Il Miles Davis di James Kaplan, intervista esclusiva di Barbara Gallinaro

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James Kaplan

Barbara Gallinaro del Master in ‘Editoria e produzione musicale’ (IULM Università di Milano) dialoga con il celebre James Kaplan che ha da poco pubblicato un nuovo libro su Miles Davis.

James Kaplan, scrittore, giornalista e biografo newyorkese, nasce come romanziere. Scrive Pearl’s Progress (1989), The Airport: Terminal Nights and Runway Days at John F. Kennedy International (1994) e Two Guys from Verona: A Novel of Suburbia (1999). Negli ultimi anni si è concentrato sulla scrittura di biografie di musicisti statunitensi – tra una dedicata al celebre autore di canzoni Irving Berlin e una particolarmente ampia, divisa in due volumi, dedicata a Frank Sinatra – e ha raggiunto le vette delle classifiche americane con un libro su Miles Davis. La seguente intervista, alla cui preparazione ha partecipato anche Liliana Prestia, si focalizza proprio su 3 Shades of Blue: Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans and the Lost Empire of Cool, il nuovo best seller dell’autore, appena edito negli USA da Canongate.

D Come ha fatto un libro su Miles Davis a diventare un grande successo editoriale?

R Per prima cosa dobbiamo analizzare la questione usando parametri quantitativi più specifici. Il libro ha avuto molto successo negli Stati Uniti, in particolare nelle librerie indipendenti. Ciò significa che su Amazon, ad esempio, ha venduto bene, ma ha avuto più successo nelle librerie indipendenti, e questa è un dato specifico degli USA: le librerie indipendenti sono sempre in pericolo, minacciate dalle grandi catene come Barnes & Noble, e da siti come Amazon. Quindi sono lieto di aver avuto successo proprio lì.

D E a cosa è dovuto tutto questo successo? Di sicuro l’importanza di Miles Davis, John Coltrane e Bill Evans gioca la sua parte, ma probabilmente lo fa anche l’importanza dello scrittore. Altri libri che trattavano argomenti simili non hanno venduto così tanto.

R Grazie, è piacevole pensare che a questo punto della mia carriera io abbia un certo franchise, un pubblico impaziente di leggere ciò che scrivo. Non sono sicuro di averlo, ma sono sicuro che parte del successo sia dovuto a una cosa un po’ bizzarra, cioè il sottotitolo del mio libro. Il sottotitolo originale era Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans e il sogno perduto del Jazz. E ho cambiato il sottotitolo da Il sogno perduto del Jazz a L’impero perduto del cool. Ritengo che cool sia una parola molto importante, almeno nel mondo anglofono, e ha diverse definizioni, ma per me è una qualità apprezzata universalmente, soprattutto tra le generazioni più giovani negli Stati Uniti. E la mia è stata una sottile provocazione: ho voluto scegliere una parola che attraesse altri lettori oltre agli appassionati di jazz.

D Nel suo libro Sinatra: The Chairman, una delle sue opere letterarie più apprezzate, lei parla di The Voice in modo molto serio, trasformando la sua biografia quasi in un caso di studio, documentato e annotato – come detto dal New Yorker –, senza escludere il pettegolezzo e quanto Sinatra sia stato uno dei primi esponenti della cultura pop in un’epoca in cui i tabloid o i social media non esistevano. Pensa che dopo Sinatra sia mai esistita un’altra figura pop che abbia suscitato tanto scalpore durante la sua carriera?

R Sì. Numerosi. Ma Sinatra è stato una sorta di pioniere. È arrivato ed è diventato una superstar negli Stati Uniti, e poi oltremare, attraverso diversi media. Non solo nella musica registrata ma in radio, nel cinema e, rapidamente, anche in televisione. E ha aperto la strada per altri, come Elvis Presley solo un decennio dopo, o qualche tempo dopo Madonna, ma erano tutte persone che come lui attiravano l’attenzione senza sforzi e senza l’aiuto dei tabloid. Sinatra era unico. Unico nell’avere un così ampio raggio di talenti, unico anche perché era un avido consumatore di articoli di cronaca, ed era unicamente combattivo quando l’opinione pubblica era contro di lui. Era unico perché faceva da parafulmine, era costantemente e sfacciatamente protagonista delle notizie, un po’ perché era un donnaiolo, un po’ perché era spesso associato alla Mafia – che era molto influente negli States negli anni Quaranta – e anche per il suo essere combattivo. Capitò anche che fosse coinvolto in risse con giornalisti di cronaca. Con queste premesse, bisogna sottolineare il fatto che Sinatra era un prodigio della musica e questo gli venne riconosciuto dal mercato, consciamente e inconsciamente, e dalla maggior parte dell’America. È stato, probabilmente, il più grande interprete dei nostri tempi. È un’affermazione forte.

D Lei è nato come romanziere ed è passato poi a scrivere biografie e articoli. Com’è per uno scrittore affrontare questo passaggio? È stato facile per lei?

R Per me è stata un’esigenza professionale. Ho iniziato precocemente, molto giovane, a pubblicare racconti brevi per il New Yorker Magazine. Riuscire a scrivere per il New Yorker è il Sacro Graal per molti giovani scrittori, e io avevo la piacevole illusione che continuare a scrivere racconti per il New Yorker fosse abbastanza per mantenermi. Ma come dice John Lennon, “La vita è ciò che ti accade mentre sei intento a fare altri progetti”.

D Cosa ne pensa, a proposito del sottotitolo del suo libro, del disco della Capitol Birth of the Cool che contiene un brano celebre come Boplicity?

C’è un’importante distinzione da fare riguardo a Boplicity e le Birth of the Cool sessions. Questi brani sono arrangiati e condotti da Gil Evans, un arrangiatore e compositore canadese con cui Miles legò e iniziò a collaborare. La differenza tra, ad esempio, Boplicity e qualsiasi altro brano bebop, come Now’s the Time di Charlie Parker, è che il bebop era improvvisato. Le sessioni di registrazione di Birth of the Cool non lo erano. I musicisti avevano degli spartiti. E ciò suscitò diverse critiche, tra cui quelle del trombettista Dizzy Gillespie. Miles era interessato a questo tipo di musica già agli inizi della sua carriera, ma passò oltre velocemente, sperimentando con l’improvvisazione, mettendo insieme quintetti e sestetti. Però tornò da Gil Evans in un paio di occasioni nel corso della sua carriera. Soprattutto quando firmò per la Columbia Records dischi quali Sketches of Spain e Porgy and Bess, entrambi arrangiati da Gil Evans.

D Lei non solo ha scritto un libro su Miles Davis, ma ha avuto anche l’occasione di intervistarlo e conoscerlo.

R La sua carriera era molto avviata, mentre la mia era appena cominciata. Fui abbastanza fortunato da ricevere questo incarico da Vanity Fair Magazine sotto circostanze che definirei fraudolente. Fui presentato a Vanity Fair come un esperto di jazz quando, in realtà, non ne sapevo quasi nulla. Ero molto giovane ed ero terrorizzato. Miles veniva chiamato “il principe dell’oscurità” perché non nutriva simpatia per le persone bianche, perché sembrava molto arrogante durante le sue esibizioni, durante le quali voltava le spalle al pubblico, specialmente se bianco. Ed eccomi, un ragazzo bianco, lì per intervistare il principe dell’oscurità. Ma Miles fu molto disponibile e sorprendentemente gentile nei miei confronti.

D Qual è il primo album di Miles Davis che ha ascoltato da giovane? Come l’ha scoperto?

R Io sono cresciuto negli anni Sessanta, amavo il rock and roll, il blues, i Beatles, sapevo qualcosa sulla musica classica ma non sapevo nulla sul jazz. Il mio primo album di Miles fu Filles de Kilimanjaro, che ascoltai nel dormitorio di un amico quando ero al college. Mi colpì e decisi di comprarlo.

D Ma tornando al concetto di cool. Cos’è il cool? Si tratta di jazz? O del concetto di cool che è ormai diffuso nelle generazioni più giovani? Il termine è recepito anche dalla pubblicità, in Italia ad esempio ci sono un paio di pubblicità nelle quali il termine viene utilizzato per riferirsi a una persona molto brillante e disinvolta. Cos’è il cool per lei?

R Il cool è tante cose. È un termine vaporoso, che se definito più precisamente, adotta diversi significati per diverse persone. Ciò che dirò è che il secondo dopoguerra, diciamo gli anni Cinquanta in America, sono noti per essere un periodo di conformità. Gli anni di Eisenhower. Questa caratterizzazione si riferisce alla classe media bianca. Nel mio libro mi riferisco, però, a musicisti neri, che vivevano una realtà diversa da quella dell’America conformista anche da un punto di vista artistico. La pittura espressionista, Kerouac, il cool nella letteratura. Era un periodo di ribellione in America e nel resto del mondo e il jazz in qualche modo faceva parte di questa ribellione. Nel corso della mia carriera ho avuto l’opportunità di intervistare Sonny Rollins e c’è una cosa affascinante che ha detto durante l’intervista, riferendosi all’eroina. Miles aveva una dipendenza dall’eroina, Coltrane aveva una dipendenza dall’eroina, Bill Evans lo stesso e così anche Sonny Rollins. E intervistando Sonny Rollins mi aspettavo commenti critici, negativi, riguardo l’eroina. La prima cosa che disse, invece, fu che l’uso di droghe era la “loro”, riferendosi ai musicisti neri, forma di ribellione.

D Nel libro parla molto anche di Gillespie e del bebop. Ma parliamo un po’ anche di John Coltrane: era completamente diverso da Davis, no?

R Coltrane era un uomo triste. Dovette affrontare diverse perdite nella sua vita, perse suo padre da giovane e in seguito altri parenti e amici. Era un uomo profondamente serio, che si esercitava incessantemente con il sassofono. Era anche molto modesto, a differenza di Miles Davis. Per i primi dieci anni della sua carriera rimase sconosciuto: suonava con diverse band R&B, suonando mentre camminava in giro per i bar. Coltrane si impegnò per liberarsi dall’influenza di Charlie Parker: Parker ebbe un’enorme influenza artistica sul jazz e su tutti i sassofonisti.

D Nel disco Kind of Blue, Miles Davis propone un nuovo concetto di cool.

R Sì, questa nuova dimensione del cool si “scalda”, ma allo stesso tempo resta cool. Qualcosa che si sente solo in Miles Davis. Come se fosse il simbolo yin yang. Due opposti che esistono simultaneamente nella musica di Miles Davis. C’è qualcosa in Kind of Blue, l’album jazz più venduto di sempre e indubbiamente l’album jazz più amato di sempre, una convivenza del cool e di un certo calore allo stesso tempo.

D E sulla vita privata di Davis cosa possiamo dire? Lui ebbe una lunga relazione con Francis Taylor, una nota danzatrice e una donna molto intelligente.

R Francis Taylor ottenne un ruolo in West Side Story a Broadway e Miles Davis la obbligò a lasciare la parte perché “una donna dovrebbe stare vicina al suo uomo”. Penso che Miles Davis possa essere comparato a Picasso sotto molti punti di vista: l’irrequietezza artistica… l’irrequietezza in generale. Nell’arte, nell’amore, nell’amicizia. Miles non trattava bene le donne: era violento, così come Picasso. È difficile separare la bellezza dell’arte dall’orrore dell’artista a volte. La relazione di Davis con Francis Taylor era molto interessante. L’amava profondamente, la trovava attraente e talentuosa, tanto da metterla sulla copertina di qualche album. Ma era forse troppo pazzo di lei, tanto da farla scappare. Una volta Francis Taylor disse di trovare Quincy Jones attraente e Miles la colpì. E proprio in quell’occasione lei se ne andò da casa loro e non ci tornò più.

D Nel libro descrive i primi stadi della carriera di Bill Evans, ha avuto occasione di vederlo all’epoca?

R Non ho mai incontrato Bill Evans o John Coltrane. Bill Evans inizia come pianista classico. Ammirava i compositori moderni come Rachmaninoff, Stravinskij, Ravel. Ma si innamorò del jazz. Abbandonata la musica classica, si trasferì a New York nel 1955 con l’obiettivo di sfondare nel jazz. Suonava a balli e matrimoni ma fu anche ingaggiato al Village Vanguard a New York, nel Greenwich Village. Suonava negli intermezzi del Modern Jazz Quartet, già molto famoso. Il pubblico non prestava molta attenzione alle sue esibizioni: durante le esibizioni del quartetto il pubblico ascoltava in silenzio, ma non appena Bill Evans cominciava a suonare si alzava il chiacchiericcio del pubblico. Una sera, mentre provava a farsi sentire, Bill Evans alzò la testa dal pianoforte e incrociò lo sguardo penetrante di Miles Davis, che lo stava ascoltando attentamente. Davis era innamorato della musica di Bill Evans, capitava che gli telefonasse in piena notte per farlo suonare perché aveva bisogno di ascoltarlo per addormentarsi.

D Cosa pensa del jazz di oggi?

R La mia risposta si divide: il jazz nasce negli anni Cinquanta come musica popolare e poi diventa musica d’arte. Viene rapidamente messo da parte con l’avvento del rock & roll. Parlando ovviamente dell’America. E l’America diventa la “terra delle mille tribù”. E il jazz è una di queste mille tribù, diventa una musica più specialistica. Detto questo, ci sono moltissimi musicisti jazz di talento. Anche giovani. Esperanza Spalding, Samara Joy… Ottimi vocalist oppure ottimi pianisti, come Robert Glasper, e sassofonisti come Kamasi Washington, e potrei continuare. Il jazz era musica da club, si ascoltava al lume di candela, attorniati dal fumo. E il jazz è sopravvissuto, diventando musica “accademica”. Molte accademie producono musicisti jazz di talento, che poi a loro volta insegneranno. È un circuito chiuso. Il jazz, in America, non è più il genere nazionale che era una volta. E oggi, una cosa meravigliosa del jazz è l’influsso di donne, vocalist e strumentiste, che negli anni Cinquanta e Sessanta non c’erano.

[Editing del testo a cura di Guido Michelone]

Barbara Gallinaro

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