VL Volontari e staff

Udine, 03/05/2012 - Vicino Lontano 2012 - Ottava Edizione - In città - Volontari e staff - Foto Elia Falaschi/Phocus Agency © 2012

di Guido Michelone

Così, a bruciapelo chi è Luca d’Agostino?

Un artigiano della fotografia. Che è stato folgorato fin da bambino dalla magia di veder apparire su carta e negativo prima, su schermo poi le proprie emozioni e che da allora si diverte ad imparare ogni giorno.

Mi racconti ora il primo ricordo che hai del jazz da bambino o ragazzo?

Da bambino ricordo i primi vinili di jazz del fratello maggiore. Sinceramente ne ero poco affascinato, perso com’ero nella musica d’autore italiana (in primis dal grande e indimenticabile Faber!). Quello che però ricordo era l’innata curiosità: da subito ascoltavo un po’ di tutto ed appena ebbi la possibilità di farlo ho iniziato a seguire i concerti dal vivo… un’emozione unica! Qualsiasi suggerimento di amici e compagni di classe era accolto! Puoi ben capire che la macchina fotografica è comunque sempre stata con me…

Che studi hai fatto e quali sono stati i tuoi ambiti professionali?

Sono sempre stato affascinato parallelamente dalla scienza… Probabilmente l’imprinting mi è arrivato dalle gite estive fatte con i miei genitori in Abruzzo ospiti dello zio di mio padre, Oscar d’Agostino (che poi è anche il nome di mio fratello maggiore) che era il chimico dei Ragazzi di Via Panisperna… ma oltre a questo è stato anche uno dei primi a studiare la fotografia a colori in Italia… Ebbene, quando ero da lui, ero affascinato sia dai libri scientifici, sia dalle macchine fotografiche che aveva (e che ora ho qui con me)… Pensa poi – me lo raccontano i miei genitori – che nelle nostre gite per l’Italia tra l’altro la prima cosa che volevo mi regalassero (avrò avuto cinque o sei anni) non erano la solita automobilina o il classico soldatino, ma quelle macchinette fotografiche in plastica che quando osservavi attraverso l’oculare potevi osservare le “bellezze” culturali del luogo…Credo poi che già a dieci anni o poco più iniziavo a farmi regalare le prime riviste di tecnica fotografica e di astronomia: già, affascinato che dal cielo e dalle stelle… Quindi studi scientifici in primis: liceo e poi – non potendo allora andare troppo lontano per studiare Astronomia – mi iscrissi a Geologia a Trieste. Non la finii mai – con grande dispiacere di mia madre che teneva al figlio laureato! – perché oramai già lavoravo con i primi giornali della mia regione… L’inizio è stato proprio con le redazioni giornalistiche: a sedici anni con i primi giornali comunali della città dove abitavo – Monfalcone – poi a diciotto con il nostro primo quotidiano friulano, il Messaggero Veneto.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di jazz? E in che modo?

Come ti dicevo la curiosità mi portò nei jazzclub. Quindi la folgorazione avvenne in realtà già quasi ventenne con una attività libero professionale legata soprattutto alla fotografia giornalistica… C’era uno splendido locale, il Bourbon Street (!) di Torviscosa (Udine), dove tutti i giovedì erano dedicati proprio alle sessioni live. Per me fu straordinario avvicendare simultaneamente l’ascolto di una musica che ancora non comprendevo – ma che capivo trasmettere emozioni continue – alla fotografia! Nella mia regione in questo locale si esibivano un po’ tutti i musicisti esordienti della mia generazione – per farti solo qualche nome Giovanni Maier, U.T. Gandhi, Claudio Cojaniz, Daniele D’Agaro, Glauco Venier, Francesco Bearzatti, Massimo De Mattia, Bruno Cesselli, Nevio Zaninotto e tantissimi altri… ma spesso arrivavano artisti anche già di fama nazionale ed internazionale – ricordo Dick Mazzanti, ma anche i fratelli Marangolo, la prima Reunion degli Area con il compianto Giulio Capiozzo, la scena piemontese della CMC… e, soprattutto, Enrico Rava. Ecco, lui fu forse quello che mi ha stimolato ancora di più su questa strada, quando dopo averlo fotografo proprio con gli Electric Five, mi telefonò chiedendomi di utilizzare una mia fotografia sul loro disco…Parallelamente iniziai a frequentare tutti questi musicisti, condizione per me assolutamente necessaria per poter proseguire nella fotografia jazz: la musica, sicuramente, ma i veri e propri rapporti umani! In quegli anni iniziò per me anche il bel legame fra Friuli Venezia Giulia e Piemonte, due regioni agli antipodi dell’Italia del nord, ma così vicini anche dal lato enogastronomico (vini rossi e vini bianchi, unici)! Enten Eller, Vocal Desire, Dac’corda e quindi Maier e Gandhi, ma anche Maurizio Brunod, Claudio Lodati, Massimo Barbiero, Ellen Christi, Alberto Mandarini… e tanti tanti altri…

E in particolare come ti definiresti o collocheresti nella fotografia di jazz?

Questo sono cose alle quali debbono rispondere altri. Da quegli anni ho proseguito a fotografare il jazz, dal vivo ma anche in studio, grazie all’amico Stefano Amerio che nel garage di casa sua iniziò quella straordinaria avventura che è Artesuono. Grazie a lui ho iniziato a conoscere il jazz a trecentosessanta gradi, collaborando prima con la sua etichetta, poi con tutte le altre che hanno sempre trovato in lui una professionalità e un amore unici! Da lì è proseguita la mia produzione per i dischi: prima con la Cam Jazz ed Ermanno Basso, poi, grazie all’indimenticabile Roberto Masotti, con la ECM di Manfred Eicher… ma con tante e tante altre etichette, italiane e straniere. Poi con alcuni amici – Luciano Rossetti in primis, straordinario amico e fotografo – con i quali ci trovavamo sotto i palchi in tutta Italia abbiamo pensato di fondare la nostra agenzia di fotografi di cultura e spettacolo Phocus Agency!

Ma cos’è per te il jazz?

Libertà, in tutte le direzioni. Gioia e Rivoluzione (per citare il titolo di un grandissimo album)…

Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ quando fotografi il jazz?

Domanda complicata. Credo che però alla base di tutto ci sia sempre il sentimento della curiosità. Quando mi approccio ad un concerto, non ho mai delle idee preconfezionate: o meglio, magari le ho anche, poi lascio però che le pulsazioni seguano il proprio corso… in realtà, in maniera del tutto naturale…

Come nel jazz si improvvisa, così si può fare anche quando fotografi il jazz?

La risposta non può che essere affermativa! Così come ti immergi alla musica, in tempo reale fai lavorare esperienza e sensibilità, cercando, se possibile, nuove inesplorate direzioni. Ci si riesce? Magari non sempre, credo però che l’importante sia provarci, ogni volta. Certo in tutto questo subentrano una innumerevole quantità di fattori: come si sta emotivamente in quel momento, come ci si trova in quel luogo, quanto la musica riesce a trasmetterti, ti coinvolga o meno… ma credo che avvenga lo stesso anche per il musicista quando sale su un palco a suonare! L’importanza ineluttabile poi dell’errore? Me l’ha insegnato Giancarlo Schiaffini, amico anche lui oramai da decenni! Errore come stimolo per errare, andare da altre parti…

Quanto conta dunque l’improvvisazione nel riprendere il jazz ai concerti?

Tantissimo! Si può improvvisare tecnologicamente parlando con una macchina o con un nuovo obiettivo, ma soprattutto cercando ogni volta – come diceva il grande Henri Cartier-Bresson – …“di mettere sulla stessa linea di mira testa, occhio e cuore. È un modo di vivere”… Sd tratta sicuramente di una citazione abusata, universale, però dovrebbe essere il paradigma di vita di ogni fotografo. Ci si riesce poi? Quasi mai, ovvio… Ma quelle rare volte (per citare un altro grande amico fotografo, Jimmy Katz) “che il Dio della fotografia amabilmente ci accontenta” – è una gioia infinita. L’importante è improvvisare sempre.

Tra i dischi che hai ascoltato ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato? E quali dischi (2-3) porteresti sull’isola deserta?

Altra domanda complicatissima! Come puoi immaginare in questi ultimi trent’anni di ascolti ne ho avuti tantissimi, tanto quanto i dischi che occupano mie stanze intere… Se la stragrande maggioranza sono di jazz, non mancano assolutamente anche altri generi… Quello al quale sono sicuramente più affezionato è di Glenn Gould, le Variazioni Goldberg, le ultime, quelle del 1981… 2-3 sull’isola deserta? Impossibile… 20/30, magari … 200/300 sarebbe perfetto…

Quali sono stati i tuoi maestri (o riferimenti) nella fotografia?

Riferimenti? Tantissimi! Fin dall’inizio! Pensa – ed è anche uno dei suggerimenti che do a chi si approccia per la prima volta – che da ragazzo ritagliavo le immagini che più mi piacevano, le raccoglievo in un album e cercavo di replicarle in qualche modo… Forse è stato proprio quello ad insegnarmi più di tutto sulla composizione, la scelta della luce e quant’altro. Poi non mancare mai di visitare mostre ed esposizioni e non solo di fotografia! Quindi ho iniziato ad acquistare libri fin da giovanissimo, partendo come tutti dai più grandi maestri della storia: il già citato Henri Cartier-Breesson, Robert Capa, Werner Bishof, René Burri, Elliot Erwitt… un po’ tutti i fotografi storici della Magnum insomma, ma anche Robert Mapplethorpe o fino ai nostri italiani, da Tina Modotti, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Luigi Ghirri, Ugo Mulas, Guido Harari, Maurizio Buscarino… Nell’ambito della fotografia jazz gli immancabili William Claxton, Herman Leonard, Guy Le Querrec, Jimmy Katz, o i nostri Giuseppe Pino, Lelli e Masotti, Pino Ninfa… Anche qui pareti intere, in perfetto ordine disordinato… Se dovessi poi citare tutti i saggi sulla fotografia…

E nella politica, nella cultura, nella vita?

Fondamentalmente sono uomo di sinistra, per quanto oggi possa significare. Cioè credo nell’uomo e nella potenzialità dell’umanità di aiutare il prossimo. Nel dovere di aiutare il prossimo. Siamo un semplice istante nella storia di questo universo e la mia idea è che dobbiamo cercare di salvaguardare il più possibile l’equilibrio fra noi ed il pianeta, fra noi e la natura. Il rispetto prima di tutto. Il jazz, come musica universale, sempre aperta ed attenta a qualsiasi contaminazione, per me è proprio questo.

Aneddoti o esclusive sulla storia delle tue foto scattate a grandi jazzisti?

Oddio potremmo scrivere un libro solo su questo. Ho cominciato a fotografare professionalmente nel 1988, anche se come avrai capito l’amore per la fotografia nasce molto ma molto prima… in questi trentacinque anni, ammetto, ne sono successe di tutti i colori. Una cosa posso dire: il mondo del jazz, dei suoi uomini, forse mi ha appassionato fin da subito per la grande possibilità di condividere con loro sia momenti musicali, ma anche grandi esperienze di umanità. Come ti dicevo per me è molto importante stabilire rapporti, stare insieme, mangiare insieme, viaggiare insieme. Credo che il segreto per realizzare buone fotografie sia soprattutto questo.

Ci sono jazzisti che ti hanno lasciato qualcosa dopo averli ascoltati o incontrati?

Riassumere tanti anni di incontri e condivisioni non è semplice. Uno dei rapporti più belli che conservo gelosamente è con il grande Enrico Rava, il primo che ha creduto in me come fotografo, con il quale ogni volta che ci incontriamo è sempre una bella occasione. Chiacchierare con lui della storia, quella vera, della nostra amata musica jazz è qualcosa di straordinario. Ma potrei citarti anche il grande Ares Tavolazzi, immenso musicista, uomo di grande umiltà… La gioia di stare con lui o di sentirsi talvolta con Antonio Marangolo (figurati per uno come me che nasce ascoltando Francesco Guccini, Paolo Conte, poi Vinicio Capossela…). Tutto quello che è stato il mio ascolto giovanile che si tramuta in conoscenza e condivisione. Ricordi e chiacchierate con Patrizio Fariselli, conoscere e lavorare con Roberto Colombo e Antonella Ruggero, conoscere Faber in concerto e poi condividere anni dopo insieme all’amico Giuseppe Tirelli ed al Coro Le Colone dei bellissimi progetti insieme a Dori Ghezzi e Simone Cristicchi… Senza dimenticarci dei bellissimi rapporti con i musicisti friulani, dell’amore per la musica istantanea, dei progetti con ensemble come Enten Eller, credo la formazione più longeva del panorama jazz italiano …

Qual è per te il momento più bello nella tua storia di fotografo?

Sarà scontato, ma ti dico la verità. Innanzitutto la possibilità che mi hanno dato i miei genitori – soprattutto nei momenti di difficoltà – di credere in me e nella mia professione. Sai, oggi vivere di fotografia, soprattutto di fotografia di spettacolo, non è la cosa più semplice. Non avere un cartellino da timbrare, un lavoro fisso, ma vivere con una partita iva … Dopo i miei genitori, ovviamente la persona che condivide la vita accanto a me da quasi trent’anni, mia moglie.  La sua straordinaria pazienza con la stessa curiosità verso la musica e la fotografia che posseggo io. In realtà, poi, non sono cose così scontate…Poi ovviamente il poter conoscere, oltre ai miei “idoli” musicali, i grandi fotografi: ricordo un bellissimo incontro, organizzato per noi dal grande Pino Ninfa, con Herman Leonard. O la possibilità di conoscere, grazie a Luciano Rossetti, Jimmy Katz e con lui organizzare uno dei più begli incontri dedicati alla fotografia jazz a Sant’Anna Arresi (grazie al mitico Basilio Sulis!) e stampare personalmente le immagini di Guy Le Querrec oltre conoscerlo personalmente.

E le soddisfazioni maggiori nella tua ormai lunga attività?

Soddisfazioni enormi ne ho poi con l’amico Flavio Massarutto, critico, scrittore, sceneggiatore di fumetti, agitatore culturale… Con lui ne abbiamo pensate a centinaia e tante ne abbiamo organizzate e ne continuiamo ad organizzare… Grazie a lui ho conosciuto straordinarie persone come Luigi Onori, Marcello Lorrai, Pino Saulo… Frequentare i festival in regione ed in Italia, lavorarci professionalmente, mi permettono di ampliare poi tutte queste conoscenze: noi ci siamo conosciuti in Piemonte, a Udine ho conosciuto l’appassionatissimo Max De Tomasi… Pensa che grazie al Rototom Sunsplash (altra grande passione, la musica reggae, da trent’anni sono anche il loro fotografo ufficiale…) conosco uno dei più grandi scrittori di soul e reggae che si chiama Alberto Castelli e anche l’incredibile Pier Tosi … Grazie al reggae ho conosciuto fotografi quali Giovanni Canitano, Carlo Massarini, Kim Gottlieb-Walker o manager del calibro di Chris Blackwell… Insomma, momenti straordinari, sicuramente legati al jazz, ma anche a tutto tondo quel che ruota intorno alla fotografia di cultura e spettacolo …

Come vedi la situazione della musica (e del jazz in primis) in Italia?

Sinceramente non la vedo così male come tanti la descrivono. Il jazz in Italia ha grandissimi musicisti, una nuova generazione straordinaria, colma di potenzialità e nuove progettualità. Vedo fiorire festival e rassegne, in estate non hai che l’imbarazzo della scelta. Certo, in generale mi sembra che non ci sia lo stesso ricambio generazionale in platea: ho la sensazione (in realtà la certezza, visto che lo vedo quotidianamente) che l’età media del pubblico ai concerti sia molto alta. Di chi è la colpa? Chi lo sa: certo il fatto che la Musica, come in generale l’Arte, non venga praticamente più insegnata nelle scuole potrebbe essere causa di tutto questo… Riuscire a stimolare la curiosità nei ragazzi è sicuramente cosa difficile ma necessaria se vogliamo che siano il pubblico del domani. Non entro poi nella diatriba se certi generi musicali moderni siano interessanti o meno: io, come dicevo, ascolto di tutto… poi ho l’età e la possibilità di cestinare quello che non mi piace…

E più in generale come se la passa oggi la fotografia in Italia? Ad esempio Storia della fotografia è pochissimo insegnata nelle università a differenza di storia del cinema e non capisco il perché…

Anche il discorso sulla fotografia autoriale in Italia resta un discorso lungo e complesso. Da anni, come raccontavo, abbiamo fondato un’agenzia e con i miei colleghi, Phocus Agency appunto, e cerchiamo di lavorare con chiara professionalità e qualità. Da poco più di quattro abbiamo anche fondato AFIJ, l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz, entrando nella federazione che raccoglie un po’ tutto il panorama legato al jazz… Con queste realtà stiamo cercando di portare avanti anche un discorso culturale, ma non è certamente semplice. Chi di questa professione ci campa, si scontra quotidianamente con un mondo dove la fotografia, l’immagine, è arrivata alla maggiore diffusione nella storia, ma di pari passo si scontra con una pochezza culturale ed economica enorme. Oggi vale un po’ il “tutto e subito”, senza minimamente preoccuparsi della qualità e di quanto una fotografia possa trasmettere… È di ogni giorno scontrarsi con festival e rassegne che affidano la loro immagine fotografica al nipote, al figlio, al cugino, basta che faccia veloce, magari con uno smartphone e soprattutto gratuitamente …Il problema enorme è che sta diventando sempre più difficile far comprendere al fruitore finale la forza di una immagine o, contrariamente, la pochezza… Il mondo del web, la diffusione dei social, il mordi e fuggi non aiuta assolutamente…

Manca insomma una cultura non solo della foto-jazz ma di tutta quanta la fotografia, perché dalle elementari alle università si insegna a leggere, scrivere, disegnare, forse ragionare, magari fare musica e teatro, ma non a fotografare!

È proprio come dici tu: se non si comincia dalle scuole, dai ragazzi, insegnando la storia, creando momenti di discussione e di lettura, è una battaglia persa…Mi ritengo fondamentalmente fortunato: sono nato usando la pellicola, quando dovevi veramente pensare allo scatto e non avevi una scheda da tanti gigabyte e centinaia di possibilità, ma dovevi riassumere due/tre servizi in 36 pose … Ho potuto imparare tantissimo. Oggi posseggo archivi interessanti e sulla mia strada ho incontrato organizzatori, editori, critici che credono fortemente nel valore dell’immagine, anche documentale che sia…

Cosa stai progettando per l’immediato futuro?

Come tutti i fotografi che hanno superato i cinquant’anni e che da trentacinque producono immagini, mettere ordine al proprio archivio e proseguire in questa splendida avventura che è la fotografia di jazz e di spettacolo. Inoltre durante quel periodo emergenziale tremendo che un po’ tutti noi abbiamo passato ho cominciato anche una nuova avventura professionale fondando con cari amici una nuova impresa (culturale in primis), Slou Società Cooperativa, con la quale, oltre alla fornitura di diversi servizi ed alla organizzazione di eventi, portiamo avanti dal 2021 una rassegna, Estensioni Jazz Club Diffuso, della quale sono direttore artistico e che è entrata nelle prime istanze triennali jazz del FUS. Come vedi jazz tutto tondo…

Luca D’Agostino
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