato corpo a corpo, scambiandosi un’energia senza freni come «giovani leoni» di un tempo. Un disco live emozionante e degno della risposta entusiasta del pubblico presente.
