Mario Gamba. Lo spirito del jazz è anticonformista, progressista, spesso rivoluzionario

Mario Gamba
// di Guido Michelone //
Giornalista assai noto per lavorare con quotidiani (il manifesto), supplementi (Alias), settimanali, (l’Espresso) e programmi televisivi (TG3) , a partire dal 1977 inizia a occuparsi di musiche contemporanee e di nuove sonorità in genere diventando un profondo conoscitore dei generi meno convenzionali. Nel 2014 ha partecip con una testimonianza personale all’Archivio Vivo del progetto e documentario “Lunàdigas” ovvero delle donne senza figli di Nicoletta Nesler e Marilisa Piga. Ma già tempo prima dà alla luce due libri molto importanti come Questa sera o mai (Fazi 2003) e Gli ultraterrestri ( Cronopio 2008,).
D In tre parole chi è Mario Gamba?
R Un ribelle. Un libertario. Un pigro.
D I tuoi primi ricordi della musica da bambino?
R Da bambino in una famiglia piccolo borghese di provincia con poca cultura che girava – teniamo conto del fatto che sono nato nel settembre 1939 – sentivo le canzonette della radio, i concerti dell’Orchestra del Maestro Cinico Angelini, i primi Festival di Sanremo. Ricordo che preferivo vagamente “Papaveri e papere” a “Vola colomba”. Da bambino appena un po’ più grande (attorno ai 13-14 anni) le canzono italiane più retrive erano già state accantonate ed erano subentrate quelle americane magari quelle dei film con Fred Astaire. Credo che mi piacesse molto “Over the rainbow” ma ce n’erano altre. Cose come “Vola colomba” erano diventate il segno dell’orrore, e avevo già amici con i quali quel genere lo si dileggiava.
D E la tua prima memoria del jazz in assoluto?
R In assoluto è un po’ difficile ricostruirlo. Sicuramente intorno ai 13-14 anni il jazz entra a far parte della mia vita come un’illuminazione. Fui folgorato da un 78 giri in cui era riprodotto da entrambi e lati (il pezzo era lunghetto) un “Basin Street Blues” di Louis Armstrong con le All Stars (senz’altro con Barney Bigard e Jack Teagarden, anche se io conoscevo solo il nome del leader). Posso dire che quel disco è stata la mia pista di lancio verso la passione per il jazz (che poi si sarebbe allargata alla passione per la musica cosiddetta colta, specie quella contemporanea). Attorno ai 15 anni mi ammalai di tbc. Durante un soggiorno invernale terapeutico in un alberghetto di Nervi vidi in tv uno show di Gorni Kramer che a un certo punto introdusse come ospite speciale Gerry Mulligan col sestetto. Rimasi molto colpito dalla musica, dalle posture e dal look dei musicisti. C’era un’aura diversa da quella dei jazzisti alla Armstrong, avvertii come un soffio di intellettualità, non so, ma mi rimase molto impressa quella visione-ascolto e infatti nei due-tre anni successivi (uno trascorso in sanatorio) mi dedicai con preferenza all’ascolto del cool, dei californiani, del Modern Jazz Quartet, insomma di quel jazz “moderno” morbido (ma nient’affatto stupido come certi osservatori radicali e dogmatici hanno in passato fatto credere). Però nel periodo del sanatorio (avevo forse compiuto i 16 ma è più facile che fossi ancora nei 15, faccio un po’ fatica oggi a ricordare con esattezza) ascoltai per puro caso da una radiolina una stazione americana che trasmetteva un pezzo di Cecil Taylor (probabilmente con Steve Lacy, quel primo Taylor che oggi consideriamo, a ragione, prezioso e già compiuto). Beh, rimasi senza fiato e credo che pensai: questa è la mia musica!
D Come definiresti la tua attività? Critico, studioso, musicologo o altro ancora?
R Cronista/opinionista di politica della musica. Né critico né studioso né musicologo.
D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della critica militante italiana?
R Se protagonista vuol dire che ho partecipato, sicuramente sì. Se vuol dire tra i più eminenti, decideranno altri, non io. Ho partecipato alla critica militante perché non ho mai inteso la critica musicale come cosa da specialisti e cosa che non riguardasse lo stare al mondo oltre all’ascoltare musica magari per mestiere. Ma poi, come sappiamo, critica militante è un’espressione gergale che la distingue appunto da quella degli eruditi (che imperversano tuttora e anche su fogli vicini alla sinistra radicale di cui io faccio parte). In ogni caso rivendico per me stesso una spregiudicatezza nei giudizi, una passione per la “battaglia delle idee” in musica (c’è, ci deve essere, non solo in politica o in letteratura, ma deve evitare come la peste il didascalismo), il desiderio di una scrittura non piatta, non tecnica, possibilmente piacevole per il lettore.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola ‘critica’?
R Un po’ nelle risposte precedenti ho già fatto qualche cenno. Ho anche detto che non mi definisco critico. Ma bisogna intendersi. Si scrive in mille luoghi su eventi e problemi che riguardano la musica, si scrive e soprattutto si pubblica sempre meno sui giornali (magari si ricorre ai social) qualcosa che cerchi di raccontare gli eventi (raccontare la musica è complicato assai) e dare un giudizio. Che cosa si intende per critica? Io posso intendere quello che ho appena scritto, è la risposta più ovvia secondo me, ma rimane valida. Comporta l’assegnazione della critica ad alcuni che sono stati in qualche modo delegati a farlo mentre l’esercizio del racconto e del giudizio sulle musiche dovrebbe essere di chiunque e sui social appunto lo può fare legittimamente chiunque? Può essere ma il problema rimane. Il racconto e l’opinione del signor x possono valere molto di più di quelli scritti e pubblicati (se sono pubblicati…) da me e da Guido Michelone, ma un posto, per esempio un giornale, dove io possa leggere le cose sulla musica elaborate da uno che ha una storia in quel campo, che ne ha fatto o dovuto fare un mestiere, un posto così mi serve. Poi preferirei che chi lo occupa non fosse definito critico ma cronista/opinionista come io definisco me. Però sia chiaro: non credo che il racconto+giudizio e la riflessione sulla musica possano essere sostituiti da polpettoni che catalogano fenomeni musicali passati e presenti.
D E hanno ancora un senso parole come jazz, rock, folk?
R Le musiche oggi, quelle «dotte» e quelle non «dotte», quelle «d’arte» e quelle… che cosa? senz’arte?… ci accorgiamo per l’ennesima volta che queste distinzioni e classificazioni non hanno senso – le musiche oggi sono molto spesso impure o meglio molteplici, richiamano tradizioni diverse e le mettono assieme. Detto ciò, non è così difficile capire che una certa musica è assai più jazz di quanto sia folk o rock, troverei un po’ come l’esasperato politically correct non usare più questi termini quando è ben udibile che designano correnti o tendenze che esistono.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora la politica nelle nuove sonorità americane, asiatiche, africane, europee, oceaniche?
R Impegnata e sperimentale non sono la stessa cosa. Io sono per abolire il termine impegnata inteso come musica che si ispira direttamente a fattori politici magari rivoluzionari e intende “rappresentarli”, farne il contenuto descrittivo. Anche se ho intitolato “engagé!” un capitolo del mio libro “Questa sera o mai” (Fazi, 2003) dove, però, in una delle parti del capitolo descrivevo come ideale di una musica “impegnata”, un ideale del tutto immaginario, “uno stadio da pallacanestro, buio, dove il film di Billie Holiday che dialoga in musica con Lester Young viene proiettato su un unico schermo circolare”. Sperimentale è quello che dovrebbe essere la musica che viene fatta, così come le esistenze delle persone, in una visione piuttosto deleuziana del “divenire sperimentali”. Probabilmente non è molta la musica di tutti i tipi che viene fatta con il desiderio che sia sperimentale. Ma c’è, non capisco chi grida alla morte di questo modo di far musica, forse sono tipi che lamentano di ascoltare solo musica “disimpegnata”, cioè musica che magari non prenda spunto dai 50.000 morti di Gaza e li voglia evocare (e dio solo sa quanto questo sia per me un fatto talmente enorme da farmi pensare che segni un’epoca, che designi un passaggio storico tremendo come fu a suo tempo la Shoah). Che poi non è vero nemmeno questo, cioè che circoli solo musica “disimpegnata”, basta aver sentito un rapper a Sanremo gridare/cantare “Stop genocide!”. La musica sperimentale non è morta, all’ultima Biennale Musica si è ascoltato Tyshawn Sorey in un recital di pianoforte: purtroppo (solita salute scarsa) non c’ero ma so per certo che ha suonato con spirito di ricerca, di comunicabilità non convenzionale, di desiderio di espandere gli assiemi di suoni verso una sensibilità comune diversa da quella dominante. Cioè so per certo che ha suonato musica sperimentale. L’opera per 4 sax di Anthony Braxton presentata in quattro diverse città europee (due italiane) nel 2022 con platee sempre “sold out” non è forse sperimentale, anche se contiene molti elementi di sintesi del lavoro creativo di tutta una vita? E poi ci sono rapper indisciplinati un po’ ovunque, e alla stessa Biennale Musica 2024 il Leone d’oro è andato a una compositrice, Rebecca Saunders, che è tutto meno che convenzionale, che proietta nei suoi brani una tensione verso la ricerca e verso un’emozionalità “ulteriore”.
D Tu da sempre nei tuoi interventi scegli un approccio sociologico (marxista?). Perché oggi la critica non è più quella ‘schierata’ combattiva come una volta (tolto ‘Il Manifesto’)?
R Non uso affatto un approccio sociologico, si dovrebbe dedurre dalla risposta precedente. Marxista? Non ritengo Marx un pensatore (e rivoluzionario) da seppellire, anzi, il suo metodo (occorre soprattutto guardare al metodo dei pensatori passati e presenti, vale per Marx come per Freud) è vitalissimo, mi viene in mente come prima cosa la sua critica dell’ideologia. Marx in molte università americane e inglesi viene studiato tra i principali e con lui Antonio Gramsci, Walter Benjamin, Antonio Negri, Giorgio Agamben. Chissà che qualcosa del pensiero di questi signori mi frulli per la testa quando scrivo i miei pezzulli sulla musica. Ma scrivo partendo dai suoni, considero l’oggetto del mio scrivere i suoni e il loro collegarsi, spesso nelle opere contemporanee il loro desiderio di autonomia, di non collegamento. Analisi/racconto dei suoni, ecco cosa cerco di fare. I suoni, l’assieme dei suoni, però, non sono un fattore neutro, c’è in alcuni casi un procedere verso il ”divenire sperimentali”, appunto, che in altri casi non c’è (dal mio angolo di visuale, s’intende). Nella musica, partendo dai suoni, si può combattere la “battaglia delle idee”. Basandosi, sui suoni, ripeto.
D La musica deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici? Se sì, quali musicisti – secondo te – l’han fatto meglio?
R Già ho risposto, credo. La musica non è che “deve” riferirsi direttamente ai temi extramusicali, è logico che la sensibilità verso questi temi influenzi i processi di produzione di specifiche musiche. Tra chi vi si è ispirato in certo senso programmaticamente mi viene in mente il Sonny Rollins di “Freedom Suite”, grande opera, ma il Miles Davis elettrico è stato un interprete del tempo, del contemporaneo (inteso, alla Agamben, come dissenso rispetto al proprio tempo) sensazionale, così come Bob Dylan (“prima” e “dopo”), così come Luigi Nono, ma più in “Prometeo” e in “Fragmente – Stille, An Diotima” che in “Intolleranza 1960” o “Il canto sospeso”, un po’ segnate dal didascalismo.
D E il jazz ha un’ideologia? Deve essere ‘impegnato’? L’album jazz più impegnato o politico che tu abbia sentito?
R Lo spirito del jazz è anticonformista, progressista, spesso rivoluzionario. Ovvio che ci sono tanti mestieranti del jazz, tanti bravi intrattenitori, tra questi ultimi succede che alcuni fanno riemergere lo spirito rivoluzionario del jazz anche senza volerlo, il fatto è che questo spirito è molto forte. Citare un album, si sa, è difficile. E per me, come ho detto, impegno è “divenire sperimentali”, mi viene in mente, così di colpo, “Conspiracy” di Jeanne Lee.
D Come vivi tu la musica oggi in Italia anche in rapporto alle tue esperienze ormai cinquantennali?
R Con irritazione per il fatto che nella musica “colta” prevale il repertorio, le musiche del passato. Grandi istituzioni come Santa Cecilia a Roma per intere stagioni arrivano a stento a un paio di autori del ‘900 moderato. Ma è inutile irritarsi più di tanto, va così da decenni, da più di un secolo sicuramente, non in modo così ignobile come in Italia ma un po’ in tutto il mondo occidentale (in altre latitudini non so). In campo jazz prevale la routine e prevalgono i giovani italiani (spero che abbiano smesso di lamentarsi per l’esterofilia dei cartelloni) e per trovare qualcosa di interessante nelle stagioni tipo Musica per Roma si fa fatica. Ovviamente rimpiango i tempi di “Gong” e di Umbria Jazz di un paio di edizioni degli anni ’70, ma fare il nostalgico non è il mio mestiere, quindi sto attento a catturare i pochi momenti in cui la ricerca del contemporaneo è viva. Purtroppo seguo poco e niente la scena pop (intesa in senso largo) ma questo è un limite che ho da ormai tanto tempo, lo so che è un limite ma non ho più le forze per recuperare.
D Cosa pensi tu dell’attuale situazione – governo Meloni – in cui versa la cultura italiana (di cui la musica ovviamente fa parte da anni)?
R Abbiamo un governo fascista che cerca in modo confuso di imporre una cultura fascista. Non ci riesce come vorrebbe, si ritira, concede spazi che la cultura non conservatrice ha ancora. Si inventa questo Giuli che farà di tutto per accreditarsi come uno che promuove cultura fascista e cultura non fascista, con uno stile accademico che sfiora il ridicolo. In campo musicale c’è da aspettarsi che una Beatrice Venezi abbia importanti incarichi, poi non penso che ci sarà bisogno di tanti ritocchi meloniani, il panorama istituzionale è già conformista da tempo (a differenza di ciò che si osserva o si osservava nei campi di altre arti). Come sempre si andrà in cerca dei ribelli, a questo punto dei resistenti.
