ChetBaker_Intimacy

// di Francesco Cataldo Verrina //

Chet Baker – Intimacy (Nuova Stampa in VInile 180 gr.-Red Records)

La Red Records, tornata a produrre, gioca subito una carta importante. Dal qualche mese è disponibile sul mercato un inedito di Chet Baker, che non mancherà di alimentare il dibattito a livello planetario. L’opera, inzialmente in CD, è ora spalmata su un doppio LP con copertina getfoilder di pregio e booklet interno con le note informative, raggiunge senza difficoltà il segmento di mercato più alto del vinile, quello praticato dagli audiofili.

L’album è ricavato da un concerto registrato il 1° dicembre del 1987 al Teatro Nuovo di Catania. Sono in tanti coloro che hanno memoria di questo evento. Il teatro era gremito, ma Chet, a detta dei presenti, si mostrava indifferente alle lusinghe del pubblico; seduto al centro del palco con gli occhi chiusi e la testa ricurva, sembrava calato in una dimensione fluttuante, trascinato dal flusso dei propri pensieri e di una musica che scavava nelle pieghe più recondite dell’animo umano.

Tutto ciò si riflette nell’atmosfera delicata e brunita del disco, in massima parte fatta di note sofferte che fuoriescono come brevi ma intense scintille intrise di liricità, per poi rituffarsi nei chiaroscuri di un pathos quasi fisico e premonitore: solo qualche mese dopo Chet Baker verrà trovato morto. Il titolo scelto, «Intimacy», ossia «Intimità» è quanto mai riassuntivo della percezione che l’album fornisce sin dal primo ascolto, soprattutto l’insolita scelta strumentale, ossia la mancanza di un kit percussivo, crea un mood sospeso, rilassante e crepuscolare. Dopo la presentazione del musicisti, l’opener, «D.S. Dilemma» di Jim Heath è quasi evocativo. Inizialmente basso e pianoforte cercano di mantenere il sistema accordale su un territorio swing, ma la tromba di Chet sembra cercare gli angiporti e gli anfratti più in ombra di una metropoli durante un film noir. Presto anche i due sodali riescono a trovare la stessa dimensione. L’assenza della batteria offre loro un ampio spazio di manovra. Finalmente anche Chet, incoraggiato dallo splendido pianoforte di Nicola Stilo, si muove cercando qualche spiraglio di luce, mentre la tromba diventa più narrativa e meno errabonda.

A questo punto, il trombettista entra in modalità sing-a-song con «The Touch Of Your Lips», la sua voce risulta più calda ed avvolgente del solito, mentre il piano di Nicola Stilo ed il basso di Rocky Knauer gli costruiscono un muro di cinta quasi protettivo, soprattutto il pianista copre lunghi spazi nella parte intermedia del brano che si espande per oltre dieci minuti. A questo punto Chet imbraccia la tromba e rilegge tutto il tema in versione strumentale. Dopo l’inserto del bassista, nel finale si ritorna al canto. La reiterazione del motivo sembrerebbe quasi un bis anticipato. In «But Not For Me» Chet predilige ancora la formula cantata, tentando un lungo scat swingante sostenuto alla perfezione da Knauer e ripreso dal pianoforte che diventa propedeutico ad un lungo interplay con il basso fino all’epilogo cantato. «You Can’t Go Home Again» è una ballata sotterranea che ritrova Baker nella sua dimensione più intima e fragile: le note del piano si materializzano come piccole lacrime versate con pudore, mentre la tromba diventa struggente e malinconica. «Arboway» scritta da Rique Pantoja è un mid-range magnificato dal pianoforte di Nicola Stilo che diventa descrittivo come un viaggio on the road: straordinaria la sua capacità di suddividere il tema in vari capitoli scanditi dai cambi di tempo. Baker sembra defilato, quasi a voler concedere al sodale lo spazio che merita; al suo arrivo, ad oltre metà del percorso, ripete lo schema melodico-armonico suggerito dal pianista.

Con «Zingaro» di Jobim si approda ad un differente mood. Stilo imbraccia la chitarra e Baker si diletta al piano: l’effetto «saudade-Brazil» è perfetto, perfino nell’antica terra di Trinacria. «Margarine», di Hal Galper, rivendica un’anima bop ed è forse il brano che alza di più la temperatura complessiva della performance, con Nicola Stilo che passa al flauto creando un’aura vagamente afro-esotica e lussureggiante, sostenuto dal basso di Rocky Knauer pronto a spianare il terreno ad un seducente finale bakeriano che ne certifica la linea editoriale. In chiusura, l’atmosfera dell’album si tinge ancora di poetici versi sonori con una languida e perforante versione di «In A Sentimental Mood» di Duke Ellington. Molti meriti vanno certamente alla nuova Red Records diretta da Marco Pennisi per aver riportato in auge un piccolo tesoro scomparso, ma anche a chi ha saputo custodirlo per quasi trentacinque anni. «Intimacy», disponibile su doppio vinile, come tutti i ritrovamenti degli ultimi anni relativi ai più grandi jazzisti, quali John Coltrane, Miles Davis, Thelonious Monk, etc, anche per Chet Baker si potrebbe usare il concetto manzoniano di «provvida sventura». Del resto, molti artisti hanno avuto vite difficili e morti premature. Il fatto che il loro nome, grazie a ritrovamenti di tale portata, continui ad essere vivo ed attuale, rappresenta una sorta di riscatto sul tempo e sulla sorte.

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