Fabio Morgera (In A Taurean Way) Con «Tribute To Joe Henderson» (Red Records, 2022)
// di Francesco Cataldo Verrina //
In «Tribute To Joe Henderson» c’è tutta l’essenza della musica di Fabio Morgera, quella sua «anima nera», quella blackness conquistata sul campo durante la sua permanenza in USA, e che il trombettista napoletano sintetizza egregiamente in questo frammento estrapolato da una sua vecchia intervista: «Durante il mio periodo newyorchese ho imparato tante cose. Ma credo che la cosa più importante sia stata la conoscenza dei musicisti di colore da vicino, suonandoci spesso e capendo da che tipo di storia proviene questa musica. D’altronde ero partito per questa ragione. Fino a quando non si entra nella storia e nella vita quotidiana dei neri, non si potrà mai assorbire a fondo la loro musica (…) Bisogna dimostrare di essere dalla loro parte perché si aprano. Già se dicono che sei “cool” lo si può considerare un complimento. Ma quando uno come Frank Lacy ti dice “You’re Black” mentre stai suonando con lui, beh, allora puoi dire di esserci veramente dentro. Può anche darsi che vedano me in modo più benevolo, perché essendo diversamente abile, so di certo cosa vuol dire essere discriminato(…) Non so, sia una mia supposizione. Il rispetto i neri te lo danno subito, specialmente se ti comporti bene, e dimostri di essere umile e che, insomma, ci stai provando, tutto qui. Appena conobbi personalmente Clark Terry, mi invitò a suonare sul palco del Village Vanguard, e andò a finire che mi chiese di restare per tutto l’ultimo set. In seguito mi è successo con tanti altri. Se ci sono dei musicisti con la puzza sotto il naso a NYC, sono nell’ambiente di Broadway o nel mondo della musica classica europea, non di certo negli ambienti musicali afro-americana».
Per il Joe Henderson rivisitato da Fabio Morgera, non esistono termini di paragone, anzi mette in un angolo buio perfino illustri precedenti. Nel corso degli ultimi decenni, il «Barone del sax tenore» è stato spesso oggetto di attenzioni da parte musicisti di differente cabotaggio, i quali pur avendone offerto una chiave di lettura talvolta interessante, nella maggior parte dei casi, hanno finito per planare su una sorta di citazionismo calligrafo dello stile hendersoniano. Sostenuto da un line-up di alto lignaggio, Piero Odorici e Daniele Scannapieco sax tenore, Riccardo Galardini chitarra, Emiliano Pintori organo Hammond e Roberto Gatto batteria, Morgera riporta la musica di Joe Henderson sulla linea di sangue e nel solco della tradizione dei grandi musicisti afro-americani. È il Joe Henderson più «nero», che sia sia mai sentito, locupletato in un adamantino involucro sonoro fatto di elementi confluenti, ossia quelle componenti della cultura afro-americana che oggi costituiscono la cosiddetta BAM (Black American Music), l’unico altare al mondo a mantenere ancora vivo il sacro fuoco del jazz, al riparo da tanti strimpellatori scandinavi, suonatori di arpe e di balalaike.
Sempre in quella vecchia intervista, Fabio Morgera si esprimeva in maniera quasi predittiva: «Ci sono perlomeno tre ragioni per adottare questa denominazione (BAM), la prima è etica, perché restituisce la paternità della musica nera ai neri (ma guarda un po’) e si libera delle frequenti implicazioni razziste e discriminatorie dell’industria jazz; la seconda è estetica (jazz spesso vuol dire musica senza elementi black, senza poliritmi, senza blues, musica che non ci interessa più di tanto), e la terza è economica perché restituisce al musicista, nero o bianco o viola che sia, la centralità della musica (…) la denominazione Black American Music infatti, senza spiegazioni aggiuntive, dà subito un’idea di ritmo e divertimento, e quindi invoglia e incuriosisce i giovani, mentre la parola jazz suona vecchia, e suggerisce loro un’idea di musica noiosa, da ascoltare seduti su una poltroncina senza potersi muovere, proprio come fanno gli anziani».
Una cosa è certa, ascoltando il tributo di Morgera e compagni all’iconico sassofonista, difficilmente si riesce a stare incollati ad una poltroncina di velluto, come potrebbe accadere in un asettico jazz club. L’album nel suo complesso è un fenomeno induttivo a retrocarica, dove il flusso ritmico induce la prima linea dei fiati a tre punte ad una corsa frenetica negli anfratti sonori di Henderson con conseguente trasferimento della sensazione sul fruitore. Chitarra ed organo fanno di «Tribute To Joe Henderson» il disco più funkified e soulful del catalogo vecchio e nuovo della Red Records, la quale ha saputo accogliere il richiamo del concept di Morgera, memore di un passato che l’aveva vista legata al sassofonista per alcune inossidabili uscite come «An Evening With Joe Henderson» del 1987 ed «A Standard Joe» del 1991.
Sebbene registrato nel settembre del 2019 allo studio MediaLab di Firenze, il disco ha un’anima newyorkese, materializzata attraverso un suono tagliente e metropolitano che raccoglie idealmente intorno a sé il sapore del boogaloo dei primi hammondisti, come le scansioni ritmiche del Miles Davis di «Tutu», convertito al verbo del funk suburbano. Al netto di ogni storica suggestione, il Joe Henderson autore, mai troppo evidenziato dalle cronache jazzistiche, viene centrifugato, amalgamato, emulsionato e restituito al mondo degli uomini, da un line-up consapevole dei propri mezzi e capace di muoversi come guidato da un’inarrestabile flusso telepatico. «Tribute To Joe Henderson» è un disco senza aria ferma, senza cedimenti, senza soste, una arena dove ci si batte con forza taurina. E qui giochiamo sulla metafora riportata come sottotitolo, o come vero e proprio headline del progetto, ossia «In A Taurean way». Il riferimento è al segno zodiacale del Toro: Henderson e Morgera condividono lo stesso giorno di nascita, il 24 aprile.
L’opener è già una dichiarazione d’intenti. «Mo’ Joe» rappresenta una sorta di «shape of funk to come», dove il tridente dispiegato sul front-line esplode in tripudio di energia propulsiva spalancando le porte alla metropoli ed agitando la bandiera di una nuova «blaxploitation», quando le strade dei tre solisti si dividono sulle ali di una fluttuante melodia, il sax richiama le varie modularità dello stile Henderson, mentre la tromba si Morgera s’incunea tra i due sassofonisti facendo quasi da arbitro; chitarra e organo per il momento sono in stand-by, ma Gatto, dalle retrovie, elargisce la quantità di energia necessaria perché la macchina non perda mai velocità in corsa. «Black Narcissus» si cala nell’atmosfera acidula del soul-jazz, dal sapore quasi churchy, dove organo e chitarra giocano un ruolo di primo piano, dilatando gli spazi armonici e consentendo ai fiati di affluire al nucleo centrale del costrutto melodico. «A Shade Of Jazz» è un hard bop, dalle coloriture funkness a tratti asimmetrico con linee di fuoco incrociate, cambi di passo e fughe impreviste, tipiche dell’assioma hendersoniano, dove l’assenza di un contrabbasso rende ancora più nitida l’azione del kit percussivo di Roberto Gatto. «Afro Centric» si snoda su un tracciato che si sviluppa su una linea di confine, quasi in prossimità di un fusion ante-litteram, dove a metà percorso i fiati cedono il passo alla terna chitarra, organo e batteria che secerne un’ipnotica melodia a PH acido, sostenuta da una poliritmia cangiante che ricorda in parte alcune produzioni tipiche dell’afro-beat.
«If You Are Not Part Of The Solution You Are Part Of The Problem», un titolo che nasce da una frase pronunciata da un leder nero delle Black Panther, Eldridge Cleaver, ed è legato al periodo in cui Henderson si era avvicinato di più a certe atmosfere nitidamente funk. Cronologicamente siamo nel 1970 e la musica afro-americana inziava a sposare il principio dei vasi comunicanti. «Power To The People» mette in evidenza la ricchezza timbrica dell’autore, ma i due sassofonisti evitano di riproporne pedissequamente lo stile, pur beneficiando dei passaggi tonali che sfociano spesso in soluzioni trasversali, dove la modalità ne amplia spesso lo spettro d’azione. «Gazelle» è quasi un continuum rispetto al componimento precedente, garantendo un flusso inarrestabile al concept sonoro, in cui – come già anticipato – non c’è sosta o soluzione di continuità, neppure spazio per una ballata che funga da camera di decompressione; al contrario la narrazione affidata i fiati diventa incessante, sia pure ricca di sfumature e cromatismi, soprattutto gli interscambi tra le due ance e la tromba di Morgera sono a volte da manuale. L’arrivo dell’organo crea solo momenti di piacevole sospensione, ma aggiunge varietà e diversità rispetto al concepimento originario di Henderson. È sul finale che i guerrieri sembrerebbero riporre le armi della sfida, ma è solo un costrutto mid-range che si srotola su un impianto modale a controllo numerico. Qui c’è in ballo l’unico brano non composto dal sassofonista tributario, pur essendo parte integrante dei suo classico repertorio, soprattutto come atto conclusivo non delude e si amalgama perfettamente all’insieme.
In sintesi, Fabio Morgera fa un tributo, ma non paga pegno. «Tribute To Joe Henderson» non è un’operazione di restauro o di facile riciclaggio, ma pur salvaguardando gli assunti basilari della forma compositiva del sassofonista, Morgera ne evita la speculare riproposizione espositiva e l’ho reinventa attraverso una sua visione moderna dal jazz, ancora più imbevuta di blackness, di quanto lo stesso Henderson potesse mai immaginare, in un futuro prossimo o remoto, ad oltre vent’anni dalla sua dipartita.