«Standards Vol. 1» di Keith Jarrett / Gary Peacock / Jack Dejohnette, una formula jazz che stabilisce un precedente (ECM, 1983)

// di Francesco Cataldo Verrina //
La storia del jazz è anche storia di standards. Ci sono musicisti che hanno campato per tutta una vita rivoltando sottosopra, come un calzino, l’American Songbook alla ricerca di qualche idea; in tanti si sono nutriti spesso del repertorio di canzoni evergreen provenienti da altre parti del mondo (Brasile e Latino-America soprattutto, ma anche Francia o altri paesi europei) o successi di colleghi, più o meno fortunati, assurti al rango di classici senza tempo. Anche nel jazz si usa il termine cover ma non è corretto, poiché, a differenza di quanto accade in ambito pop-rock, dove si tenta di mantenere la medesima struttura melodico-armonica, il jazzista in genere reinventa lo standard: sovente l’impianto di base viene dilatato, le strutture accordali modificate, il costrutto tematico stravolto e non è raro che per assonanza, lungo la progressione improvvisativa, siano inseriti dei frammenti di melodie prese da altri canzoni più o meno note. Esistono casi in cui gli stessi standards sono stati riproposti con titoli diversi, rispetto agli originali. Diciamo che ricca riserva di standards, nell’accezione più larga del termine, per l’universo jazzistico è sempre stata una manna del cielo, specie per quei musicisti poco compositori, ma esecutori sopraffini. Gli utilizzatori seriali di «materiale riciclato» in maniera massiva, raramente sono, e sono stati, degli innovatori nel jazz. Molti hanno saputo conciliare le proprie composizioni con un uso moderato e sapiente degli standards.
Nella storia del jazz moderno l’utilizzo degli standards è diminuito progressivamente con l’affermazione delle avanguardie e la consapevolezza che suonare non dovesse significare guardare troppo nello specchietto retrovisore, ma lanciare lo sguardo oltre la siepe ed aprire un varco nel futuro. Lo standard diventa spesso un approdo sicuro, una scialuppa di salvataggio, ma può essere anche un vicolo cieco, un cunicolo asfittico in cui rimanere imprigionati, mentre l’incauto musicista rischia di diventare portatore di insipienza creativa e prevedibilità. Per artisti di un certo livello, affidarsi completamente agli standards potrebbe trasformarsi un gioco d’azzardo, qualora non si riesca a scombinare e ricombinare bene le carte in tavola. Nel 1983, Keith Jarrett pianoforte, Gary Peacock contrabbasso e Jack DeJohnette batteria vinsero la partita al tavolo degli standards, giocando a carte scoperte.
Su Keith Jarrett c’è una mole impressionante di letteratura ed i pareri sono quasi sempre discordanti, poiché il pianista potrebbe essere definito, latu sensu, uno, bino e trino. C’è chi ama Jarrett in quartetto, quello americano nello specifico e chi preferisce ascoltarlo durante le sue fughe solitarie e divaganti al pianoforte, non a caso il suo disco più amato, ma soprattutto più venduto resta ancora il long seller «The Köln Concert». Col passare degli anni, in tanti si sono capacitati che la dimensione più adatta a Jarrett fosse il piano-trio, nello specifico questa combine che appare come un perfetto allineamento astrale, rappresentato dal tridente planetario Jarrett, Peacock e DeJohnette. Un format capace di estrarre il meglio della linfa creativa pianista: la sua natura esplorativa, la sensibilità emotiva, le sue sfumature tonali, il senso melodico e la sua capacità di fare swing all’uopo; per contro, uno scudo in grado per di frenare e contenere quegli eccessi tipici del pianismo in solitaria, dove Jarrett tendeva spesso ad inabissarsi nei meandri di una musica simil-ambient o new-aging, attraverso arrangiamenti dispersivi, a maglie eccessivamente larghe e approssimativi.
Registrato nel gennaio 1983 al Power Studios di New York, «Standards Vol. 1» fu il primo di una serie di album con i quali i tre accoliti saranno indicati come lo Standards Trio. Molti sorridono bonariamente, ma i più cedevoli agli entusiasmi del momento, iniziarono a considerare Jarrett e soci come i successori ideali del classico Bill Evans Trio con Scott LaFaro e Paul Motian che aveva fissato alcune regole d’ingaggio circa vent’anni prima. Molti critici presi dall’euforia, con immensa gioia del Mangiafuoco del’ECM, sostennero che nessun altro piano-trio si fosse mai avvicinato, prima di Jarrett e soci, all’idea di equilibrio e di perfezione del triunvirato delle meraviglie di Evans. Molti accolsero con non poco stupore questa registrazione, altri continuano a sorridere bonariamente. La storia dello Standards Trio ha attraversato più di tre decenni, in cui il jazz ha subito notevoli cambiamenti di rotta e di stile, compreso un periodo di tempo in cui il mini-ensemble jarrettiano, specie dal vivo, ha esplorato abissi sonori sulla spinta di un’improvvisazione più libera e trasversale. Per tanto, senza voler dare alcun giudizio di valore, il paragone con il trio evansiano non solo stride ma, oggi ex-post, appare improponibile. Ad onor del vero, va detto che l’ottimo trattamento del repertorio standard ha assicurato al trio di Jarrett un posto di rilievo nei libri di storia ed una longevità che gli ha consentito di andare avanti senza fossilizzarsi sulle anticaglie, ma di accettare la sfida dei vari cambiamenti in atto e di operare secondo lo spirito dei tempi.
Le cinque composizioni contenute in «Standards Vol. 1» consentono ai tre sodali di esprimersi con estrema libertà, soprattutto Jarrett appare assai ben disposto e generoso nel concedere molto spazio a Peacock, mentre l’ascolto reciproco fra i tre sodali risulta sinergico e telepatico. Le esecuzioni non sono swing in senso convenzionale, ma assumono uno nuovo slancio motu propriu: la conclusiva «God Bless The Child», ad esempio, viene trascinata, anche se cum grano salis, per quindici minuti, mentre Jarrett scava a fondo negli anfratti di questo componimento assai familiare presso il popolo del jazz, ma in versioni molto più contenute. Il trio si era avvicinato al microcosmo degli standards con un serio proposito, riconoscendo che buona parte del repertorio della canzone popolare americana di artisti del calibro di Gershwin, Cole Porter, Richard Rogers, Irving Berlin, Jerome Kern rappresentasse una forma di espressione musicale di notevole spessore artistico ed un’opportunità per i jazzisti, a patto che essa venisse inquadrarla in una prospettiva di improvvisazione contemporanea. «Meaning Of The Blues» è davvero un’apertura agli assi, sicuramente uno dei momenti più coinvolgenti dell’album.
In «All The Things You Are», a differenza di quella contenuta in «Tribute», pur preservando la medesima durata, Jarrett parte con un assolo che termina dopo alcuni secondi, al contrario della versione live dove l’intro in solitaria si estende per circa tre minuti, soggiogando l’ascoltatore, il quale rimane immobile e attento a non perdere nessuna delle veloci note distillate dal pianista. «God Bless The Child» di Billie Holiday è tradotta in una lunga Odissea sonora, dove basso e batteria mostrano disciplina e nervi ben saldi al fine di contenere il pianoforte del leader all’interno di una struttura semi-rigida. Questa bonaria costrizione rappresenta un antidoto o un contrappeso alle libere improvvisazioni presenti nelle altre tracce, talvolta più sfuggenti. «It Never Entered My Mind», a firma Rodgers e Hart, costituisce un altro dei tratti salienti del disco: il tocco di Jarrett è espressivo e dialogante, mentre il groove fornito dalla retroguardia ritmica sembra aggrapparsi a ogni singola nota del piano. «The Masquerade Is Over», diversamente delle versioni più note allora presenti sul mercato, come quella quelle di George Benson ed Ella Fitzgerald, è impostata su un tempo più veloce, che ne rende quasi irriconoscibile il classico ritornello. Al netto di ogni congettura, oggi ex-post, possiamo affermare senza tema di smentita che il disco, a quarant’anni dalla sua emissione, mantiene un’attualità sorprendente. Si ha come la sensazione che, senza consultazioni preliminari su arrangiamenti, tonalità o tempi, il trio avesse suonato e basta, innescando immediatamente una reazione chimica basata sulla fiducia reciproca, nonché su una duratura creatività, tanto da superare la prova del tempo.
