«Io sono un Albero» di Daniele Malvisi, un lavoro ben piantato nell’hums jazzistico contemporaneo

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// di Francesco Cataldo Verrina //
Alcune popolazioni autoctone dell’Amazzonia, ogni giorno abbracciano un albero e gli dicono nella loro lingua qualcosa che corrisponda più o meno a «ciao fratello!». Con questo gesto essi assumono forza e la vigoria di quella pianta. Noi individui dell’era del metaverso dimentichiamo spesso che gli alberi non sono solo elementi destinati a migliorare l’arredo urbano o ad abbellire il giardinetto di casa, ma sono esseri viventi che comunica fra loro e che possono stabilire dei rapporti anche con la disfattiva e distruttiva specie umana. Quando si parla di alberi si parla di linfa vitale: le piante di ogni specie vivono con noi e respirano come noi, anzi respirano per noi annullando parte dei residui nocivi che gli appartenenti alla razza superiore disperdono nell’aria. L’albero metaforicamente può rappresentare la creazione di un qualunque costrutto artistico, letterario o musicale. Nello specifico, un disco come «Io sono un Albero» di Daniele Malvisi, pubblicato da Alfa Music, mostra di avere una struttura rameica che si dipana da un tronco centrale attraverso molti escrescenze creative, che possono essere rappresentate dai tre sodali i quali sostengono il sassofonista toscano nel progetto: Simone Basile chitarra, Francesco Pierotti contrabbasso e Dario Rossi batteria. Le composizioni del tenorista leader, tutte le tracce sono farina del suo sacco, costituiscono il fusto centrale a cui i vari rami fanno riferimento, pur liberi di fluttuare armonicamente e con licenza di «colpire», senza particolari vincoli improvvisativi o contingentamenti di sorta.
Al netto di ogni filosofia panteistica, l’idea dell’albero nasce ab-origine dalla poesia scritta da un ragazzino, il figlio Cesare, come conferma lo stesso Malvisi:«Il titolo del disco, è in realtà una breve poesia che lui scrisse diversi anni fa quando ancora bambino e rappresenta perfettamente la modalità con la quale ho scritto questi brani. Ho cercato di raccogliere e trasformare in musica le emozioni di tanti momenti, lasciando affiorare spontaneamente un suono o un frammento melodico che poi hanno di volta in volta contraddistinto una composizione». Si potrebbe parlare dunque di poetica compositiva della semplicità e della spontaneità. Tra le pieghe dell’album, che non eccede nel guardare nello specchietto retrovisore, è possibile cogliere elementi sonori provenienti da molti angoli del jazz dai più remoti ai più vicini, fra echi di Joe Henderson e Sonny Rollins, uno dei primi a preferire al pianoforte una chitarra nel suo capolavoro «The Bridge», passando per sprazzi di mood coltraniano o shorteriano nei momenti più inquieti e qualche rimando ad un vecchio leone come Ben Webster specie nelle ballate, persino a Dexter Gordon nella rotondità della costruzione melodica. Tutto ciò non è una deminutio capitis per Malvisi e compagni, ma diventa un fertilizzante atto migliorare lo sviluppo del loro personale albero sonoro.
“Perpetual Thoughts» è un incisivo post-bop dall’anima funkified, innestato su un potente groove dinoccolato e latineggiante, il quale mantiene sul filo della tensione, dapprima, il sax tenore e, in successione, la chitarra che si spartiscono la prima linea attraverso un fraseggio ostinato, come se i loro pensieri fossero lampi di genio, soprattutto come se ognuno dei due aspettasse un segnale dall’altro per poter entrare in scena. «Cronos» è una progressione ipermodale con il sax che spazza via ogni incertezza attraverso un tragitto a volte accidentato e dissonante, che trova sempre il contraltare nella chitarra, mentre la retroguardia ritmica non bada pressoché a spese. «Journey Of Waiting» ha i tratti somatici di una ballata progressiva immersa in un limaccioso blues, flessuoso e gravido di tensione, dove la chitarra traccia un sentiero scosceso, in cui il sax s’infila marcandone i contorni ed evidenziando i tratti melodici, soprattutto sul finale che ricorda alcuni componimenti retro-datati, infarciti di swing e caratterizzati da un efficace call and response fra gli strumenti del front-line. «Ten Tribal Step» si sostanzia come un costrutto dall’imprinting shorteriano che riporta alla mente perfino i Weather Report, l’estensione consente a tutti gli strumenti di esprimersi senza limiti e di confluire sistematicamente al nucleo centrale dell’idea. Dice il chitarrista Dario Rossi: «Diversità omogenea, è così che descriverei la musica che abbiamo suonato. I brani, pur evocando culture e mondi lontani tra di loro, sono legati da un’idea compositiva omogenea». La title-track, «Io sono un albero» è un infuso multitematico che reca con sé influssi ed echi provenienti da varie direzioni, su cui vine spalmata una suadente melodia, a tratti struggente e brunita, grazie alla quale il sax del band-leader unisce tutti i punti del puzzle sonoro.
Con «Fibonacci» ricompare nuovamente quell’aria metropolitana che incornicia ed evidenzia la devozione del sassofono di Malvisi al funk più tagliente ed impregnato di blackness, fatto dapprima di riff che colpiscono l’ascoltatore come piccoli strali, per poi liberarsi in una fuga improvvisativa senza dare punti di riferimento a nessuno, mentre basso e batteria inseguono, cercando di non far deragliare il convoglio e di consentire alla chitarra di salire in cattedra e leggere la sua parte ad alta voce. Le parole del Contrabbassista Francesco Pierotti sono alquanto eloquenti: «Le composizioni sono profonde e per niente scontate. Nonostante la scrittura, a volte complessa, i brani sono intrisi di una forte musicalità, quindi questa musica si lascia suonare permettendo di tirar fuori tanta energia». «History Of Hands» possiede tutto quel gusto esoterico di certe ballate shorteriane, in cui il sax diventa un io-narrante capace spezzare i confini spazio-temporali ed inabissarsi in universi paralleli sfiorando terre esotiche e lontane. «Anathema» è un altro volo pindarico fatto di infiniti stati d’animo, dove anche i silenzi diventano racconti, così come le tante dilatate suggestioni provenienti da quattro punti cardinali della musica. Il chitarrista Simone Basile parla di «un insieme di silenzi e note in cui ognuno ascolta e racconta la propria idea, mentre l’altro, nell’attesa vive il momento in cui immagina la sua» In chiusura arriva «Miyazaky», l’ennesima riprova delle capacita compositive di Daniele Malvisi, abile nel liberare la melodia dai ristretti vincoli dello swing e di elevarla alla contemporaneità, trasportandola in contesti che sanno di Oriente e di mondi altri: il gioco delle parti fra chitarra e sassofono è da accademia del jazz. Dopo l’ascolto completo, possiamo affermare, senza tema di smentita, che «Io sono un Albero» sia un lavoro ben piantato nell’hums jazzistico contemporaneo, capace di digressioni ed innesti molteplici, ma con profonde radici che affondano nella storia della musica improvvisata africano-americana.
