Stéphane Grappelli / Joe Venuti con Venupelli Blues / Parigi 1969, della serie: Dischi Scelti a Caso e Blindfold Test (Affinity 1980)
Stéphane Grappelli è stato ispirato da Joe Venuti, come tutti gli altri violinisti dopo di lui, e in questo incontro si celebra il sodalizio del «violinismo» americano con quello europeo. Ambedue hanno avuto due grandi chitarristi di riferimento.
// di Marcello Marinelli //
Uno dei principi cardine dell’universo, almeno per me, è il principio di casualità: molte cose avvengono senza un’apparente spiegazione e se anche una spiegazione ci fosse, sarebbe troppo difficile e complicata trovarla. Certo, esiste anche la causalità, ma adesso inverto le prime quattro lettere e lascio spazio al caso. Il mio è anche un esercizio di auto-Blindfold Test. Quando non ho un’idea certa di quello che voglio ascoltare, lascio al caso la decisione. Nelle piattaforme musicali metto la radio di un brano e lascio scegliere all’algoritmo la sequenza, ma in questo caso, invece, prendo a occhi chiusi un LP dalla mia nutrita collezione e lo metto sul piatto. Cerco di indovinare l’autore e scrivo una recensione casuale.
Dalle prime note si capisce che è un album classico, intendendo con classico l’era del jazz antecedente alla rivoluzione bebop. Qui siamo in piena era Swing, e lo strumento preminente è il violino, anzi, non un solo violino, ma due. Mi viene subito in mente Stéphane Grappelli, con il violino è più facile. Vado a vedere la copertina e si tratta proprio del musicista francese che firma il disco insieme a Joe Venuti, che invece non mi era venuto in mente. Ovviamente fare il Blindfold Test tra i propri dischi che raggiungono qualche migliaio di unità è più facile che pescare da tutto il suonato mondiale, ma presenta delle insidie, perché è difficile ricordarsi il tutto, anche se parziale. Il Blindfold Test fu inventato da Leonard Feather sulle colonne della prestigiosa rivista Down Beat, e anche su Musica Jazz fu praticato per un periodo questo esperimento ludico: si tratta di un gioco e non è facile per nessuno indovinare senza pre-elementi conosciuti. Certo, si possono prendere cantonate, ma non sarebbe un dramma, perché siamo fallibili e umani, limitati, e quindi, nessuna paura.
Joe Venuti, americano di origine italiana, di cinque anni più grande del musicista francese, è stato l’inventore del violino jazz, il primo a utilizzare sistematicamente lo strumento al di fuori delle altre tradizioni musicali. Ovviamente, Stéphane Grappelli è stato ispirato da Joe Venuti, come tutti gli altri violinisti dopo di lui, e in questo incontro si celebra il sodalizio del «violinismo» americano con quello europeo. Ambedue hanno avuto due grandi chitarristi di riferimento. Eddie Lang (all’anagrafe Salvatore Massaro, anche lui di origine italiana; questo per smentire chi dice che gli italiani abbiano esportato solo la mafia) con Joe Venuti hanno dato vita a un duo irresistibile, all’avanguardia negli anni ’20 e ’30. Django Reinhardt con Stéphane Grappelli hanno dato vita al Quintette du Hot Club de France, il Gypsy Jazz o Jazz Manouche (etimologicamente, «popolo Sinto»). Per citare un grande cantautore degli anni ’70, Claudio Lolli, con la grande musica Gypsy: «Ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra. Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra». In questo progetto, però, il chitarrista è Barney Kessel; Eddie Lang è morto nel 1933 e Django Reinhardt nel 1953.
«I Can’t Give You Anything But Love» è il brano d’apertura, con una breve introduzione della sezione ritmica e gli accordi di Barney Kessel prima dell’esposizione del tema da parte dei due violinisti. Poi arrivano gli assoli, e qui faccio fatica a individuare, ma dopo un attento ascolto, forse il primo solo appartiene Venuti e il secondo è di Grappelli. Poi è il turno di Barney Kessel e di George Wein che, oltre a essere un pianista nella «media» come lui stesso si definiva, è stato l’inventore del Festival di Newport e di altri grandi festival. Il festival di Newport (1954) non è stato il più antico, ma sicuramente il più continuo. La palma del festival più antico è di Nizza (1948), ma per decenni è stato interrotto. Per finire, ecco il solo del contrabbassista Larry Ridley, e completa la formazione Don Lamond alla batteria. Il secondo brano è la rilettura di «Anema e Core» sulle note del celebre standard «My One And Only Love», e viene suonato solo da Grappelli più la sezione ritmica. Chiude la facciata del disco «After You’ve Gone» che inizia con un slow tempo, poi improvvisamente accelera in un ritmo sostenuto dove il virtuosismo dei due comprimari risalta in tutto il loro splendore. Anche l’impresario pianista George Wein fa la sua degna figura, e con uno scambio di battute con la batteria, il lato A del disco finisce in gloria.
«Undecided» apre la facciata B e continua sulla falsa riga dell’altro lato con i violinisti che duettano come se fossero Totò e Peppino. «Venupelli Blues» dà il titolo all’album e, come indicato, è un blues. Come non omaggiare il padre o la madre di tutte le musiche? «Abbiamo tutti un blues da piangere», rammentava il Perigeo, e in questo brano omaggiamo l’Apogeo del violino jazz blues. Poteva mancare «Tea For Two» dal disco, vista la celebrazione del duo? Forse solo il Duo di Piadena era più affiatato di questo. «I’ll Never Be The Same» chiude l’album, e la vena romantica dei violinisti risplende nell’orbita del firmamento tra perigeo e apogeo. Il romanticismo dei due violinisti è accompagnato solo dal piano di George Wein. E cosa c’è di più bello che accomiatarsi dal disco immaginando quel 22 ottobre del 1969 per le vie di un bel tramonto parigino? Ringrazio il destino, trasformato in caso, che mi ha riproposto l’ascolto di questo microsolco altrimenti giacente inoperoso tra gli scaffali tra gli altri dischi, e mi avvio malinconicamente con le note di questo standard sublime verso la fine di questo disco e di questa giornata. «God bless the child and the jazz».


