«END OF MAY» DI MARIO IANNUZZIELLO, TRA UNA VIA E L’ALTRA. (WORKIN’ LABEL, 2023)

// di Francesco Cataldo Verrina //
L’idea di una «terza via», molto praticata nel corso dei decenni da jazzisti a vario titolo, agognata ma mai completamente realizzata, ha creato sovente degli equivoci e delle aberrazioni artistiche: lo stesso Gunther Schuller, uno dei massimi propugnatori e teorici della «third stream», dovette ammetterne i limiti ed una certa impraticabilità. Per contro, i vari tentativi reiterati ancora ai giorni nostri, generalmente, producono un tipo di jazz diluito con una componente melodica più accentuata, a discapito del groove. Talvolta il costrutto sonoro diventa più immediato e quasi più accogliente, rispetto a certe asperità del jazz integralista. Come abbiamo già sottolineato, l’assillo di una combine tra la musica eurodotta e la musica improvvisata afro-americana non è recente, ma l’idea di una sua applicazione funzionale ha un punto di partenza ben preciso, ossia il giorno in cui Charlie Parker, metaforicamente, decise di oltrepassare il Rubicone e come Cesare esclamò: «Alea iacta est!». L’arrivo di «Charlie Parker With The Strings» nel 1955 ad opera della Verve di Norman Granz, frutto di alcune registrazioni effettuate con una sezione d’archi tra il 1947 ed il 1952, stabilì un precedente anche nella carriera di Bird: fu il suo album più venduto, tanto che il sassofonista ci riprovò l’anno successivo e poi nel 1961 con Charlie «Parker With The String – April In Paris». Tutti questi album avvicinarono Bird ad un pubblico generalista, soprattutto fecero breccia tra i bianchi che non digerivano il bebop. Qui si apre una vexata quaestio che non possiamo trattare in questa sede, ma diciamo solo che Charlie Parker era Charlie Parker e suonava sempre in maniera asimmetrica, con rapiti cambi di passo ed in overclocking rispetto a chiunque lo accompagnasse: era lui a dettare modi e tempi e tutto il resto diventava un mero contorno, soprattutto dopo la separazione da Dizzy Gillespie. Oggidì, tutto ciò va inquadrato anche in una spiccata tendenza del jazz contemporaneo europeo a guardare più verso taluni modelli germanico-scandinavi di tipo ECM e meno alla tradizione afro-americana, o piuttosto a rivendicare una sorta di jazz dai contrafforti mediterranei, o con influenze balcaniche.
«End Of May» del contrabbassista Mario Iannuzziello tradisce nel senso positivo i suoi trascorsi di chitarrista classico e la sua propensione alla composizione. A nove anni dall’uscita del precedente lavoro dal titolo «Post it», realizzato con la collaborazione del sassofonista Max Ionata, questo nuovo disco segna un punto di svolta, la fine di un periodo e, al contempo, l’inizio di qualcosa di nuovo. La coesistenza di un inizio e di una fine ispira il titolo «End Of May», quasi a rimarcare un cambio di rotta dell’artista nel proprio percorso individuale. Pubblicato da Workin’ Label, l’album non sfugge alla regola di questa formula propedeutica all’ascolto misto ed alimentata da una ricchezza di sfumature sonore, talvolta zuccherose, le quali avvicinano il jazz alla musica classica, allontanando quest’ultima dal suo alveo naturale. Non c’è un metodo per tale tipologia di musica, ve ne sono molti, dunque è merito dell’ensemble e del mix strumentale se «l’ibrido di risonanza» riesce a trovare il suo «break even point», una sorta di punto di pareggio e di bilancio tra strutture melodiche, rimiche ed armoniche. Ad esempio uno dei brani di punta del disco «Ruhe», come c’informa l’ufficio stampa, fa ricorso ad alcune di tali metodologie: «Ruhe è una composizione originale di Iannuzziello per quartetto d’archi e quartetto jazz ispirata al ciclo di acqueforti «Ein Handschuh» del 1878 ad opera di Max Klinger. L’idea musicale di fondo è il contrappunto e la sovrapposizione di più linee melodiche in un continuo gioco di imitazione delle une verso le altre, espediente che affonda le sue radici nella poetica di autori classici del primo Novecento quali Erik Satie e Maurice Ravel. Sul solco di questa intuizione compositiva si fanno largo creatività e improvvisazione».
Dieci componimenti scritti ed arrangiati dal contrabbassista barese e registrati al Cicaleto Recording Studio di Arezzo. Presenti sul set, insieme a Iannuzziello: Esmeralda Sella (pianoforte), Edoardo Liberati (chitarra), Antonio Saldi (sax alto), Jacopo Fagioli (tromba) Luca Di Battista (batteria), Ida Di Vita (violino primo), Jamiang Santi (violino secondo), Riccardo Savinelli (viola) e Gianluca Pirisi (violoncello). L’album nel suo complesso e ben strutturato e far emergere la buona vena compositiva di Iannuzziello, specie in «San Menaio», un vero e proprio gioiello di fusion moderna, ma che per paradosso risulta essere il componimento più atipico rispetto all’intero concept sonoro, o parte di esso. Il climax emotivo si raggiunge con la title-track, «End Of May», una ballata progressiva dal sapore soulful e dall’aura quasi filmica, dove gli archi restano in stand-by. «Humanity» di Dado Moroni è un altro momento assai riuscito e più vicino agli stilemi basilari del jazz con un ottimo interplay fra le retroguardia ritmica e la prima linea in ottone. Una nomination speciale merita sicuramente la conclusiva «Urban Sketches», sicuramente un tributo alle atmosfere davisiane di «Sketches Of Spain», che a metà percorso diventa una via di mezzo tra le due scuole di pensiero, il jazz e la sinfonica, come avrebbe detto Mingus, ma lui non l’avrebbe mai fatto, sapeva che i due mondi erano e sono tutt’ora inconciliabili. Ad esempio, il «classicismo» di Mingus, il quale aveva studiato il violoncello, è insito nel suo modo di comporre jazz. Non esiste altro compositore jazz, nel senso più afro-americano del termine, del livello di Mingus. Al netto di ogni congettura, «End Of May» di Mario Iannuzziello è un piacevole compromesso, sicuramente un tentativo di ampliare il proprio spettro compositivo, ma che ripropone l’annoso problema dell’uso degli archi nei dischi jazz. Ad ogni modo, tutte le composizioni dell’album possiedono un senso di unitarietà ed una visione coerente dello spazio sonoro, in cui convivono creatività e scrittura senza tralasciare l’elemento di spontaneità e istintività che storicamente contraddistinguono il jazz in tutte le sue forme.
