Mosè Andrich con «Dionisiaco»: la sottile arte dei contrasti, umani e divini (Dodicilune 2023)
// di Francesco Cataldo Verrina //
Per il piano solo vale sempre il nostro vecchio assioma: ci vogliono buone idee e mani capaci di stendere una tela confortevole ed avvolgente per l’uditorio, altrimenti si rischia l’effetto pennichella post-prandiale, ossia quella sonnolenza che affiora lentamente dopo aver consumato un pasto sostanzioso. Volendo ringraziare gli Dei, per rimanere in tema, «Dionisiaco» di Mosè Andrich è una pietanza creativamente ed esecutivamente sostanziosa, tanto da evitare l’effetto soporifero. Originario di Belluno, Mosè Andrich è un pianista con studi regolari ed un background classico, ampliato ed arricchito da aprofondimenti e frequentazioni importanti in ambito jazzistico. Senza voler circoscrivere eccessivamente il suo costrutto sono, diciamo che si potrebbe parlare di un jazz cameristico sul modello Modern Jazz Quartet (solo per dare un’idea), ma collocato in una dimensione contemporanea multipolarizzata, dove l’artista riceve impulsi e suggestioni da ogni latitudine. «Dionisiaco» è concept multistrato impiantato sui contrasti e sulle antitesi, che finiscono per trovare un punto di confluenza, quale estrema ratio. Sostiene Mosè Andrich nelle note di copertina: «L’ Apollineo, il Dionisiaco: i due volti della creazione artistica. Il primo, fronte ampia, tratti nobili, grandiosamente quieti, comparte e norma, pondera e bilancia, ammette o esclude, ligio al dettato dell’aurea misura. Il secondo – vulcanico, ebbro di passioni, la febbre della follia nello sguardo – genera, estrae, connette non secondo logica ma per sensazione, abbatte e innalza; mai pago di sé, pace non trova: vuole e disvuole, sempre premendo avanti, incurante dei limiti, sotto il pungolo di un desiderio inesausto. L’Apollineo è stabilità, il Dionisiaco divenire. L’antitesi è figlia di Friedrich Nietzsche, che vide nei due spiriti divini gli impulsi essenziali sottesi alla cultura e all’arte greca, di cui la tragedia fu la massima espressione».
«Parados» trova subito il gancio melodico per irretire il fruitore e imprigionarlo in una trama di note spaziate e zampillanti al contempo. «Apollineo» appare come una figura mitologica che si staglia in effluvio tematico ricco di cambi di mood e giocato su tutti registri possibili ed immaginabili dello strumento: a volte più piano, altre volte più forte. «Dionisiaco» è un vero baccanale sonoro, che si dimena in un’orgia di suoni, i quali s’infittiscono attraverso un crescendo di trame arcuate, tra discese ardite e risalite, mentre il dio Flufluns sorride con aria gaudente ed inebriata. Commedia e tragedia umana al contempo, come si evince dalle motivazioni ideali riportate del pianista che ama rivestire le sue composizioni con una pellicola di aulicità e cultura classica. «Exodos» è un breve interludio dai toni bruniti, sospeso a mezz’aria, una parentesi tra un dubbio e una certezza, che fa da appetizer al vero «Intermezzo», anch’esso di breve durata e preparatorio alla lunga, frammentata, caleidoscopica, visionaria odissea di «Fractals», che ingloba influssi sonori provenienti da un passato remoto e da un imminente futuro, i quali si trasformano in un benefico infuso corroborante per la tempra di un pianista che naviga spedito su un oceano di note, le quali s’increspano come flutti di mare o come dice l’autore: «una sorta di perpetuum mobile, un flusso quasi ininterrotto di note vuole riprodurre quel fenomeno caleidoscopico di omotetia interna presente anche in natura: il ripetersi su scale diverse delle stesse forme, i frattali, appunto».
«Menuet» appare al proscenio mostrando un corredo melodico-armonico antropofago, capace di divorare qualsiasi uditorio al banchetto degli Dei, trasportandolo in un gorgo di piacevoli sensazioni. Sul finale si scende un po’ a livello del mare, «Everymen» è un componimento che possiede un’indole più terrena e meno olimpica e dionisiaca; infatti il brano è ispirato all’omonimo romanzo di Philip Roth, che narra l’incontro di un uomo con la propria condizione di mortale. Ma in fondo sono solo suggestioni o riflessi condizionati indotti da un pianoforte parla con gli Dei e che suona come un’orchestra, colmando spazi e pensieri, ricco nella forma e nella sostanza. «Dionisaico» di Mosè Andrich è un lavoro elegante intimo e raccolto, ma con un apertura alare ed un getto artistico che raggiunge uno score compositivo e filosofico di tutto rispetto. In fondo come sostiene il pianista bellunese, tutto l’album «è una riflessione sul processo creativo e sulle sue due anime complementari, la razionale e l’irrazionale. Quest’ultima, sicuramente, la più affascinante; forse, la più determinante, perché la follia rende affamati, spinge verso l’ignoto, guarda nell’abisso e vi si getta senza voltarsi indietro».