IL TANGO-ETNO-JAZZ DI JAVIER GIROTTO
// di Guido Michelone //
Da qualche anno ha il passaporto italiano, ma le proprie origini sono da sempre tricolori, benché nasca a Cordoba in Argentina il 17 aprile 1965 e arrivi a stabilirsi sullo Stivale grosso modo negli anni Novanta, quando i progetti ‘nostrani’ risultino sempre più frequenti. Il jazz di Javier resta tuttavia etnico al punto che poteri tranquillamente definirlo world jazz o scendendo in dettaglio parlare di nuevo tango o ancor meglio di tango jazz (nonostante le incursioni nel puro post-bop con molti celebri solisti). Musicista completo o originale, convincente solista al sax soprano, con lui tendo essenzialmente a discutere di latin jazz in castigliano (la lingua spagnola parlata, sia pur con accento e vocabolario leggermente diversi anche a Benos Aires e dintorni), perché inserisco l’intervista in una mia dispensa universitaria dal titolo El jazz habla español in cui ho raccolto pareri e opinioni di una quarantina di jazzisti provenienti dalla penisola iberica come pure dai Caraibi e dal Centro e Sud America.
E inizio subito a chiedere a Javier con quale espressione – etno-jazz, world music, jazz latino o altro – meglio si identifica: “Io direi ‘musica’, nel senso che in questi ultimi anni mi emoziono e mi diverto molto di più a scrivere, suonare e improvvisare negli stili musicali con cui sono cresciuto come la musica argentina e cerco di fare o eseguire a modo mio un brano di Piazzolla (che è stato l’ultimo innovatore del tango); in poche parole sarebbe utile continuare da dove si era interrotto Astor e scrivere cose nuove mescolando tango e folklore argentino ovviamente aggiungendo sempre l’improvvisazione tipica del jazz (ma non solo)”. E proprio sentendo da lui il termine ‘jazz’ gli chiedo subito cosa significa nella sua prospettiva culturale: “Direi che il jazz è l’arte dell’improvvisazione, ma in ogni tipo di stile musicale, sia esso bop, hard bop, dixieland, tango, classica, ecc.; è una delle forme musicali contemporanee del Novecento”.
Suonando Javier il soprano, non posso esimermi dal domandargli a quali sassofonisti si ispira da quando inizia a suonare fino a oggi: “All’inizio non ascoltavo i sassofonisti, ascoltavo più il pianoforte o altri strumenti, solo negli ultimi anni ho apprezzato, ascoltandoli anche dal vivo, lo stile di Jan Garbarek, John Surman, Michael Brecker, Wayne Shorter, ma la vera influenza sul mio modo di suonare è stata data a me dai bandoneonisti di tango e dalla melodia latina del mio Paese”. Gli chiedo quindi se ha ancora legami affettivi in Argentina, anche a livello di jazzisti e di tangueros: “Non ho più famiglia a Cordoba ma mantengo l’amicizia di tutti i musicisti con cui ho lavorato durante il periodo in cui ho vissuto in Argentina (anche a BNuenos Aires) e questo mi fa andare ogni due o tre anni a trovarli e suonare con loro”.
Date le costanti frequentazioni, voglio da lui sapere se riesce, ogni volta che è in loco, a constatare una sorta di essenza del jazz autoctono: “La forma più vicina all’identità musicale del jazz argentino sarebbe quella che mescola l’improvvisazione con stili argentini come il tango e il folklore e su questo c’è un gran numero di musicisti argentini che sperimentano e cercano”. Si tratta di qualcosa forse comune all’intero jazz latinoamericano: “Penso che sia allo stesso modo che ogni Paese contamina con le proprie radici musicali, lasciando spazio all’improvvisazione, che fa sì che questo tipo di improvvisazione nei ritmi di ogni Paese crei una nuova lingua. Non sono d’accordo che nei ritmi latini si improvvisa con il linguaggio bebop, andrebbe bene armonicamente, ma negli accenti ritmici delle frasi ci sarebbero dei contrasti”.
Benché all’epoca un bambino, chiedo lo stesso a Javier di parlarmi del tragico periodo vissuto dagli Argentini nel periodo della dittatura di Videla e di Gualteri, quella dei desaparecidos, grosso modo tra il 1974 e il 1983; ovviamente stiamo parlando di come si comporta il regime nei confronti del jazz: “Tutto ciò che non era argentino e di conseguenza straniero veniva censurato. C’era molta censura e un totale e disprezzo per la musica nera, come in Italia durante il fascismo che condannava il jazz per il solo fatto che apparteneva ai neri, ritenuti una razza inferiore come gli ebrei o gli zingari”. Su come stia cambiando l’Argentina agli inizi del Nuovo Millennio, Girotto è preciso: “Dopo una grande crisi economica come quella del 2001 dove l’Argentina ha toccato il fondo, i giovani hanno cominciato a riapparire con nuove idee musicali e artistiche ma il problema continua perché tutte queste nuove idee non sanno dove presentarsi, cioè non ci sono posti o soldi per promuovere la cultura oppure non funziona l’apparato che dovrebbe organizzare”. Da ciò che dice non sembra che la situazione risulti poi molto diversa da quella italiana odierna: “Certo in Argentina o in Italia, a livello di jazz, ce ne sono di giovani bravi, come ce ne sono anche nel Nord Europa; ma da noi non viene dato a loro lo spazio per esprimersi; in genere un giovane riesce a suonare e farsi conoscere se viene chiamato a suonare con un noto musicista; ma se al giovane jazzman non tocca questa fortuna, starà quasi sempre, in disparte purtroppo il mercato della musica funziona così; il nome funziona più della qualità che viene offerta; e ci sono giovani che hanno qualità e tanta!”.
Per quanto riguarda il presente e il futuro di Javier, egli sostiene di continuare “(…) a portare avanti i miei progetti storici e altri più recenti – Aires Tango, Atem Sax Quartet, il duo con Biondini e quello con Iorio, il Concerto Latino, i Six Sax, la Big Band – e anche con i dischi che registro è sempre una nuova esperienza perché tendo sempre a fare sia una ricerca continua sia un rinnovo nella musica che scrivo, cercando di progredire in continuazione almeno dal mio punto di vista. Questa recerca mi aiuta a stimolarmi, a continuare a comporre, suonare, improvvisare e trovare nuove strade e idee musicali per poter continuare a divertirmi componendo, suonando, improvviosando”. Termino, curioso di sapere quale siano i due album (uno jazz l’altro ‘latino’) che porterebbe volentieri sull’isola deserta: “You Must Relieve In Spring di Bill Evans per il jazz e Alma di Egberto Gismonti come jazz latino. Ma la lista sarebbe interminabile però questi sono i miei due dischi preferiti!”.