ShortyRogers

// di Kater Pink //

Antefatto

Il ristorante chiamato “Verpilate’s” fu costruito nel 1934 ad Hermosa Beach Los Angeles, a pochi passi dall’oceano al numero 30 di Pier Avenue e, successivamente, trasformato in “The Lighthouse” nel 1940 (“Café” fu aggiunto al nome ufficiale solo quando l’attività venne ceduta nel 1981). Il club iniziò a programmare eventi jazz per la prima volta il 29 maggio 1949, quando il proprietario John Levine permise al bassista Howard Rumsey di avviare una jam session domenicale come prova. L’esperimento fu un successo. Rumsey divenne presto direttore del club mettendo insieme una house band chiamata Lighthouse All-Stars. Più tardi sarebbero arrivati Oscar Peterson, Horace Silver, Ramsey Lewis, Stan Getz, Herbie Mann, Cal Tjader, Joe Sample, Wes Montgomery, Buddy Collette, Red Norvo e The Jazz Crusaders.

In un’intervista del 1986, Rumsey racconta di quell’avventura a Jerry Roberts, giornalista del Daily Breeze: “Facevo suonare tutti (…) Una notte si presentò Cannonball Adderley col suo gruppo. Ci siamo presi un momento per bere una cosa e per scambiarci i convenevoli, quindi si sono alzati, sono saliti sul palco ed hanno scatenato l’inferno. Accidenti, se erano favolosi. Chuck Mangione era solo un ragazzino quando si è esibito qui con Art Blakey, e quando Blakey ha fatto suonare Keith Jarrett nella sua band. Questo era quel genere di posto, del tipo se qualcuno voleva suonare, suonava.

Mentre il club dava spazio anche gruppi e artisti di passaggio, il Lighthouse All-Stars diventò un ensemble a sé stante, che aveva tra i suo ospiti fissi Chet Baker, Gerry Mulligan e Miles Davis. I membri più longevi dei Lighthouse All-Stars furono Bob Cooper (sassofono tenore), Conte Candoli (tromba) e Stan Levey (batteria). I sostenitori del West Coast Jazz, come Shorty Rogers, Richie Kamuca, Bill Holman, Bud Shank, Shelly Manne e Jimmy Giuffre, all’inizio, erano anche clienti abituali. Nel 1953 Max Roach fu il batterista ufficiale per qualche tempo. Nel frattempo Il club divenne anche un luogo importante per le registrazioni di molti musicisti: Art Pepper, Lee Morgan, Cannonball Adderley, Mose Allison, Ramsey Lewis, Art Blakey, Charles Earland, Grant Green, Elvin Jones, Cal Tjader, The Modern Jazz Quartet, The Three Sounds, The Jazz Crusaders e Joe Henderson. Alla fine degli anni ’50, il Lighthouse sponsorizzò perfino un festival jazz inter-collegiale. John Levine morì nel 1970 e Rumsey lasciò la direzione artistica del locale nel 1971 per aprire il suo jazz club, il Concerts By The Sea, nella vicina Redondo Beach.

Shorty Rogers & His Giants – “The Swinging Mr. Rogers”, 1955

Shorty Rogers era molto amato negli ambienti studenteschi nella California degli anni Cinquanta. Molti giovani universitari, quando tentavano delle improbabili jam-sessions, cercavano di imitarne il suono e lo stile. Parecchio materiale scritto e prodotto da trombettista in quegli anni veniva usato per creare particolari atmosfere in tanti film, programmi televisivi e spot pubblicitari. Lo stile di Rogers era morbido, talvolta spaziato e minimalista, una sorta di “be-west-coast-boppish” molto scorrevole con eleganti pennellate swing. L’album fu registrato nel 1955, momento in cui le sonorità west-coastiane si stavano evolvendo verso soluzioni sempre più attrattive, esercitando un fascino notevole soprattutto sulle popolazioni bianche. Shorty Rogers, prima di “The Swingin Mr.Rogers” aveva registrato molti album con gruppi di varie dimensioni, turnisti ed esecutori occasionali; in questa sessione, per la prima volta, portò in studio il quintetto con cui si esibiva regolarmente e stabilmente nei locali notturni; tutti musicisti con una spiccata personalità, ognuno con un contratto discografico come solista e per nulla adusi ad essere considerati dei semplici comprimari: Jimmy Giuffre al clarinetto, sax tenore e baritono, Pete Jolly al pianoforte, Shelly Manne alla batteria e Curtis Counce al basso. Sicuramente questo album è da considerarsi il migliore degli anni ’50, fra quelli realizzati dal trombettista con un piccolo ensemble. Lo stile del leader è decisamente originale; Jimmy Giuffre risulta brillante e creativo su ogni traccia, prestando molta attenzione al pianoforte di Pete Jolly, mentre Shelly Manne dispensa piccole scaglie di genialità percussiva, sostenuto dal basso di Curtis Counce. Tra in i momenti più evidenti dell’album, sono da segnalare: “My Heart Stood Still”, “Isn’t It Romantic”, “Trickleydididlier”, “Not Really The Blues”; in particolare, il noto tormentone di Rogers, “Martians Go Home”, da solo vale il prezzo della corsa. “The Swinging Mr. Rogers” è un set completo ed accattivante, senza momenti di cedimento creativo ed esecutivo, una vera epitome, una sorta di compendio del cool jazz a tinte swing.

Conte Candoli & Lou Levy – “West Coast Wailers”, 1958

Andre Barbera in “The New Grove Dictionary of Jazz” scrisse a proposito di Lou Levy: “Un pianista bop con le dita di una flotta noto principalmente come accompagnatore”. La nomea di accompagnatore sopraffino e dal suono “confortevole” Levy se l’era guadagnata accompagnando Peggy Lee (1955-1975), Ella Fitzgerald (1957-1962) e, successivamente, Anita O’Day. Il tocco pianistico di Levy nei dischi jazz strumentali sviluppa davvero un gustoso “cibo per l’anima”. Le sue collaborazioni con Shorty Rogers, che per primo lo liberò dall’essere un semplice accompagnatore da salotto e Stan Getz ne sono una dimostrazione. Già qualche anno prima, Lou Levy aveva avuto l’opportunità di lavorare con Conte Candoli, trombettista di vaglia, uno dei più abili cesellatori di quel suono californiano che tanto piace agli amanti del jazz più solare e scevro da complicazioni, intrighi sonori e complessità sociali, ma non sempre apprezzato da una certa critica e considerato di serie B. Con “West Coast Wailers”, entrambi sfruttarono appieno l’occasione offerta dall’Atlantic Records, sviluppando un set ricco di sfumature sonore e tutt’altro che adagiato sulle morbide e comode sonorità della costa occidentale. Alla testa di un valido quintetto costituito, oltre che dai due soci di maggioranza dell’impresa, dal sassofonista tenore Bill Holman, autore della splendida “Cheremoya” che apre al seconda facciata dell’album, dal bassista Leroy Vinnegar e dal batterista Lawrence Marable. Il gruppo esce rapidamente dallo stereotipo West-Coast dopo un’introduzione pianistica contemplativa, lanciandosi in un adattamento quickstep bop di “Lover Come Back to Me” tratto dell’operetta di Sigmund Romberg. La band lavora in sincrono con una collegialità da manuale come un infuocato drago a cinque teste e con una sezione ritmica sempre in evidenza. Ottima la versione di “Jordu” scritta da Duke Jordan, eccellenti le due composizioni di Candoli, “Pete’s Alibi” e “Marcia Lee”, che non avrebbero sfigurato neppure all’interno di dischi molto più blasonati e più rappresentativi della storia del jazz. Registrato il 16 e il 17 agosto del 1955 e dato alle stampe solo nel febbraio del 1958, “West Coast Wailers”, a dispetto del titolo, è un album tutt’altro che basato sul ciondolante suono del Pacifico. Il titolo letteralmente significa, infatti, “Vagabondi della West Coast”. Forse il loro girovagante vagabondaggio, quel giorno, li aveva condotti dalle parti di New York, facendogli respirare un’aria più umida, di certo, più carica di elementi sonori afro-americani.

Bud Shank and The Rhythm Section – Tis Bud’s For You…”, 1984

Bud Shank negli anni ’50 è stato un pilastro dello stile della West Coast, flautista e sassofonista con Bob Cooper, co-leader dei LA Four ed artefice di una musica che mescolava jazz, Brasile ed atmosfere classicheggianti. In “This Bud’s For You…” assistiamo ad una vera metamorfosi; sarà stato un segno della maturità, quando registrò questo album Shank aveva già una sessantina d’anni, ma ci troviamo di fronte ad un autentico bopper della migliore risma. In passato Shank si era espresso con un tono cool, talvolta eccessivamente freddo e staccato, ma qui sorprende per energia e calore. Abbandonate le divagazioni flautistiche, il suo contralto canta come un gallo da combattimento con una forza ed una passione mai udita prima nei suoi assoli. Soprattutto quanti lo avevano etichettato come un decadente e molliccio flautista, in questo album ritroveranno, pur trattandosi di un viso pallido, un sassofonista di vaglia e degno della migliore tradizione afro-americana. Sostenuto dal pianista Kenny Barron, da Ron Carter al contrabbasso e dal batterista Al Foster, Bud Shank ammalia emana un suono impetuosoed energico. Davvero un quartetto di titani in uno stato di grazia. Da considerare che siamo in un periodo non facile per il jazz, devastato ed occultato da contaminazioni e sperimentazioni al limite dell’illecito sonoro. L’album fu infatti registrato il 14 novembre del 1984 al Classic Sound Studio di New York. L’abbrivio con “I’ll Be Seeing You” è subito convincente; a seguire la magistrale interpretazione di “Nica’s Dream” di Horace Silver, sicuramente il pezzo più bello dell’album. Ottima la revisione di “Never Never land” e “Space Maker” di Walter Norris, rivitalizzati con notevole tempra interpretativa. Davvero intensa la riproposizione del classico a firma Bud Shank, “Cotton Blossom” riportato a nuova vita. In tutto, sette pezzi che non aggiungono nulla alla storia del jazz, ma che compongono un album, dinamico e scorrevole, da riscoprire assolutamente, dove il vecchio leone del Pacifico ritrova nuova ispirazione, offrendo un terreno espressivo altamente qualitativo ai sui sodali.

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