CHET ADORAVA MILES, ENRICO RAVA PARLA IN UNA LUNGA INTERVISTA DEL “COLLEGA” BAKER E NON SOLO
// di Guido Michelone //
Il 21 aprile 2002 al Tivoli di Copenaghen Enrico Rava riceve il JazzPar 2002, forse il premio più ambito che in Europa viene assegnato per la musica afroamericana. Poco dopo, invece, il trombettista e compositore di origini piemontesi (ma triestino di nascita), a Parigi ottiene dalle mani di Catherine Tasca, Ministero della Cultura francese, la croce e il titolo di Cavaliere delle Arti e delle Lettere: una bella rivincita, come egli stesso intuisce, contro tutti quegli intellettuali destrorsi che ritengono la Ministra ostile al genio italico. Tra Copenaghen e Parigi, c’è stato Montréal, nel senso che è uscito Plays Miles Davis il disco del concerto che Enrico tiene il 5 luglio 2001 per il rinomato Jazz Festival canadese: un’ora di tributo al grande trombettista nero, nel decennale della scomparsa, in compagnia di una All Stars tutta italiana, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enzo Pietropaoli, Roberto Gatto. Francese è invece il grande fotografo Guy Le Querrec che, in rigoroso bianco e nero, documenta l’evento sul libretto allegato e la casa discografica, l’indipendente Label Bleu, da oltre un decennio specializzatasi nel jazz contemporaneo e nella musica etnica. Incontro Rava, dalla Liguria, tra un impegno l’altro: baffo spiovente, capelli grigi lunghissimi, look fricchettonesco, con la proverbiale flemma, condita da un simpatico miscuglio di pessimismo esistenziale, di intelligente autoironia e di autentiche passioni, risponde esaurientemente a tutte le mie domande.
D. Allora partiamo da questi due nuovi riconoscimenti ufficiali…
R. Sì, le ‘medaglie’.
D. Una danese e una francese…
R. Quella danese è un premio specifico per il jazz, che viene assegnano ogni anno, ormai da tredici anni. Lo ha già vinto gente come Martial Solal, Tony Coe, Jim Hall, Roy Haynes, Muhal Richard Abrams. Io sono il quinto europeo a vincerlo, il primo italiano. E’ un premio molto prestigioso ed è anche piacevole perché include una cifra in denaro abbastanza ragguardevole, cosa utile per noi jazzisti che non abbiamo cachet da rock stars.
D. Per la Francia è un po’ diverso?
R. Sì, è una cosa che danno a persone del mondo dell’arte e dello spettacolo: è una delle quattro onorificenze nazionali francesi, ed è proprio quella specifica per gli artisti. Ho ricevuto una lettera in cui mi si spiega che è un contributo, un riconoscimento per ciò che ho fatto nel mondo dell’arte. Una cosa carina, ma non cambia niente, non succede niente, “non serve a niente”: anzi, l’unica cosa utile in Francia è che con questo titolo sei persona grata. Se ti capita qualcosa, hai dei canali preferenziali
D. Questo premio tra l’altro arriva in un momento difficile per la Francia, dove hai molti amici musicisti…
R. …e ai jazzisti francesi Le Pen proprio non piace…
D. E cosa dicono appunto i musicisti?
R. Ma, la cosa fa anche un po’ ridere, perché tutti i miei amici francesi è da un anno che mi pigliavano in giro per via di Berlusconi, adesso farebbero bene a pensare ai fatti loro. La mia idea sulla Francia è che non è cambiata molto. Questo Le Pen ha avuto pochissimo in più di quanto già aveva nelle precedenti elezioni. Semmai è cambiato il fatto che la gente non è andata a votare: ed è questo ciò che mi colpisce maggiormente. D’altronde è un problema di questo periodo, anche in Italia: meno la gente vota, meno vince la sinistra.
D. Ma come lo vedi questo fenomeno, tu che hai un passato ‘militante’, già a partite della contestazione sessantottesca?
R. Se la gente non va a votare è perché i politici non sono capaci a mantenere viva la passione: forse hanno perso il polso della situazione, oppure non capiscono i bisogni e gli interessi di cui la popolazione vuole che ci si occupi. Forse per questo c’è il disamore totale: ma solo su certi temi. Manca una gestione pubblica di tipo umanitario. E’ demagogia dire che non esistono certi problemi. Io che abito tra Chiavari e Zoagli, in Liguria, vedo che la gente vive con le sbarre alle finestre: è una questione che va affrontata, anche a livello politico. Oggi forse è il quotidiano ad interessare maggiormente alla masse, forse più dei grandi temi.
D. Parliamo del tuo nuovo disco, che è su Miles Davis: mi sembra che suoniate molto rilassati…
R. Abbiamo suonato anche meglio dopo, perché il repertorio si è ampliato molto. Comunque, sì, era una buona serata, perché c’era tanto pubblico in sala, come si nota anche dall’ascolto del disco: sembravano i fans dei Rolling Stones, con reazioni incredibili. Dunque c’era un bellissimo clima con gli spettatori. Era la quarta volta che mi invitavano al festival di Montréal e a quelli di Vancouver e Toronto, dove avevo già portato la Carmen. Dopo queste esperienze avevo quindi carta bianca e non è male per un jazzista.
D. Il riferimento del disco è in specifico il Miles Davis degli anni Sessanta col quintetto.
R. Non ho problemi nel dire che il Miles che io amo è quello che va dal ’45 al ’65. Il suo My funny Valentine secondo me è uno dei dischi più belli del XX secolo.
D. Oggi cosa rappresenta per te Miles Davis?
R. È un grande a tutto tondo: non è solo un grande trombettista, è un grandissimo trombettista, e soprattutto un grande musicista, un grande catalizzatore, un grande iniziatore, un grande pensatore, un inventore di gruppi, di ritmiche, di sonorità, è un opinion leader, è un must.
D. Non hai però voluto imitare la musica di Miles?
R. Chiaramente: l’omaggio non vuole dire copiare il musicista, ma più o meno interpretarne un po’ del suo repertorio…
D. Sei soddisfatto di Play Miles Davis?
R. Sì, come puoi essere soddisfatto di un disco. Pensi sempre che potrebbe essere meglio. Ma potrebbe anche essere peggio, quindi… Un musicista non è mai completamente soddisfatto delle cose, perché poi quando le fa, sente tutti i difetti più degli altri, capisci? perciò nell’insieme sono più soddisfatto del concerto, del clima che c’era. Però questo CD è anche un bell’oggettino, c’è una bella copertina, un bel libretto. Nell’insieme un disco di cui sono felice.
D. Per il futuro, quali idee?
R. Per cominciare, appena finisce questa serie di dischi di Montréal (altri due live), voglio incidere col mio quintetto con tutta una serie di temi nuovi che ho scritto da poco. E poi un sacco di concerti in duo con Stefano Bollani, che è una delle cose che faccio più volentieri e che tutti vogliono. C’è anche in ballo per novembre una tournée con Roberto Gatto. Nel frattempo esiste questa iniziativa di Siviglia, un gruppo che comprende tra gli altri Miroslav Vitous e un grandissimo chitarrista di flamenco che si chiama Canizares. Ne verrà fuori forse un disco in Spagna.
D.E qui tocchiamo un problema grave per quanto riguarda il jazz e la distribuzione discografica.
R.Se vuoi essere presente nel mondo discograficamente o vivi in America e fai i dischi per una major americana negli Stati Uniti, e non majors americane in Francia o in Italia, perché queste “non servono a niente”. Registri in USA, allora il disco automaticamente ti viene distribuito nel mondo intero. Oppure incidi per la ECM, che è l’unica indipendente che distribuisce in tutto il mondo. Altrimenti devi fare un disco a nazione: per esempio Label Blue in Francia è distribuita benissimo, in Italia i dischi miei sono distribuiti bene, mentre quelli degli altri e dei francesi nessuno li trova. Alla stessa stregua i miei album in Spagna non si trovano, in Germania è difficile. Allora se vuoi essere “presente” in Spagna, devi fare un disco spagnolo, in Germania devi fare un disco tedesco, sennò sei presente con cento copie importate, il che è come non esserci. Questo è il problema del jazz.
D. Torniamo ancora a riflettere sui due trombettisti della tua vita; cos’hanno per te in comune Chet Baker e Miles Miles?
R. Hanno moltissimo in comune. Chet adorava Miles ed era stato molto influenzato da lui a cominciare dal repertorio, quello dei primi anni Cinquanta. Invece Miles diceva un sacco di cose, anche sprezzanti verso gli altri, però di fatto tra le righe nell’autobiografia si capisce che Miles intuisce che Chet suona benissimo, quello che lo fa incazzare semmai era il successo di Chet, quando negli anni Cinquanta esistevano trombettisti neri bravissimi come Clifford Brown, Fats Navarro, Kenny Dorham praticamente ignorati, mentre la critica era per Chet. Miles ne fa un fatto politico, di razzismo, e non ha tutti i torti, ma neanche tutte le ragioni.
D. Perché dunque questo astio?
R. Chet è diventato un personaggio a soli 23 anni: non solo era bianco, ma per essere una persona specialissima, era un jazzman con un carisma pazzesco. In fondo piaceva ai bianchi, ai neri, ai gialli, ai verdi. Ed in più suonava da Dio. Non era Miles, chiaramente. Miles era su un altro livello: come ti dicevo, un fenomeno a 360 gradi, Miles non è solo un forte trombettista, un fortissimo trombettista, ma è soprattutto un gigante come musicista, ecc. ecc. Ma c’è una differenza sostanziale tra i due personaggi: Chet è un perdente, Miles un vincente, su questo non ci sono dubbi.
D. E invece dell’uomo Miles cosa ci dici?
R. Non ho conosciuto Miles abbastanza bene, gli ho parlato, è stato anche molto carino, però non posso dire di averlo conosciuto. Chet lo conoscevo veramente e ci ho suonato assieme parecchie volte.
D. Tra te e Miles cosa vi siete detti?
R. Io e Miles abbiamo chiacchierato una mezz’oretta ed era molto gentile, molto macho anche, giocava molto a fare il jazzista duro. Quella volta era molto affabile, era in un buon mood, gli faceva piacere conversare. Insomma è stato carino.
D. Altri con lui hanno avuto esperienze diverse…
R. …dicono che fosse uno molto timido e che quindi a volte reagiva con un’aggressività pazzesca; certe cose gli facevano girare le palle e poteva partire in quarta. Per fortuna quell’aspetto io non l’ho visto. Sicuramente però esiste perché ne parlano tutti. Per esempio Miles un giorno alle prove è uscito e si è nascosto per sentire Paul Chambers che si lamentava di lui e diceva che era uno stronzo. Miles è rientrato, gli ha ficcato un pugno in faccia e l’ha steso per terra. La sua vita è piena di storie del genere.
D. Anche Chet era un timido?
R. Al contrario, era un duro anche lui. Era molto forte fisicamente, tant’è che è riuscito a vivere sino a 59 anni, pigliando dosi da cavallo, che avrebbero ammazzato i più forti. Era uno che, distrutto da una vita allucinante, partiva magari dopo un concerto con la sua Alfa Romeo vecchia di vent’anni da Copenaghen e non si fermava finché non arrivava a Barcellona, viaggiando tutta la notte in autostrada e giungendo in tempo per un altro concerto, magari tre secondi prima di entrare in scena. Era uno forte, uno speciale, uno che faceva bene tutto. Se non fosse stato un grande trombettista, ad esempio sarebbe potuto diventare un campione di Formula Uno, perché guidava benissimo. Salire in macchina con lui era impressionante, come andare con un pilota professionista, con una tecnica innata di guida spericolata, grazie riflessi incredibili, che applicava anche in altri campi. Ad esempio quando si giocava a carte, vinceva sempre lui. Chet aveva insomma tutte le caratteristiche per essere vincente su tutta la linea. Però covava un problema talmente forte di autodistruzione. Ed quindi alla fine Chet perdeva. Però ha avute tutte le possibilità: intelligente, velocissimo. Completamente autodidatta, si metteva alla batteria per esempio e suonava con uno swing come c’erano pochi in giro. A lui non piacevano gli accordi, quindi ai grandi pianisti che talvolta suonavano con lui faceva vedere lui gli accordi: non li sapeva suonare, ma se li era imparati da solo. Chet aveva un talento formidabile, con un’estrema scioltezza per le cose in genere, non solo per la musica. Appunto aveva riflessi mostruosi: ascolti in particolare i primi dischi con Mulligan, anche i tre live recentemente ristampati, che contengono parecchi inediti: suona divinamente e di rado ho ascoltato un musicista con riflessi così veloci. Meglio ancora di Miles.
D. E sulla fine di Chet Baker?
R. Quando, un mese dopo, ho saputo che era volato giù dall’albergo ad Amsterdam, mi è sembrato impossibile che fosse un suicidio proprio perché avevo visto Chet veramente molto contento. In trent’anni che lo conoscevo era la prima volta che mi diceva delle cose così positive. Prima Chet viveva un po’ in albergo, un po’ in pensione, a volte dormiva in macchina, era un rom, Chet era, come ti dicevo, l’ultimo beatnick della storia americana.
D. Ma, suonando assieme, ritieni che Chet fosse più un leader o un compagno di strada?
R. Sul palco Chet era un leader, era un capo. Non era un compagnone democratico, era il capo. L’ho visto una volta in televisione a fine anni Cinquanta con un quintetto francese non eccezionale, Chautemps, Boland, DeHaas, Sandrais. In questa trasmissione noto che Chet ha un tempo perfetto, un tempo micidiale, un tempo interno ottimale: appena il batterista compie la minima sbavatura a livello ritmico, Chet va fuori di testa. Comunque, ad un certo punto, Chet s’è arrabbiato per non so quali errori commessi dal batterista, ed in televisione, in diretta, lo ha preso, gli ha alzato la batteria e lo ha sbattuto fuori. E poi Chet è tornato al microfono, dicendo che avrebbe continuato senza batterista. Tutto questo per dire del carisma da leader. Chet era uno durissimo, talvolta anche molto dolce, però sostanzialmente era un duro, forse un problema derivato dal fatto che aveva esperienze tremende nel mondo degli spacciatori. Inoltre Chet era anche molto forte fisicamente: se ti mollava un pugno, potevi finire kappaò.
D. D’altronde anche Miles amava il pugilato, forse non solo a livello agonistico. E passando appunto a Miles, quale può essere il periodo del trombettista che apprezzi maggiormente?
R. Non ho problemi nel dire che il Miles che amo è quello dal 1945 al 1969; lo amo sempre anche dopo, però molto meno. Posseggo i dischi della svolta elettrica, ma non li ascolto mai. Credo che saranno anni che non ascolto gli L.P. di Miles degli ultimi gruppi dal 1982 sino alla fine, né quelli funk prima del ritiro. Anche se in questi album appena fa una nota, vale più la nota di Miles dell’opera omnia di tutti i trombettisti del mondo messi insieme. Sta di fatto che sono dischi che non ascolto mai perché amo infinitamente di più gli altri.
D. Quali in particolare?
R. Ascolto di continuo, e mi porto dietro quando viaggio, i primissimi dischi con Charlie Parker, passando per Birth of the Cool, poi i primi album Prestige con Horace Silver, John Lewis, Kenny Clarke, album come Blue Eyes, Bags Groove, Cookin’, dischi che adoro. Poi gli L.P. con John Coltrane, quelli CBS con Tony Williams ed Herbie Hancock sopra di tutti My funny Valentine che secondo me è uno dei dischi più belli del secolo.