DISCHI SCOMPARSI DAI RADAR: ART BLAKEY & THE JAZZ MESSENGERS: “THE GOLDEN BOY” (COLPIX 1964 – RISTAMPA HONEYPIE 2022)

(Play selections from the new musical The Golden Boy)
//di Roberto Biasco //
La ristampa di questo disco va a completare una tessera mancante nel mosaico della sterminata discografia di Art Blakey con i Jazz Messengers. Come specifica il sottotitolo si tratta della rivisitazione di alcuni brani tratti dal musical “The Golden Boy”, un lavoro portato al successo sui palcoscenici di Broadway nel 1964 con Sammy Davis Jr. come protagonista, con la regia di Artur Penn, e con musiche di Charles Strouse e liriche di Lee Adams basate su un testo di Clifford Odets del 1937 e appositamente adattato e rielaborato per l’occasione. Nel periodo 1962 – 1964 i Jazz Messengers hanno attraversato un momento magico con il famoso sestetto che annoverava Freddie Hubbard alla tromba, Curtis Fuller al trombone, Wayne Shorter al sax tenore, Cedar Walton al piano e Reggie Workman (subentrato a Jimie Merritt) al contrabbasso, oltre naturalmente al leader dietro i tamburi. Un autentico “dream team” che nel giro di un paio d’anni sfornò una serie di capolavori mai più eguagliati nella storia dei Jazz Messengers: “Caravan”, “Ugetsu” e “Kyoto” su Riverside e “Mosaic”, “Buhaina’s Delight”, “Free For All” e “Indestructible!” su Blue Note.
Questo disco, pubblicato all’epoca dalla piccola etichetta Colpix, è quindi rimasto fuori gioco per decenni, non rientrando nei piani delle massicce ristampe su CD operate dai colossi EMI – Blue Note e Universal. Si tratta di un ottimo lavorio in puro stile Jazz Messengers: arrangiamenti precisi e scattanti, swing da vendere, solisti brillanti e assoli tirati a lucido. Il valore aggiunto e l’interesse specifico per questo progetto lo troviamo nella formazione allargata – quasi una big band “light” – con il sestetto completato dal ritorno di Lee Morgan alla tromba, Julius Watkins al corno inglese, Bill Barber alla tuba, James Spaulding al sax contralto, e Charles Davis al sax baritono, per un totale quindi di undici elementi. In realtà Art Blakey ha sempre avuto tutte le potenzialità per poter essere anche un grande batterista da Big Band, avendo iniziato la carriera proprio nella leggendaria orchestra di Billy Eckstine degli anni quaranta, vera fucina di talenti del nascente be-bop. Nel corso degli anni però gli è capitato di rado di riuscire a condurre ensemble più ampi: dobbiamo risalire al 1947 dove una prima versione dei Messengers – con otto elementi – incise alcuni brani per la Blue Note, raccolti in un disco “New Sounds” condiviso in coabitazione con James Moody and His Modernists.
Nel nostro caso – sulla falsariga di quanto già fatto anni prima (nel 1957 con tutt’altra formazione) per le musiche di “My Fair Lady” – i Jazz Messengers si avventurano nel genere “musical” senza perdere un’oncia della propria identità. Merito questa volta dei musicisti, non solo solisti eccelsi, ma anche e soprattutto abili arrangiatori: Curtis Fuller, Wayne Shorter e Cedar Walton si occupano in prima persona degli arrangiamenti dei singoli brani in modo egregio. “Theme from Golden Boy”, è un pezzo corale arrangiato da Fuller e impreziosito dalla tromba in sordina di Lee Morgan, che si sviluppa su tempo medio che nel bridge passa ad un sorprendente 6/8. “Yes I Can” è un arrangiamento di Cedar Walton su tempo veloce con un Wayne Shorter in gran spolvero, che dipana i suoi assolo brucianti sorretto in gran parte dalla sola sezione ritmica. “Lorna’s Theme” ha ancora un andamento corale su un mid-tempo arrangiato da Cedar Walton, nel quale i solisti di turno – Hubbard, Fuller e lo stesso Walton – hanno modo di sfoderare tutta la loro classe. Una possente introduzione di batteria in puro stile Art Blakey apre “This is The Life”, che gode di un raffinatissimo arrangiamento di Wayne Shorter che valorizza in pieno l’afflato orchestrale del gruppo, perfetto trampolino di lancio per la sortita in solo dello stesso Shorter. Ancora Shorter cura l’altrettanto avvincente arrangiamento a tempo dispari di “There’s a Party” con le pregevoli improvvisazioni dei solisti (ancora Hubbard e Shorter). L’avvolgente ballad di “I want to Be with You” chiude i poco più che trenta minuti di un disco breve ma estremamente godibile, hard-bop “d’autore” curato nei minimi dettagli, ma che ha avuto la sfortuna di essere stato ingiustamente considerato “figlio di un dio minore” rispetto al resto della più nota e celebrata produzione di quegli anni.
