Bruno Marzi: Miles Davis è il jazz, compresa la sua ipocondria

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B.B.King & Bruno Marzi

di Guido Michelone

D In tre parole chi è Bruno Marzi?

R Un pedalatore della musica, direi passista-scalatore. Ovviamente un fotografo, un giornalista e per molto tempo anche un radiofonico.

D A che età e come hai scoperto la musica e con quali brani o musicisti?

R L’ho scoperta subito per molti motivi: di famiglia, di assimilazione spugnesca e forse per predisposizione. Ricordo Jerry Lee Lewis, urlatori come Tony Dallara, qualcosa dai V-Disc ma non ricordo. Forse Glenn Miller. Ero piccino…

D Raccontaci in breve la tua attività professionale.

R Attualmente è molto diluita anche per il fatto che non c’è più molto da scoprire. Meglio fare mostre di qualità e cercare, invano, di sistemare l’archivio. Per quanto riguarda il giornalismo, mi diverto un po’ online.

D Ti consideri più critico/scrittore o più fotografo/artista o altro ancora?

R Diciamo che sono ancora abbastanza multitasking. Insomma, lungi dal rincoglionimento.

D Essendo una rivista di jazz, ti ricordi più o meno tutti i jazzisti (compresi cantanti) che hai fotografato?

R Moltissimi, e in situazioni casuali o paludate. Vado a memoria. Per Ciao 2001, credo fosse il ’77, feci un corposo articolo, con foto, che si intitolava “Tutte le stelle del jazz”. Era il famoso “Montreux Summit” da cui fu tratto un doppio lp per la CBS. Elenco infinito di superstar. Poi sempre nella fusion e nello stesso periodo ricordo Stanley Clarke, e più avanti i Weather Report con Pastorius. Parecchie serate al vecchio Capolinea, con i classici Gianni Basso, Ambrosetti, papà Liguori alla batteria e via dicendo. Ricordo Steve Lacy assieme a Steve Potts su un barcone in riva alla Senna in un posto in cui trenta persone stavano strette. E poi gli AEOC ancora nei line up storico. Elvin Jones e Charles Mingus visti a Bergamo ma non fotografati, come anche il primo Ray Charles al Lirico di Milano. Ero giovanissimo. Tante le voci, ma nomino Jarreau, Mc Ferrin e la Vaughan.

D C’è qualche episodio curioso legato a qualche jazzista?

R Tra le mie primissime foto, in bianco e nero (ma poi la malattia mi è passata…) ci furono quelle fatte a Jerry Mulligan al teatro Civico di Vercelli, la volta che gli consegnarono il Rosone d’Oro del Sant’Andrea. Però non trovo più i negativi. Solitamente, saltano fuori quando non servono più. Ricordo, me presente, un’epica litigata tra David Zard e il manager dei Weather Report. Eravamo al Comunale di Firenze, e aveva piovuto per diverse ore. Il concerto fu solo ritardato, ma il manager americano voleva far saltare la prima parte con il Perigeo. Zard si incazzò come non l’avevo mai visto. Disse una cosa come: “Sono io che ti pago e sono il manager di un gruppo eccezionale!”.Ovviamente il Perigeo suonò.

D Ad esempio cosa ci dici su Dee Dee Bridgewater vincitrice di un Sanrem o(con i Pooh)?

R La Bridgewater è sempre stata trasversale e anche pop in Italia, Paese amatissimo. Ricordo che parliamo del 1990.Il manager Sanavio, su incarico della Rai, in due settimane radunò un cast notevole, e ben pagato, per le “seconde versioni” dei brani in gara. Ricordiamoci di Cutugno con Ray Charles che seppe trovare il un battibaleno delle splendide armonizzazioni che fecero della sua versione un unicum per puro talento.

D C’è una tua foto con B.B.King come due vecchi amiconi: cosa ricordi?

R C’entra ancora Sanavio, che ricordo sempre con affetto. Quando qualcosa non andava, e succedeva spesso, la sua frase risolutiva in puro veneziano era: “Fasemo un manicomio!”. Quella sera niente manicomio ma dovevo fare un’intervista al grande bluesman, ma lui era particolarmente ben disposto e si fini a risate e abbracci.

D Hai anche fotografato il mitico Miles Davis che spesso non voleva farsi fotografare…

R Miles Davis è il jazz, compresa la sua ipocondria e l’atteggiamento diciamo “complicato” sul palco, negli ultimi anni, suonando con luci basse e dando le spalle al pubblico. Uno come lui, grande tra i grandi – penso agli inizi con Gillespie – poteva fare quello che voleva. E così ha suonato anche con Zucchero in “Dune mosse”. Scambio di tracce tra la via Emilia e New York, qualche soldino, ma poi l’artistone, tutto sommato, ha suonato volentieri con lo stesso Fornaciari a Viareggio e Rimini. Le foto? Beh, con quella faccia un po’ così, il ricciolo incollato…

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz? Se sì perché?

R Ha sempre senso, e per un motivo molto semplice. Il jazz, in qualsiasi forma si presenti, parte da una grande maestria tecnica che solo così può permettersi di trasformarsi in gioiosa improvvisazione. In questo senso è molto simile al rigore della musica classica. Dovrebbe essere così per ogni genere musicale, ma purtroppo oggi viviamo nel Regno dell’Autotune.

D Che idea hai tu del jazz quale espressione artistica e culturale?

R La visione romantica del piedino che batte e del whisky on the rocks ha avuto per lungo tempo un suo perché. La trasformazione nel secondo Dopoguerra in affare economico e divistico – cum grano salis – e quindi appannaggio di nuovi e differenti circuiti, ha fatto il resto. Un po’ come per la Stax nel soul, per esempio la Pablo Records di Claude Nobs ha venduto ottimamente dischi comunque di spessore artistico, che hanno acquisito un nuovo pubblico. Questo, sic et simpliciter, è anche un grande salto culturale.

D Esiste secondo te un jazz italiano a livello musicale? E uno europeo? Cosa

li contraddistingue dagli americani?

R Certo che esiste! È sempre esistito. Nel periodo fascista i musicisti, e i cantanti come Natalino Otto e gli stessi primi Cetra, hanno saputo fare una “resistenza” oscura ed efficace contando molto anche sull’ignoranza dei gerarchi, i quali non capivano cosa fosse quel continuo “terzinato”. Nel secondo Dopoguerra, come già premesso, i V-Disc e i militari americani, specie a Napoli,seppero allevare (in alcuni casi anche in senso letterale) le giovani nuove leve dello swing. Cito Carosone per tutti. Jazz italiano ed europeo? Basti pensare a Petrucciani, e agli italiani come Basso, Valdambrini, De Piscopo, lo stesso Cerri, e via dicendo. La differenza con gli americani è la mescolanza di blues e melodramma.

D Dei lavori fotografici da te intrapresi quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari per il tuo contributo all’immagine della musica o el musicista?

R Le numerose copertine di album e libri in molti casi diventano la prosecuzione di un idem sentire tra, se permetti, due artisti con un fine comune. In questo senso sono orgoglioso di aver contribuito a molti successi. Per rispondere meglio alla domanda faccio un paradosso. Da molto tempo ho escluso dai miei itinerari fotografici gli artisti – o presunti tali – che non ammiro e i personaggi che sono solo tali e basta,senza regalare o creare qualcosa di reale, concreto e artistico.

D Qualche altro aneddoto buffo o curioso in tutta la tua carriera?

R Sai, è dal 1975 che ci do dentro, e prima ancora con tv via cavo e radio. Per cui praticamente ogni volta che interagisco con qualcuno succedono cose strane o assurde. Nel passato, quando si vendevano tanti dischi e in molti “se la tiravano”, la cosa più divertente e che succedeva spesso riguardava la memoria scarsa di discografici, manager e artisti. Succedeva a volte che ti veniva impedito, per una ragione o l’altra, di fare un lavoro o parte di esso. Succedeva poi, ad anni di distanza, che quelle persone che ti avevano messo il bastone tra le ruote ti chiedessero. “Ma allora, le foto di quella volta là me le fai vedere?”…

D Con quali modalità (anche personali) ti rapporti con i tuoi ‘colleghi’

fotografi di altre città?

R Siamo un club abbastanza ristretto di “vecchie carogne” che si vogliono bene. Qualcuna dei Nostri, purtroppo, non c’è più. E’ difficile avere cose in comune con i “nativi digitali” (ovviamente parlo di fotocamere) per svariati motivi. Questi volonterosi ragazzi spesso non hanno una base prima culturale e poi tecnica, essendo più semplice lavorare in autofocus e display rispetto a rullino e esposizione “creativa”.. Hanno costi comunque alti per le attrezzature, ed accettano condizioni economiche, quando li pagano, umilianti

D E con critici, giornalisti o con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?

R Ripeto: i tempi negli ultimi dieci anni sono cambiati radicalmente, e il reciproco mutuo soccorso d’antàn non esiste e non può esistere più. Rimangono, appunto, i vecchi compagni di cordata, con i quali parli la stessa lingua. I più simpatici e amicali, ultimamente, forse sono i ragazzi della Sicurezza, quelli storici che conosciamo da anni. Hanno apprezzato molto che, singolarmente e come categoria, li abbiamo sostenuti durante laa crisi del covid che li ha visti senza lavoro per due anni.

D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire ad accrescere o sviluppare una vera cultura musicale?

R Senza l’ingresso massiccio di personale scolastico specializzato, cioè musicisti et similia, non può succedere nulla. Poi, da cosa nascerebbe cosa. E’ sintomatico che, ogniqualvolta un genitore riesce a bloccare il figlio all’ascolto della “sua” musica, accade sempre un radicale cambio di prospettiva e una nuova e sana voracità conoscitiva

D Come ti relazioni all’oggetto disco, anche a livello personale (mi ricordo che da ragazzo avevi un sacco di 45 e 33 giri)?

R Per ragioni di spazio (e buona convivenza) anni fa feci una feroce selezione tra gli oltre cinquemila album. Ho gli stessi titoli in cd (quasi seimila) e per il resto mi sto riavvicinando al vinile. La cosa divertente è che una volta facevi il “giro” delle Case discografiche, e ad ogni sosta ti ritrovavi con un bustone pieno. Oggi rarissimamente gli addetti ai lavori ricevono l’oggetto. Tutto passa per link e file audio.

D Come penultima domanda, forse banale, ti chiedo una tua top five o top ten dei musicisti (pop, rock, folk, ciò che vuoi) più amati e, se ti va, dei tre dischi da isola deserta.

R Mi rifiuto per motivi religiosi… Non essendo credente ci scherzo volentieri, ma in effetti non ho una selezione interna e penso che sull’isola deserta penserei a cercare cibo e magari ululerei alla Luna!

D E un’ultima domanda o meglio un giudizio (anche sintetico) sull’Italia

meloniana di oggi a livello di arte e cultura

R L’Italia è fatta dagli italiani. In senso culturale, mi fa più paura Maria De Filippi della Meloni. E poi, tornando al jazz o giù di li, sulla Topolino amaranto si va che è uno schianto nel Quarantasei…

Bruno Marzi

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