Suonato più che “raccontato” . Il jazz secondo Federico Mutti, Bologna Jazz Festival

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Mutti

Federico Mutti

// di Guido Michelone //

Quest’intervista parla da sola: ed è lo stesso Federico Mutti, da me sollecitato, a ben definirsi in pochissime righe: “Sono un organizzatore di eventi culturali, la mia professione spazia dal campo musicale a quello cinematografico. Lavoro nel cinema da ventitré anni, e nel mondo della musica, tranne qualche sporadica collaborazione da ragazzo, da dodici anni come presidente di Bologna Jazz Festival”. Dati che parlano chiaro: l’organizzazione di iniziative artistico-culturali dal mondo delle sette note a quello delle immagini audiovisive e dal 2012 la Presidenza di un festival jazz storico, più volte ricostituitosi come quello nella ‘capitale’ dell’Emilia-Romagna. Attorno all’esperienza felsinea ruota questo nostro confronto, in esclusiva per i lettori di Doppio Jazz.

D In tre parole chi è Federico Mutti?

R Lavorativamente parlando? “Organizzatore musicale, cinematografaro”.

D A che età e come hai scoperto il jazz?

R Da bambino ascoltavo Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, poi verso la preadolescenza ricordo di avere sentito a casa di mio padre l’LP del Köln Concert e rimasi folgorato. Da adolescente Miles e Coltrane mi hanno aperto le porte su questo mondo. Ricordo anche musica che collateralmente mi ha influenzato: in casa si ascoltava anche musica brasiliana (essendo mia madre nata in Brasile e parte della mia famiglia brasiliana), e chiaramente il Samba, la Bossa Nova e la Musica Popular Brasileira portano al suo interno molte influenze del linguaggio jazz. Ricordo anche che ero pazzo per il tastierista dei Doors Ray Manzarek (soprattutto nei live), solo molti anni dopo, riascoltandolo, compresi che ciò che mi emozionava così tanto era proprio il linguaggio jazz che lo caratterizzava in maniera così smaccata.

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz? Se sì perché?

R Ovviamente ha senso, stiamo parlando della più importante rivoluzione musicale (nel senso stretto della musica) del Novecento, un linguaggio che può toccare qualsiasi genere musicale, che ovviamente è vivo e continua a evolvere.

D Dei lavori da te intrapresi quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari per il tuo contributo alla vita jazzistica?

R Sicuramente tutto ciò che abbiamo creato di collaterale al Bologna Jazz Festival. Parlo del progetto didattico, dedicato alla memoria di mio padre (rifondatore del Bologna jazz Festival scomparso nel 2012), che coinvolge licei, Conservatorio e Università; del progetto illustratori, nato dal gemellaggio con Associazione Hamelin, che organizza un importante festival di illustrazione e fumetto a Bologna e che nel corso degli anni ci ha portato a realizzare preziose collaborazioni con alcuni nomi di fama mondiale nel campo dell’illustrazione; della collaborazione con Cineteca di Bologna, con masterclass legate al rapporto tra il cinema e la musica (e dal momento che lavoro anche nel campo cinematografico, quando capita di riuscire a incrociare le due attività – che coincidono con due grandi passioni – mi ritengo molto soddisfatto e fortunato).

D In particolare quali o cosa ricordi meglio delle tue altre iniziative?

R Porto nel cuore due progetti speciali: uno è The Sound Routes, frutto del bando europeo “Refugees”, che ha realizzato l’obiettivo di individuare musicisti migranti, offrire loro la possibilità di suonare insieme e condurli in un percorso lungo quattro anni a suonare in giro per l’Europa tra Spagna, Germania e Italia. Il secondo progetto è Segnosonico, masterclass e performance collettiva degli allievi di Conservatorio G.B. Martini di Bologna, Liceo Musicale L. Dalla di Bologna, Accademia di Belle Arti di Bologna, Liceo Artistico F. Arcangeli di Bologna. Un progetto circolare in cui dodici studenti di arte disegnavano mentre dodici musicisti suonavano “immersi” in tempo reale nelle video proiezioni di ciò che i ragazzi stavano disegnando davanti a loro. La musica che influenza il segno, il segno che influenza la musica: da questa esperienza è stato prodotto anche un vinile accompagnato da un libro illustrato, i ragazzi erano entusiasti ed ha avuto un gran successo.

D Come si diviene e poi come si fa a essere a capo di un Jazz Festival?

R Tralasciando il fatto che io ricopro il ruolo di presidente della Fondazione Bologna in Musica, promotrice del BJF, e non di direttore artistico, non so se sono la persona giusta per rispondere a questa domanda: il mio esordio nel mondo dell’organizzazione di un festival avviene in maniera drammatica e rocambolesca, infatti nel 2012 è venuto a mancare in maniera improvvisa e inaspettata mio padre (che aveva solo 54 anni) ad appena a un mese di distanza dall’inaugurazione del Bologna Jazz festival, di cui lui era presidente, co-direttore artistico e rifondatore da sette anni. Non ho avuto nemmeno il tempo per pensarci, il BJF rischiava di chiudere, quindi con lo storico staff che lo aveva accompagnato nelle precedenti sei edizioni ho deciso di portare a termine quell’edizione subentrando come presidente dell’associazione da lui fondata, pensando che avrei passato successivamente il testimone a qualcun altro una volta terminata quell’edizione. A trentatré anni già lavoravo da dieci anni nel mondo del cinema – lavoro che tuttora porto avanti (sono direttore casting per film e serie Tv) – e non avevo alcuna intenzione di lasciare il mio mondo lavorativo. Prendere in mano il BJF però ha portato frutti inaspettati: prima di tutto è un lavoro di organizzazione, e negli anni precedenti avevo già collaborato in produzione per svariati progetti cinematografici, quindi un po’ di esperienza, per quanto diversa, l’avevo; in secondo luogo organizzare il BJF mi ha portato a mantenere in qualche modo un rapporto con mio padre proprio nell’ambito in cui eravamo più distanti, e questo è stato molto importante per elaborare e superarne il lutto.

D Parlaci quindi in qualità di presidente e non di direttore artistico, ruolo che ricopre egregiamente ormai da undici anni Francesco Bettini.

R Organizzare un festival non è semplice: va garantita al pubblico un’offerta artistica di qualità, ed essendo finanziati da enti pubblici va anche garantito l’accesso alla cultura per tutti con una gestione dei prezzi sensata, dobbiamo quindi effettuate scelte non solo seguendo i gusti personali, ma cercando di mantenere un equilibrio che possa essere accolto con entusiasmo dai nostri seguaci e contemporaneamente portando avanti la formazione del nuovo pubblico, obiettivo indispensabile su cui stiamo investendo molte energie e risorse.

D Qualche aneddoto buffo o curioso in tutta la tua carriera?

R Mio figlio che a sette anni, dopo aver preso qualche mese di lezioni di sax, dice a cena a Lee Konitz: “ho saputo che anche tu suoni il sax”. Poco dopo nel backstage Lee gli fece provare a suonare il suo, un momento davvero emozionante. Un paio di anni prima, nel backstage di Umbria Jazz, dove eravamo stati invitati, Caetano Veloso che tiene in braccio mio figlio e gli canta Leaozinho, avendo saputo che era stata la sua ninna-nanna da piccolino. Mio figlio non ne voleva sapere di scendere e Caetano lo tenne in braccio con piacere qualcosa come altri dieci minuti mentre salutava tutti gli ospiti presenti all’entrata dei camerini. Volevo seppellirmi, ma lui, quanta umanità…Molti anni prima – c’era ancora mio padre – un gruppo di musicisti americani di cui non posso riferire il nome, mi trascinò in una farmacia e mi chiese una mano per comprare delle medicine: scoprii mentre parlavo con la farmacista che stavano cercando di farmi comprare un numero improbabile di scatole di Viagra, e subito tanto il personale del negozio quanto i clienti – pensando fossero per me – mi guardarono con una faccia che ancora mi viene da ridere.

D E poi non ci sarebbero tutti gli aneddoti che raccontava il primo socio di tuo padre, Alberto Alberti?

R Certo, era storico organizzatore del primo Festival Internazionale del Jazz di Bologna nel 1958, quando ancora i jazzisti erano creature mitologiche e maledette, dedite ad eccessi e follie, da Miles Davis a Chet Baker. Per citarne uno, Alberti una volta, davanti al rifiuto di Miles di salire sul palco e suonare la sera stessa dell’evento (era parecchio irascibile e di umore instabile), chiese a un suo collaboratore di telefonargli mentre erano insieme nella sua stanza di hotel; in quell’occasione fu capace di inscenare davanti al trombettista una telefonata che gli annunciava la morte della propria madre, chiedendogli quindi di esibirsi al concerto e di dedicare la performance alla sua amata mamma appena scomparsa. Miles, visibilmente commosso, suonò per l’amico manager. La mamma ovviamente stava benissimo.

D Che idea hai tu del jazz quale espressione artistica e culturale?

R Una volta – una delle rare volte in cui ho collaborato con mio padre – stavo realizzando una serie di interviste ai musicisti della quinta edizione del rinato BJF, e feci una domanda simile a questa al grande Roy Hargrove, proprio pochi anni prima della sua prematura scomparsa. Lui mi osservò un istante, e con asciutta sincerità, forse non completamente sobrio, mi disse lentamente “I just play my music, man…”. Penso che il jazz vada suonato più che “raccontato” e che la nostra responsabilità in quanto organizzatori sia quella di cercare di offrire al pubblico l’esperienza più sincera e profonda che un artista possa esprimere, e questo può accadere solo in determinate condizioni: coccolare i musicisti che ospitiamo ed essere rispettosi e leali con loro e il loro lavoro è una delle eredità di mio padre e un insegnamento che nel corso degli anni ha lasciato il segno, sono molti infatti i musicisti che tornano con piacere a Bologna. Il jazz è un’espressione di libertà che affonda le proprie radici in un grido di resistenza umana; se posso avere un’”idea”, è quella di non dimenticarci delle matrici che hanno generato questo gridi di libertà, che è universale. Citando Cecilia Meirelles, celebre poetessa brasiliana, “Libertà, questa parola che alimenta il sogno umano, che non ha nessuno che possa spiegarla, e nessuno che non la comprenda”.

D Con quali modalità (anche personali) ti rapporti con i tuoi ‘colleghi’ di altre città e con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?

R Nel corso degli ultimi undici anni io e i miei soci abbiamo stretto relazioni con realtà importanti nel panorama nazionale e internazionale. Durante i primi anni mi sono recato personalmente a visitare quanti più festival mi fosse possibile, sia per rendermi conto delle peculiarità di ciascun evento, sia per entrare in contatto con gli organizzatori e quindi conoscerne al storia. Ho avuto il privilegio di ereditare contatti importanti, come quello di Carlo Pagnotta, patron di Umbria Jazz, che nel corso degli anni più di una volta mi ha potuto offrire preziosi consigli su un lavoro nel quale è un maestro. Anche Filippo Bianchi, storico giornalista e scrittore, nonché organizzatore di eventi jazz è stato un punto di riferimento importante, e con Sandra Costantini, sua moglie, e direttrice del festival CrossRoads (potenziali competitor in Emialia – Romagna), invece che pestarci i piedi abbiamo stretto una forte collaborazione. Nel 2019, in qualità di presidente del Bologna Jazz Festival, sono stato tra i fondatori di JIP (Jazz – Italian Platform), la rete di alcuni tra i festival più prestigiosi a livello nazionale, e certamente posso dire che il network di relazioni che il festival ha stretto negli ultimi undici anni è diventato molto ramificato e complesso. In ogni caso il “fare rete” è ormai diventato indispensabile per la sopravvivenza stessa dei festival: dovendo partecipare a bandi che costringono gli organizzatori a muoversi con molti mesi in anticipo, la possibilità di organizzarsi tra festival e mettere in piedi dei “mini tour” dividendo alcuni costi e soprattutto evitando di pestarsi i piedi a vicenda è diventata una risorsa in alcuni casi determinante. E oltre a tutto questo io trovo che, per quanto a volte risulti complicato, sia meraviglioso collaborare con gli altri, e in ultima analisi anche molto in linea con la cultura del jazz.

D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire ad accrescere o sviluppare una vera cultura del jazz (o sul jazz)?

R Se intendiamo “spazi” intesi come venues, ossia luoghi geografici, allora è indiscutibile che in Italia ci siano moltissimi spazi che si possono prestare alla promozione di questa cultura, basti pensare ai numerosi luoghi di interesse artistico nazionale come teatri, piazze, siti archeologici che già sono usati da molti anni come palcoscenici per rappresentazioni musicali e teatrali. Anche il panorama dei club è molto variegato, e sebbene gestire oggi un locale sia sempre più complesso per ragioni legate a tasse e burocrazia, c’è una rete nazionale dei club che vanta decine di iscritti che promuovono concerti di qualità. Il vero problema è la sostenibilità di questi eventi, coi quali è quasi sempre impossibile guadagnare, e questo porta talvolta un jazz club a doversi trasformare in un locale con prezzi elevati, di fatto rivolto solo a una fascia sociale benestante, il che trascina tutta la questione della “cultura jazz” molto ai margini delle priorità di chi organizza eventi. Negli ultimi anni qualche incentivo pubblico era stato stanziato, io penso che servirebbe certamente un impegno maggiore da parte dello stato, rivolto tanto a chi promuove eventi (aiutandoci a garantire un accesso alla cultura agevolato a tutti, soprattutto ai più giovani) quanto alla formazione, e non ultimo sarebbe importante pensare a uno “statuto d’artista” su modello francese o belga, il quale garantirebbe agli artisti di poter dedicare un tempo alla ricerca, senza dover continuamente “vendere” le loro performance come se fossero un mero prodotto 365 giorni all’anno, potendo così sopravvivere dignitosamente con un ruolo riconosciuto da parte dello Stato. Quelli sarebbero “spazi”, per quanto immateriali, che potrebbero garantire il corretto sviluppo di una vera cultura del jazz.

D Esiste secondo te un jazz italiano a livello musicale? E uno europeo? Cosa li contraddistingue dagli americani?

No, non penso che esista né un “jazz italiano” e tanto meno un “jazz europeo” identificabili come tali e distinguibili da quello americano, tanto più che è molto frequente trovare formazioni di musicisti di nazionalità miste. Esistono molti luoghi che sono dei poli attrattivi di musicisti nei quali si creano delle comunità: New York, Chicago, New Orleans, Los Angeles, Berlino, Stoccolma, Barcellona, Amsterdam, Lisbona, Copenaghen, Roma sono esempi di luoghi in cui queste comunità di musicisti hanno potuto proliferare tra Europa e U.S.A. E laddove si crea una comunità di musicisti che praticano lo stesso linguaggio naturalmente potremo trovare musicisti di qualsiasi nazionalità: così come in Italia hanno preso residenza nel corso degli anni molti artisti stranieri anche molti musicisti italiani sono emigrati all’estero. Semmai il linguaggio del jazz, che si presta così bene alla contaminazione e al contaminare, ha permesso di reinterpretare diversi generi musicali (dalle musiche popolari all’opera) e in questo ciascun musicista può offrire il contributo della propria cultura e delle proprie radici. In tutto questo non stiamo parlando del Latino America, dell’Africa e dell’Oriente, nelle cui geografie il linguaggio del jazz ha saputo muoversi trasversalmente (sebbene talvolta persino clandestinamente), facendo proliferare numerose comunità che hanno tuttora importanza a livello mondiale.

D Hai nominato dieci metropoli internazionali, ma c’è pure una piccola ‘grande’ realtà felsinea…

Mi preme infatti citare la nostra città, Bologna, che grazie al proprio posizionamento geografico alquanto strategico, alla presenza dell’Università e di uno storico conservatorio, vanta una comunità di musicisti e numerosi luoghi in cui potersi esibire. A Bologna negli anni, grazie anche alla presenza dello storico Festival Internazionale fondato da Alberto Alberti e da Cicci Foresti e poi rifondato da mio padre, sono stati ospiti fissi musicisti americani ed europei, e in alcuni casi sono rimasti a viverci, basti pensare al grande Chet Baker e a Steve Grossman, allievo di Miles, che a Bologna si trovarono bene e restarono a viverci. O anche a musicisti come Art Blakey, che a Bologna veniva a suonare e ci restava a lungo per curarsi i denti dal mitico dentista e grande appassionato di jazz Francesco Lo Bianco, al quale corre voce che troppo spesso sparivano i ricettari con cui alcuni musicisti dediti ad eccessi potevano poi rifornirsi in farmacia di medicine altrimenti proibite. Ma questa è un’altra storia…

D Come ti relazioni all’oggetto disco, anche a livello personale?

Se parliamo del vinile sono un collezionista da quando sono bambino, non ho mai smesso di comprarli e tuttora quando posso mi regalo un oggetto che, come dicono dei diamanti, “è per sempre” e di cui si può fruire alla pari di un libro. I cd non li ho mai amati fin dal loro avvento e oggi li ascolto principalmente quando mi vengono inviati dagli artisti: li ascolto una volta, e se mi piacciono allora fruisco di quella musica attraverso la rete.

D Come penultima domanda, forse banale, ti chiedo un a tua top five o top ten dei jazzmen più amati e, se ti va, dei tre dischi da isola deserta.

R Miles, Coltrane, Duke Ellington, Charlie Parker, Thelonius Monk, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Eric Dolphy, Bill Evans, Chet Baker, Billie Holyday, Dizzy Gillespie, Art Blakey, Stan Getz, Sonny Rollins… accidenti, sono già a quindici e mi dovrei dilungare; ma come di fa a citarne solo dieci? E poi sono tutti i “vecchi”, ci sarebbero almeno altre due-tre generazioni da citare.

D E un’ultimissima domanda o meglio un giudizio (anche sintetico) sull’Italia di oggi a livello di arte e cultura.

Recentemente e in mia presenza a un incontro con le varie categorie legate alla musica, un Sottosegretario alla Cultura ha dichiarato che, sebbene il governo attuale non toglierà i finanziamenti (esigui) destinati a sostegno del jazz, sarebbe giusto che questo genere musicale fosse finanziato dal proprio paese di origine. Sono seguite le risate generali dei presenti. Penso che la mia posizione su questo tema sia stata accuratamente spiegata già prima. Il mio giudizio è semplicemente: “incommentabile”.

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