«Deep Resonances» di Daniele Bragaglia, quando il jazz confluente trova il suo break-even-point

Un concept fitto di improvvisazioni e interazioni, aperto alla collegialità dell’ensemble, nonché segnato da trame cangianti e mai prevedibili, completamente avulso dai manierismi e dalle formule logore…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nell’ambito del jazz contemporaneo la chitarra sta trovando progressivamente un vero riscatto ed un posizione di leadership, al pari del pianoforte, grazie alle possibilità offerte dalle nuove regole d’ingaggio che hanno spostato la declinazione del vernacolo jazzistico sul piano inclinato di una facile inculturazione fra linguaggi e stilemi limitrofi. La chitarra era già assurta, sovente, a deus-ex-machina durante la gloriosa stagione della fusion anni Settanta e nell’ambito dello smooth jazz, in particolare dopo la svolta elettrica di Miles, ma aveva sistematicamente trovato una sua dimensione ideale in contesti para-jazzistici, se non nella sottomissione ai vecchi parametri del soul-jazz. Oggi, però, molti vincoli di genere sono caduti e tante barriere stilistiche abbattute: tutto più essere jazz, perfino il suo contrario. Daniele Bragaglia è musicista di lunga esperienza con studi classici alle spalle, ottime frequentazioni in vari ambiti dello scibile sonoro, ma dotato di uno stile jazzistico forgiato su alcuni assunti basilari che si aprono sistematicamente a stimoli molteplici durante l’atto compositivo ed esecutivo.
Il suo recente progetto, «Deep Resonances», pubblicato dalla MIA, si sostanzia attraverso una struttura striata e polimorfica che attinge a piene mani al rock, al funk e al terzomondismo etnico che guarda al Sud del mondo, a cui il jazz, nell’accezione più larga del termine, funge da intelaiatura e da trampolino di lancio verso escursioni più dilatate e multidirezionali. Forte del sostegno di Eric Daniel sassofoni, Edoardo Petretti piano e synth, Dario De Sanctis basso elettrico, Danilo Ombres batteria e tabla e Fiammetta D’ Arienzo voci e cori, il chitarrista si muove in maniera proteiforme, coniugando più metalinguaggi sonori all’interno degli otto brani che compongono l’album, di cui sette composti a quattro mani con il produttore Toni Armetta, una sorta di alter ego «invisibile» che allarga la sfera compositiva ed espositiva di Bragaglia, apportando anche la sua «visione dei fatti». Il sodalizio e l’ibridazione creativa fra i due ha favorito la strutturazione di un concept fitto di improvvisazioni e interazioni, aperto alla collegialità dell’ensemble, nonché segnato da trame cangianti e mai prevedibili, completamente avulso dai manierismi e dalle formule logore, in un’altalena di silurate energetiche, di tempeste ipermodali e momenti di quiete interiore più notturni, sotterranei e ricchi di phatos
L’album si apre con la title-track, «Deep Resonances», un calibrato esempio di fusion contemporanea basata sulla confluenza di stimoli sonori che sembrano provenire dai quattro punti cardinali del pianeta musica, dove un groove instancabile, mai gravoso ed ossessivo, si presta agilmente alla compenetrazione dei tre strumenti di prima linea, mentre sax e piano sembrano inseguirsi e «scontrarsi» sul piano tematico scambiandosi idee su uno fluido tappeto armonico, la chitarra di Bragaglia rifinisce la trama sonora e ne arrotonda gli angoli. «The Wizard Of Oz» esprime un carattere più cinetico con un indole da rock-hero, ben evidenziata dalla tagliente avanzamento della chitarra che scaglia strali di affinatissima tecnica e mercuriale virtuosismo, mai scolastico ed ostentato, nonché riff a grappoli che si ripetono come ostinati. «Shine» è un componimento duale che mostra la sagomatura di una ballata progressiva in crescendo, in cui si alternano due modelli di atteggiamento, differenti per reputazione e per impostazione. A conti fatti, però, chitarra e pianoforte risultano sinergicamente complici attraverso un rodato meccanismo compensatorio e mutualistico, dal quale emerge un un fitta trama di cromatismi e un rapido susseguirsi di soluzioni melodico-armoniche. «Peruviane Dance», non nasconde neppure per un attimo il desiderio di inerpicarsi sulle alture esotiche tra tentazioni ispanico-latine, su cui la chitarra si estrinseca in maniera flessuosa sulla spinta di una ritmica imbevuta di un sottile tappeto vocale. «Free Your Mind» mostra una struttura narrativa alquanto ariosa e descrittiva dal passo quasi documentaristico, mentre la mente corre veloce alla ricerca di mondi lontani. «Small Town» è un viaggio metropolitano sotteso tra reminiscenze davisiane e atmosfere shorteriane, che rimandano ai Weather Report o al Miles post-elettrico, in cui il sax di Eric Daniel s’incarica di diventare l’io-narrante, lasciando in seconda battuta al chitarrista-leader il compito di ampliare lo spettro tematico, sino all’arrivo di un vocalizzo sincopato che aggiunge spessore all’impianto complessivo del costrutto. «New Land Of Esmeralda» è una ballata progressiva che guarda a talune ambientazioni tipiche del Nord Europa con la chitarra perfettamente al comando e la retroguardia che non lascia aria ferma. Sul finale, il torrenziale effluvio del piano di Riccardo Ballerini s’incarica della prolusione tematica, facendo da carburante e da spinterogeno, dapprima, al sax, quindi alla chitarra, in un’alternanza che decorre all’interno di uno spettacolare gioco di ruolo: «Dirty Raid», ultima traccia del disco, ma di certo non per importanza, è con buona probabilità il componimento più articolato e gravido di suggestioni. «Deep Resonances» di Daniele Battaglia è un lavoro tecnicamente solido e forte di una consistente cubatura stilistica, dove il principio dei vasi comunicanti tra stili musicali trova un soddisfacente break-even-point.
