Francesco Venerucci con «Indian Summer», il jazz contemporaneo nella sua espressione migliore (Alfa Music, 2024)
I componimenti di Venerucci mantengono sistematicamente un legame privilegiato con l’eleganza formale, sono levigate, calibrate e scorrevoli, ma nascono da una complessità armonica ricercata e mai banale, in cui le sfumature sonore ed i cromatismi dilatano lo spettro del jazz arricchendolo di essenze molteplici, pur senza mai deragliare verso altri sistemi o metalinguaggi finitimi.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Francesco Venerucci è un musicista dal ricco corredo genetico, il cui DNA creativo e compositivo emana filamenti sonori che si dipanano in più direzioni. Il pianista romano, classe 1972, vanta un background di esperienze, collaborazioni e produzioni che travalicano vernacolo jazzistico. Come si evince dalle note biografiche, Francesco ha al suo attivo un vasto catalogo compositivo che va dal jazz (songs, big band, orchestrazioni), alla musica classica/contemporanea (musica da camera, sinfonica, opera, balletti e musiche di scena). Da sottolineare il suo interesse per il tango che l’ha portato ad essere uno tra i più richiesti arrangiatori delle musiche di Astor Piazzolla.
Il suo nuovo album «Indian Summer», pubblicato da Alfa Music, dimostra quanto sia importante la ricerca sull’improvvisazione e sulla composizione in riferimento alla musica afro-americana – tra le sue influenze ci sono Harold Mabern, Wynton Marsalis e Barry Harris – e quanto Venerucci sia l’espressione dinamica di un jazz contemporaneo che rispetta la tradizione proiettandosi in un futuro a trazione anteriore. In tale circostanza il pianista viene supportato da tre affidabili compagni di viaggio: Javier Girotto sassofoni e flauti, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria. Il disco si sostanzia attraverso dieci composizioni inedite che confermano l’indole autorale di un musicista sorgivamente predisposto alla scrittura e riluttante al coverismo sfrenato, al triburarismo e allo sfruttamento intensivo delle produzioni altrui, ancora forse troppo in uso in taluni settori del jazz europeo ed italico. In una vecchia intervista Venerucci sosteneva: «Questa cosa di riprodurre la musica altrui, non è stato mai il mio forte, fortunatamente, in quanto ha costituito la spinta ed il pretesto per iniziare a scrivere le mie prime composizioni».
I componimenti di Venerucci mantengono sistematicamente un legame privilegiato con l’eleganza formale, sono levigate, calibrate e scorrevoli, ma nascono da una complessità armonica ricercata e mai banale, in cui le sfumature sonore ed i cromatismi dilatano lo spettro del jazz arricchendolo di essenze molteplici, pur senza mai deragliare verso altri sistemi o metalinguaggi finitimi. Un lavoro intenso ed una squisita sensibilità che innesca l’idea di una musica visiva che sviluppa immagini e suggestioni man mano che si manifesta avvolgendo il fruitore in una spirale di emozioni. L’opener, «I Funamboli» è un costrutto di grana finissima introdotto dal piano e corredato da una melodia a facile combustione, su cui il soprano ricama il tessuto sonoro con un punto di cucitura delicato ed evocativo. «Il Tempo Stinge», annunciato dalla batteria di Fioravanti, viene immediatamente travolto da un’ostinata raffica di sax-led in modalità funkiness, mentre si arricchisce di contrafforti soulful attraverso la narrazione del piano di Venerucci, a cui, dopo un cambio di passo, fa da contraltare il sassofono di Girotto per una breve improvvisazione esplorativa, per poi riproporsi ancora attraverso una sequela di riff taglienti, mentre la retroguardia non lascia aria ferma. «El Chiquiriṅo» ha il sapore di una danza esotica, rievocando talune architetture atemporali alla Dave Brubeck, in un intrigante gioco di ruolo piano-sax magnificato da un impeccabile groove elargito con generosità da basso e batteria. «Just A Ballad», non potrebbe essere diversamente, è una ballata intima e brunita, dalla melodia a presa rapida, il cui tema viene introdotto dal piano del band-leader e fortificato da Girotto che, come ogni sassofonista di rango, esprime al massimo le proprie attitudini di balladeer, mentre il piano secerne note appassionate mai fuori misura.
«Piccadilly Circus» appare come un componimento avvolto in un’aura di mistero e di piacevole inquietudine, ricco di influenze filmiche, le quali tradiscono l’attitudine di Venerucci alla narrazione per immagini, mentre il basso di Ferrazza ne arricchisce i contorni cinematici, complice un sax malizioso ed intrigante. «Le Stagioni» è un costrutto progressivo in crescendo, segnato da un intro quasi cameristico che mette in evidenza le capacità esecutive del leader ed il rinnovato gioco delle parti con il sax di Girotto spintonato da una sezione ritmica che non fa prigionieri e da un susseguirsi di cambi di mood, i quali rappresentano abilmente il susseguirsi delle stagioni. «Dream» – come dire nomen omen – è una ballata dai colori autunnali, un volo leggiadro sulle ali di una farfalla tra sogno e realtà, dove ancora una volta pianoforte e sax si fanno promesse per l’eternità. «La title-track», «Indian Summer», che in italiano corrisponde alla cosiddetta «Estate di San Martino», ossia uno sprazzo di tepore estivo in pieno autunno, si avvale di una narrazione sonora evocativa e fitta di mille suggestioni. «Girotondo» è un saltello funkified arricchito di essenze mediterranee, in cui il sax di Girotto volteggia supportato dal compatto substrato ritmico-armonico della retroguardia, fino all’arrivo del piano di Venerucci che zampilla per onde concentriche, liberando il kit percussivo di Ettore Fioravanti che propizia un finale incisivo e metropolitano. In chiusura, «Lament Song» una flautata ed intima ballata dal sapore esotico che scava nel baratro delle emozioni. «Indian Summer» di Francesco Venerucci è un lavoro di rara bellezza, dove il garbo e la classe della partitura scritta e suonata, l’interazione fra i sodali e l’intensità dell’improvvisazione danno vita ad un album di jazz mainstream proiettato su un’ampia piattaforma contemporanea.