Sphere

// di Francesco Cataldo Verrina //

Thelonious Monk collaborò occasionalmente con molti sassofonisti, perfino con due pezzi da novanta della nomenclatura jazz, John Coltrane e Sonny Rollins, ma solo con Charlie Rouse raggiunse una sorta di perfetto equilibrio instabile: con il Monaco non si potevano, di certo, dormire sonni tranquilli e la militanza di qualunque musicista al suo fianco ne acuiva i sensi e le capacita esecutive che diventavano immediatamente adattive al quel tipo di meccanismo sonoro espletato sull’imprevedibilità e la suspance. Diceva Coltrane: «Con Thelonious, se ti distraevi un momento, era come precipitare nel vano vuoto di un ascensore». Per contro, il rapporto tra Monk e Rouse fu un break-even-point basato sull’algebrica compliance fra due anime diverse, ma complementari e compensative. Charlie Rouse fece parte, in pianta stabile, del quartetto di Thelonious Monk per oltre un decennio (1959-1970) e, anche se sommariamente viene dato per scontato, fu un ingrediente importante della musica dell’eccentrico pianista, una sorta di fertilizzante che ne caratterizzava il sound e ne appianava gli angoli arrotondando ed ammorbidendo le abrasive asperità del costrutto armonico monkiano. Charlie Rouse era un sassofonista con un spettro creativo e percettivo espanso e permeabile alle nuove istanze evolutive del bop. Quando intraprese l’attività di band-leader, vantava una lunga esperienza, nonché gavetta, maturata accanto ad alcune delle figure più importanti del jazz di tutte le epoche, a partire da Billy Eckstine (1944), passando per la prima big band di Dizzy Gillespie (1945), fino al suo debutto discografico con Tadd Dameron nel 1947. Rouse lavorò stabilmente con l’orchestra di Duke Ellington (1949-1950), l’ottetto di Count Basie (1950), partecipando alle sessioni di Clifford Brown del 1953 e del sestetto di Oscar Pettiford (1955). Il suo nome iniziò ad emergere e circolare negli ambienti jazzistici con ottime referenze, solo dopo l’ingresso nel line-up monkiano, attività intensa e faticosa che ne forgiò il carattere e ne modello il timbro fino a renderlo distinguibile. Nonostante i riconoscimenti, Charlie Rouse alla corte di Monk, per molti osservatori, fu sempre un comprimario di lusso, forse un gran ciambellano, ma in fondo solo un alleato con scarso potere decisionale.

Alla morte di Thelonious Monk, avvenuta il 17 febbraio 1982, accompagnato dal pianista Kenny Barron, dal bassista Buster Williams e del batterista Ben Riley (anch’egli ex-membro del quartetto monkiano), Charlie Rouse decise di registrare un album-tributo con alcune composizioni di Monk, colui che per circa undici anni, tra alti e bassi, nel bene o nel male, lo aveva accolto nella suo team di lavoro, consentendogli di esprimersi e di raggiungere una credibilità internazionale. Sphere era il secondo nome di Monk, quindi venne scelto come marchio del progetto, che inizialmente avrebbe dovuto essere solo una tribute band ma che progressivamente si trasformò in un vero gruppo interessato a registrare anche composizioni originali e standard jazz di ogni tipo, fino a giungere ad un set di brani di Charlie Parker incisi per la Verve, prima di sciogliersi dopo la dipartita del sassofonista, avvenuta il 30 novembre 1988. Nonostante il batterista Ben Riley fosse uno dei due promotori dell’iniziativa, a svettare su tutti fu Rouse, vero motore mobile del impresa, colui che era stato più vicino musicalmente e fisicamente al pianista padre-padrone, dal quale cercò immediatamente di affrancarsi, superando i limiti della rilettura e della riproposizione manieristica del repertorio monkiano ed oltrepassando così gli elementi celebrativi e revivalistici del progetto iniziale. In effetti, la scelta dei brani che gli Sphere iniziarono a proporre si arricchì presto di nuove composizioni o classici evergreen, caratterizzati però da talune sonorità, certi ritmi, colori ed atmosfere che mettevano in risalto soprattutto il modus operandi di Charlie Rouse, senza nulla togliere agli altri elementi del combo che, nella sua totalità, appariva come un meccanismo di precisione, scorrevole ed oleato, ma soprattutto capace di dispensare emozioni a piene mani.

Soprattutto nei dischi dal vivo, pubblicati dalla Red Records, come «Sphere On Tour», i quattro musicisti misero in risalto caratteristiche di unicità, pronte a confluire in maniera sincrona e sincretica verso il nucleo centrale del progetto con un Rouse in grande spolvero che a tratti accentuava le frasi in una maniera contratta e concisa, quasi che lo spettro del Monaco aleggiasse ancora sul suo capo, dal canto suo Barron dimostrò, in quel contesto, di essere uno dei più arguti e raffinati pianisti della sua generazione: intuitivo nell’esecuzione, rapido ed imprevedibile nella progressione ritmico-armonica, mentre Williams fu capace di passeggiare sul ritmo com linee marcate, nitide e distintive, attraverso un walking fluido e dilatato, così come Riley, batterista mai celebrato e spesso sottovalutato, il quale si era abbeverato per lungo tempo alla fonte monkiana, garantì i suoi potenti slanci e, al contempo, le sue calibrate e spazzolate pennellate dal tocco signorile. Si tenga presente, inoltre che il pianista Kenny Barron e il contrabbassista Buster Williams rispetto a Rouse e Riley, veri tenutari del progetto, furono più di un paio di elementi aggiuntivi, soprattutto poiché autori della maggior parte dei composizioni originali incluse nel repertorio della band. Ad esempio, nell’album in oggetto, «Dual Force» e «Tayamisha» sono a firma Williams, mentre «Spiral» e «Scratch» nascevano dalla penna di Barron.

L’incontro con la Red Records di Sergio Veschi e Alberto Alberti e la registrazione dal vivo a Bologna di «Sphere On Tour» (ribattezzato in CD, «Live On Tour»), nel novembre del 1985, segnò un punto di svolta nella carriera del quartetto: all’indomani del suo arrivo sul mercato nel 1986, l’album venne raccomandato come «Disco della settimana» dal New York Times. Gli Sphere sono state una delle compagini più avvincenti nell’ambito del mainstream degli anni ’80, una calibrata congiunzione astrale, proprio quando i pianeti si allineano e magicamente ne scaturisce qualcosa di positivo per il mondo degli uomini. La loro cifra stilistica ed il loro impianto armonico divenne paradigmatico per una serie di succedanei. In quei sei anni di attività, che ne precedettero la scomparsa prematura, Charlie Rouse fece conoscere la sua voce netta, distintiva e riconoscibile al primo chorus tra una miriade di ance che popolavano in quel decennio il pianeta jazz, mentre la retroguardia ritmica fissò alcuni canoni estetici ancora attuali nell’abito del post-bop di matrice afro-americana e non solo, dove il risultato finale era superiore alla somma delle singole parti. Perfino il fruitore più distratto ne percepisce la magniloquenza nelle sei tracce contenute nell’album. Dall’iniziale «Dual Force», passando per lunga e dilatata «Beautiful Friendship» fino ad approdare a «Scratch» che chiude la prima facciata del vinile, il quartetto sceglie un percorso di matrice post-bop incamerando stilemi tradizionali ed istanze più moderne che si srotolano tra memorabili episodi di solismo da accademia del bop post-moderno e momenti di perfetta collegialità confluente. La seconda facciata dell’album, giocata sempre attraverso una singolare conoscenza idiomatica delle materia trattata, aggiunge alla storia del jazz moderno tre performance live da manuale: «Tayamisha», «Spiral» ed un appassionato omaggio alla scrittura di Monk, «Will You Needn’t». Ciascuna delle composizioni eseguite nella notte bolognese sembra una reinvenzione in tempo reale, dove le singole parti costruiscono un percorso a sé stante che finisce per ricongiungersi e amalgamarsi magnificamente.

«Sphere On Tour» è attualmente disponibile in CD nel catalogo della nuova Red Records di Marco Pennisi.

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