// di Francesco Cataldo Verrina //
Parafrasando il titolo di un romanzo best-seller nel 2005, «No Country For Old Men» (Non è un paese per vecchi) dello scrittore americano Cormac McCarthy, si potrebbe dire: «Il jazz non è un paese per donne», mentre i vecchi se la cavano piuttosto bene. Storicamente vecchi e giovani, ma sostanzialmente uomini, mentre le donne nel jazz hanno sempre cantato e cantano; sono pochi gli esempi di strumentiste pure, senza velleità canore, presenti nella tradizionale nomenclatura del jazz moderno.
Melissa Aldana è una sassofonista tenore di talento, ma per come va il mondo oggigiorno e l’uso delle parole, almeno nella lingua italiana, non sembrerebbe mai corretto o adatto a descrivere congruamente persone, situazioni o cose. Certo sono lontani i tempi in cui in taluni tribunali, specie al Sud (sono calabrese e ciò che scrivo non è discriminatorio), il giudice rivolgendosi alla difesa diceva: «Avvocato», se uomo, mentre se donna, le si rivolgeva dicendo: «Signora». Quasi che la donna (signora avvocato o avvocatessa) non avesse titolo di studio o fosse «inferiore», secondo una malcelata visione maschilista di quella professione. Va detto che nel jazz contemporaneo le donne hanno sviluppato una dimensione musicale più ricca di suggestioni, poiché frutto di una differente sensibilità, ma certamente sul livello orizzontale di uno score compositivo, tecnico ed esecutivo paritetico e, sovente, superiore a quello di tanti colleghi uomini. Mi piacerebbe dunque usare, scrivendo di Melissa Aldana, l’espressione «un sassofonista tenore» e non «una sassofonista tenore», riportando il discorso su un piano egualitario di tipo storico-sociale, non meramente estetico, maschilista o riduttivo della «femminilità». Nella lingua italiana, o in molte lingue neo-latine, la netta differenza fra aggettivazioni ed articoli maschili e femminili, determinativi e indeterminativi, sovente crea un sorta di deminutio capitis e di marcata distinzione tra uomo e donna, quasi di tipo discriminatorio. Melissa ha iniziato a studiare il sassofono da bambina col l’aiuto padre, imparando a memoria gli assoli di Charlie Parker, ma l’arrivo alla Berklee School di Boston ed il supporto di Joe Lovano, George Garzone e Greg Osby, nonché gli insegnamenti e le linee guida indicate dal suo mentore a newyorkese George Coleman, sono stati determinanti per raggiungere una preparazione adeguata nel senso più «americano» del termine, che le ha consentito di bruciare tutte le tappe. Melissa, che aveva manifestato inizialmente un predisposizione per il sassofono contralto, ha progressivamente fatto la scelta del sax tenore (forse non definitiva), ottenendo un suon più levigato, morbido e privo di spigolature, soprattutto senza eccessi melodici geo-localizzabili, specie nell’album in oggetto – come vedremo – il suo modus operandi è tipicamente newyorkese, dimostrando di essersi integrata perfettamente nel mood jazzistico della Grande Mela. Rispetto ad alcuni album precedenti, in «12 Stars» è quasi sparito del tutto quell’eccesso percussivo che la legava alle proprie origini sudamericane.
Si potrebbe obiettare dicendo: sono solo parole! In fondo, ciò che conta è la sostanza e non la forma. Del resto Melissa Aldana, cilena di origine e newyorkese di adozione, ha ricevuto una nomination ai Grammy Awards con l’album «Visions» del 2019 ed ha vinto anni fa il Thelonious Monk International Jazz Saxophone Competition, ma soprattutto la sua arte è stata sdoganata ed inglobata nell’albo dei grandi dal suo approdo in Blue Note, etichetta jazz per antonomasia nell’immaginario collettivo, che corrisponde ad una consacrazione a tutti gli effetti. Dice soddisfatto, Don Was, l’attuale presidente della storica label americana: «È tra i massimi musicisti e compositori della sua generazione. La sua vibrante visione artistica, la padronanza strumentale e il suo profondo groove rendono la signora Aldana una perfetta esponente dell’etica Blue Note. Siamo entusiasti di far parte della sua vita musicale». Melissa è una compositrice lungimirante e visionaria capace di guardare verso entrambi gli emisferi sonori, il Sud e il Nord del mondo, e trarne linfa vitale ed ispirazione, dimostrando di essere, oltremodo, un ottimo band-leader (capisco che avrei dovuto scrivere un’ottima band-leader). In «12 Stars», Melissa Aldana è alla testa di un line-up composto dal chitarrista norvegese Lage Lund (produttore dell’album), Sullivan Fortner al piano ed alle testiere, Pablo Menares al contrabbasso e Kush Abadey alla batteria. Il titolo dell’album è ispirato alle «12 stelle» contenute nella corona di una figura simbolica dei Tarocchi, l’imperatrice, ed aggiunge un senso di mistero e di «stregoneria» alle sue composizioni che risentono sicuramente di talune atmosfere shorteriane, combinate alle ambientazioni scandinave, talvolta sospese e fiabesche di Jan Garbarek, ma in fondo sono solo suggestioni: il concept sonoro della cilena si sviluppa in piena autonomia ed con un forte desiderio di divincolarsi da talune normative vigenti del jazz tradizionale. Aldana e Lund riescono ad arricchire di sfumature liriche, talvolta volatili e rarefatte, il parenchima sonoro, colorandolo di cromatismi intensi e ricchi di pathos. Va sottolineato che il disco nasce dopo la separazione da parte di Melissa dal marito, avvenuto durante la pandemia, per tanto il mood compositivo delle varie partiture risente di una situazione di profondo disagio e sofferenza interiore, esternata, però, con delicatezza ed uno stato d’animo pacificato che si riverbera sulla bellezza dell’intero impianto melodico.
Si ha come l’impressione che Melissa Aldana riesca a simulare molto bene il proprio quadro emotivo, raggiungendo un break-even-point strumentale estremamente equilibrato che le consente di guardare le vicende personali e le complicazioni della vita, uscendo da sé stessa e ponendosi in una posizione acritica e neutrale. L’opener «Falling», pur essendo il frutto di un momento di dolore dedicato alla fine della sua storia sentimentale, diventa evocativo di una situazione generalizzata in cui il compiacimento supera il patimento. Pur non nascondendo un minimo di sofferenza interiore, il sax emana un suono caldo, pastoso e composto come una voce narrante amplificata dallo scintillio armonico della chitarra di Lund e sostenuta dal pianoforte di Sullivan Fortner, il quale si muove tracciando ampi spazi esplorativi. «Intuition» si sostanzia come una dissertazione tra terre di confine, tra Cile e Argentina, dove reminiscenze di tango e di barrio si esaltano in un contratto a termine tra sax e chitarra, sostenuti da un groove cadenzato offerto dalla retroguardia ritmica. «Emilia», introdotto da un brevissimo interludio «Intro To Emilia», è una struttura semplice con un comping dalle tinte pallide, dove il line-up di supporto lascia il centro della scena vuoto. Il tema melodico scaturisce da una ninna nanna dedicata a una figlia ideale che Aldana non ha mai avuto, ma che ha incontrato in sogno: una situazione surreale che aggiunge un ulteriore strato emotivo ad una narrazione già di per sé struggente, in cui il batterista Kush Abadey accarezza il kit percussivo della batteria con tocchi morbidi e spazzolati, mentre in prima linea è Lund a distinguersi spingendo il flusso sonoro verso un percorso ammantato da un’aura soffusa e brunita. «The Bluest Eye», assume la forma di una seduta terapeutica, quasi ipnotica alimentata da una progressione iper-modale che trae ispirazione dal romanzo di Toni Morrison, dove il registro acuto di Aldana assume una fisicità vulnerabile, mentre la fragilità diventa un tema chiave. Il line-up sembra percorso da un fremito nevrotico, che inquieta e seduce al contempo. Sia «The Fool» (riferito alla carta del Matto) che la title-track «12 Stars» nascono dall’interesse della band-leader per i Tarocchi, una pratica appresa durante il lockdown. I toni sono contenuti e l’andamento lento. Il sax intona melodie dilatate e ricche di anfratti: «The Fool» è un componimento piu discorsivo, quasi cinematografico, mentre «12 Stars» appare onirico e sospeso in un limbo abitato figure magiche, mentre il resto del line-up si adegua. «Los Ojos de Chile», nasce dai disordini politici e dalle proteste cilene del 2019. Aldana, supportata da un pianoforte pieno di risorse e da una chitarra ricca d’inventiva, affronta l’attrattivo tema melodico sul filo dell’alta tensione, senza dimenticare mai la propria abilità nella fase improvvisativa, mentre il resto della band trova un punto di confluenza attraverso un reiterato meccanismo diviso fra tensione e rilascio. L’album, già considerato da molti osservatori il disco dell’anno, nel complesso è foriero di costruzione melodica ariosa e ventilata, che si dispiega sul basso pulsante di Pablo Menares e sulla raffinatezza armonica negoziata nell’interplay dal chitarrista Lage Lund e dal pianista Sullivan Fortner, mentre Melissa Aldana, nella sua perpetua iperbole improvvisativa, sonda intervalli variabili, esplorando i registri alti e bassi del tenore. Consigliatissimo!