Enrico Rava © Roberto Cifarelli

Enrico Rava © Roberto Cifarelli

Da un lato l’intensità narrativa ed il fraseggio vaporizzato della tromba americana; dall’altro la riflessione timbrica, l’attenzione all’armonia verticale ed alle possibilità espressive dello strumento tipiche del vecchio continente. Ne scaturisce una sintesi in cui l’elemento idilliaco, il controllo timbrico e la libertà improvvisativa dialogano continuamente, restituendo un vernacolo che non appartiene ad una scuola geografica, ma ad un immaginario musicale originale, profondamente personale e riconoscibile, al punto che la sua arte appare come ponte tra due emisferi sonori.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Enrico Rava, nato a Trieste il 20 agosto 1939, rappresenta una figura paradigmatica del jazz italiano e, più in generale, europeo, incarnando una poetica musicale che unisce lirismo espressivo e rigore formale. La sua comparsa sulla scena internazionale a metà degli anni Sessanta segnò l’emergere di un solista in grado di coniugare immediata accessibilità con raffinata complessità, imponendosi rapidamente come interlocutore privilegiato delle avanguardie europee. La sua cifra stilistica si distingue per una schiettezza comunicativa che, lungi dall’essere mera semplicità, rivela una disciplina interiore intransigente e una capacità di superare convenzioni e stereotipi estetici, collocandolo al di fuori di catalogazioni prefissate. La sua discografia, ampia e variegata, testimonia l’inarrestabile curiosità musicale e la predisposizione a incontri artistici d’alto profilo. Tali collaborazioni evidenziano la capacità dell’artista di instaurare un dialogo musicale intenso, fondato su ascolto, sensibilità timbrica e interazione creativa. La presenza nei maggiori festival internazionali, da Montreal a Tokyo, da Berlino a Rio de Janeiro, ha contribuito a consolidarne la reputazione di interprete capace di comunicare un linguaggio universale, pur mantenendo un’identità profondamente italiana. Il trombettista triestino ha ricevuto numerosi riconoscimenti: più volte eletto miglior musicista dall’anno, insignito del titolo di Cavaliere delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese, vincitore del prestigioso «Jazzpar Prize» (Copenhagen, 2002), e, in Italia, Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica. Il conferimento di titoli accademici onorari, tra cui il Doctor in Music Honoris Causa alla Berklee School Of Music di Boston, e la cittadinanza onoraria di Atlanta, testimoniano il valore universale della sua opera. Il suo impegno nella formazione di giovani talenti si manifesta con particolare evidenza nei progetti recenti, come il quintetto «Fearless Five», in cui l’esperienza consolidata si fonde con l’energia di musicisti emergenti.

Enrico Rava costituisce un paradigma singolare della contemporaneità jazzistica, un artista la cui espressività fonde una radicata consapevolezza tecnica con un immaginario lirico di risonanze quasi pittoriche. La sua tromba, spesso temperata dal flicorno, non si limita a produrre suono. Essa sembra incarnare un atto di pensiero musicale, un discorso in cui ogni frase, ogni glissato, si muove secondo una logica interna che trascende la mera linearità melodica. Nella suo modus agendi la dimensione timbrica si eleva a simbolo, e l’atto dell’improvvisazione si configura come un pensiero in divenire, un pensiero poetico più che matematico, affine, per certi versi, alle concezioni della scrittura musicale di Debussy o alla libertà tematica di un Mahler, in cui l’elemento emotivo e quello razionale coesistono, senza che l’uno comprometta l’altro. Il linguaggio armonico rivela un’ampiezza di sguardo che travalica le convenzioni jazzistiche, attraverso il ricorso a modulazioni inattese, l’impiego di cluster diatonici e microintervalli, la tensione tra consonanza e dissonanza, rimandano ad una sensibilità affine alla polifonia tardorinascimentale o alla complessità contrappuntistica del tardo Brahms. La scrittura melodica, pur apparentemente semplice, si fonda su scelte tonali sottilmente mediate, in cui ogni nota ha funzione sia verticale sia orizzontale, producendo un tessuto sonoro in cui il fraseggio si intreccia con l’armonia come parola con significato, e dove il silenzio assume un valore drammaturgico pari alla nota suonata. Dal punto di vista espressivo, il musicista triestino sembra muoversi in un territorio sospeso tra il lirismo romantico e la contemplazione filosofica. L’uso del vibrato, la sospensione delle note, la gestione del respiro e del tempo evocano immagini letterarie e poetiche, tanto che si potrebbe accostare la sua capacità di tessere atmosfere a certi passaggi di Ungaretti o di Montale, dove la concisione formale non impedisce alla parola di raggiungere una densità emotiva quasi metafisica. Analogamente, la sua musica contiene sempre un sottotesto colloquiale, come se ogni frase fosse interrogativa, aperta alla risposta dell’altro musicista, della memoria storica e del pubblico.

L’immaginario raviano, inoltre, si nutre di una forte coscienza storica. Non si tratta di semplice citazionismo, Egli interiorizza la lezione di Miles Davis o di Chet Baker, come egli stesso ha precisato nei suoi scritti, e la rielabora attraverso una lente personale che attinge anche alla musica colta europea, al lirismo di Wagner, alla nitidezza timbrica di Stravinskij, fino a sfiorare i margini dell’atonalità senza mai abbandonare la tensione narrativa. Ogni assolo diventa una micro-storia, una narrazione in cui il tempo musicale non coincide con il tempo cronologico, ma si piega alle necessità espressive e alla percezione dell’ascoltatore, in un continuo dialogo tra libertà e misura, tra invenzione e memoria. La poetica di Enrico Rava si manifesta come un equilibrio precario e insieme fecondo tra vernacolo tradizionale e mutazione, tra pensiero e sensazione, tra il gesto e l’ideazione concettuale. La sua arte non è mai autoreferenziale. Per contro, si tratta di un pensiero musicale che include il passato ed anticipa il futuro, dove l’improvvisazione diviene strumento di riflessione, e l’atto creativo un’esplorazione della coscienza e della storia, della bellezza e del silenzio. Così il trombettista triestino non si limita a suonare, ma plasma mondi, impianta installazioni sonore che dialogano con la letteratura, la filosofia e la musica eurodotta, restituendo al jazz una dimensione intellettuale e spirituale che lo colloca tra i pochi interpreti di assoluto rilievo internazionale.

Il rapporto di Enrico Rava con la tradizione della tromba jazzistica americana costituisce un aspetto centrale della sua proiezione musicale, non tanto in termini di emulazione quanto di elaborazione critica. La sua esperienza si radica in un’osservazione attenta dei grandi maestri d’oltreoceano: da Miles Davis, di cui ha assimilato l’arte del fraseggio aeriforme e la gestione dello spazio sonoro, a Clifford Brown, la cui limpidezza timbrica e sorgività melodica hanno offerto un modello di equilibrio tra tecnicismo ed espressività. Tuttavia, egli non si limita a trasporre tali esempi nel contesto europeo, ma rielabora le lezioni americane attraverso la propria sensibilità lirica ed il retaggio della tradizione classica e della musica colta, producendo una sintesi originale in cui la tromba diventa strumento di carotaggio poetico e di costruzione ambientale del suono. A differenza di Miles, la cui economia di note spesso tende a frammentare la frase in linee essenziali e volatili, Enrico predilige un fraseggio che mantiene una continuità teamatica, quasi narrativa, in cui ogni motivo si sviluppa secondo un arco melodico chiaro e coerente, pur non rinunciando alle tensioni armoniche ed all’iperbole. Le influenze di Lee Morgan o di Freddie Hubbard, con la loro propensione alla brillantezza e alla forza ritmica, sono presenti in Rava più come memoria di energia potenziale che come modello imitativo: l’italiano media tali riferimenti con una delicatezza contemplativa, restituendo una dimensione intimista e meditativa, spesso sospesa tra lirismo e ardore creativo. Il suo rapporto con la tromba americana si manifesta anche nella gestione dello spazio e del silenzio, dove il musicista triestino sfrutta la pausa non come semplice interruzione, ma come componente strutturale della frase, similmente a quanto insegnava Davis nel periodo di «Kind Of Blue», trasformando l’assenza di suono in un vettore espressivo. In tal senso, la sua pratica non è mai mera citazione stilistica, ma una contrattazione ad narrandum. Diversamente, il linguaggio americano viene interiorizzato e reinterpretato alla luce di un immaginario musicale che fonde lirismo europeo, cultura musicale dotta e sensibilità jazzistica contemporanea, generando un linguaggio immediatamente riconoscibile ed insieme universale.

Ciò che distingue Rava da questi antesignani non è solo la scelta di note o frasi, ma l’approccio al tempo, allo spazio sonoro e all’opulenza emotiva. Mentre molti trombettisti afro-americani oscillano tra virtuosismo ritmico e tensione melodica immediata, il musicista triestino privilegia una costruzione del fraseggio sospesa, quasi contemplativa, in cui il lirismo emerge dall’interazione tra nota, silenzio ed armonia sottesa. Il suo linguaggio fonde la memoria storica afro-americana con una sensibilità europea, risultando in un suono riconoscibile per freschezza esecutiva, timbrica evanescente e tensione armonica sofisticata. La lezione di Dizzy Gillespie, con la sua avancarica virtuosa ed il dinamismo ritmico, si percepisce in Rava come una tensione latente, un’energia potenziale che si scioglie non in esplosioni tecniche, ma in sospensioni liriche e linee melodiche fluide. Il confronto con Roy Eldridge e Blue Mitchell si situa su un piano narrativo più sottile: Eldridge, con la sua drammaticità e la capacità di costruire climax melodici, introduce l’idea della tensione come arco narrativo, mentre Mitchell, con la sua eleganza e misura, propone un lirismo misurato e calibrato. Rava integra entrambe le influenze, ma le trasforma in un dialogo continuo con sé stesso e con gli altri musicisti, dove la costruzione della frase appare meno come la risultante di una successione di tecnicismi e più l’articolazione di un pensiero musicale traspirante, capace di interpellare l’ascoltatore attraverso pause, sospensioni e modulazioni accordali inattese. Donald Byrd e, in epoche più recenti, Wynton Marsalis, rappresentano per il jazzista italiano il modello di una tromba consapevole della scuola classica americana, attenta all’esibizionismo tecnico e competitivo ed all’armonia interna delle strutture. Tuttavia, la sua risposta a tali lezioni non è mai passiva, poiché egli non si limita a tradurre il virtuosismo in suono, ma lo reinventa come motore di escavazione interiore, mediando la disciplina formale con un senso del fraseggio che privilegia il respiro, il colore timbrico e la tensione del racconto. In questa rete di influenze e confronti, la differenza principale emerge nella concezione del tempo e dello spazio. Laddove i trombettisti afro-americani spesso articolano la frase come energia in movimento, Rava la sospende in una sorta di meditazione lirica, capace di fondere memoria storica ed invenzione presente, creando un linguaggio che parla alla tradizione senza esserne vincolato. Così, l’itinerario del trombettista si manifesta come un costante interscambio, un confronto mai chiuso con la tromba americana tout-court, in cui ogni interlocutore diventa una lente attraverso cui elaborare la propria redemption. Non si tratta di emulazione né di citazione, ma di un’osmosi critica, dove la lezione afrologica viene assorbita, metabolizzata e restituita attraverso il filtro della sensibilità europea, del lirismo sospeso, e di una concezione del fraseologia come narrazione poetica ed imbastitura sonora. In tal modo, il trombettista triestino non solo rende omaggio ai maestri americani, ma costruisce un habitat sonoro autonomo, riconoscibile, soprattutto senza perdere mai la propria identità.

L’incontro di Enrico Rava con la tromba europea si colloca in una dimensione parallela ma profondamente complementare rispetto al dialogo con la tradizione afrologica. Mentre nei maestri americani egli ricerca energia, fraseggio e tensione melodica, nell’Europa del dopoguerra trova interlocutori con sensibilità più legate alla riflessione timbrica, alla sperimentazione armonica ed alla continuità tra jazz e musica colta. Il confronto con trombettisti come Manfred Schoof ed Albert Mangelsdorff, per esempio, mostra come Rava assimili una libertà improvvisativa radicale, tipica della scena europea, pur mantenendo la leggerezza e la liricità della sua cifra personale. Schoof, con le sue dissonanze e le esplorazioni del suono estremo, propone un concetto di tromba come generatore di cromatismi e paesaggi sonori, mentre Mangelsdorff, pioniere della tecnica multipla dei suoni sovrapposti, introduce l’idea di un’orchestrazione interna dello strumento che lo stesso Rava trasforma in un racconto più lineare, meno sperimentale, ma altrettanto pregno di sfumature. Jean-Luc Ponty e Chet Baker (sebbene in parte americano «formattato» europeo) non si collocano nella stessa prospettiva di Rava, ma l’attenzione alla melodia ed alla cantabilità dei fraseggi continentali trova un’eco nell’estetica del trombettista italiano, dove il suono diventa veicolo di indagine profonda ed in cui la sesnibilità si espande attraverso uno spazio sonoro volatile, fitto di sfumature dinamiche ed armoniche. Il metodo raviano sembra dunque mediare tra la radicalità improvvisativa di Schoof e Mangelsdorff e la dimensione melodica dei trombettisti nordici, creando un metalinguaggio capace di fondere lirismo, spazio e colore. Da sempre, in Europa, la tromba non rappresenta soltanto strumento solista ma anche elemento di un discorso più ampio, spesso connesso alla musica da camera o alla ricerca colta, tanto che Rava ne interiorizza l’approccio strutturale, trasformando le singole frasi in tasselli, come tanti mattoni o pilastri, atti ad un’architettura sonora. La scelta poetica nasce così da un doppio filo: da un lato l’intensità narrativa ed il fraseggio vaporizzato della tromba americana; dall’altro la riflessione timbrica, l’attenzione all’armonia verticale e alle possibilità espressive dello strumento tipiche del vecchio continente. Ne scaturisce una sintesi in cui l’elemento idilliaco, il controllo timbrico e la libertà improvvisativa dialogano continuamente, restituendo un vernacolo che non appartiene ad una scuola geografica, ma ad un immaginario musicale originale, profondamente personale e riconoscibile, al punto che la sua arte appare come ponte tra due emisferi sonori. Parallelamente, il confronto con i altri trombettisti europei come Nils Petter Molvær, Markus Stockhausen e Arve Henriksen lo introduce ad un’altra dimensione, ossia quella dell’interazione con la musica colta e della costruzione di transiti sonori. La lezione europea, fondata sulla solidità accordale e sull’alienazione atmosferica, non contraddice la sua formazione americana, ma la trasforma, arricchendola di colori. La sua tromba diventa così uno strumento capace di crogiolare energia e sospensione, tecnicalità ed infusione, memoria storica ed invenzione contemporanea. In questa rete di interlocutori, le differenze stilistiche non rappresentano ostacoli, ma catalizzatori di un linguaggio originale.

La traiettoria musicale di Enrico Rava può essere letta attraverso alcuni momenti discografici che, pur distinti per formazione e contesto, mostrano una coerenza poetica e una continuità immaginativa straordinaria. Già nel «Rava Quartet» del 1978, il trombettista imprime al proprio strumento un lirismo sospeso, dove la linea melodica sembra respirare insieme all’aria che la circonda. Il trombettista si presenta con un quartetto internazionale di grande spessore: Roswell Rudd al trombone, Jean-François Jenny-Clark al contrabbasso e Aldo Romano alla batteria. Registrato nel marzo del 1978 a Ludwigsburg, questo disco segna un incontro tra la tradizione del jazz europeo e l’esperienza americana. Le composizioni autorali, come «Lavori Casalinghi» e «Tramps», mostrano una scrittura armonica ricca di tensioni e risoluzioni, con intervalli ampi e progressioni modali che richiamano l’estetica della musica colta contemporanea. L’interplay tra i musicisti appare caratterizzato da una comunicazione fluida e spontanea. La sezione ritmica, attenta e sottile, disegna uno spazio armonico aperto, nel quale ogni intervallo si carica di tensione implicita, creando un dialogo tra silenzio e suono che ricorda la sospensione temporale dei romanzi di Italo Calvino o le lunghe inquadrature di Antonioni. In questo contesto, la tromba non è solo protagonista, ma mediatrice di uno spazio narrativo che invita all’ascolto riflessivo. Con «Rava l’Opera Va» del 1993, l’esperienza si fa più complessa, dove la tromba diventa narratrice di un mondo sospeso tra jazz e musica colta, dove le modulazioni armoniche si aprono come architetture impressionistiche. Un progetto ambizioso teso a reinterpretare celebri arie d’opera attraverso la lente del jazz. Accompagnato dall’Insieme Strumentale di Roma, diretto da Battista Lena, e con la partecipazione di Palle Danielsson al contrabbasso e Bruno Tommaso alle percussioni, il musicista triestino esplora nuove sonorità e strutture compositive. Le trascrizioni di arie come «Nessun Dorma» da Turandot e «La Donna è Mobile» da Rigoletto sono arricchite da improvvisazioni che mescolano elementi del jazz contemporaneo con la tradizione operistica. L’uso del contrabbasso e delle percussioni aggiunge una dimensione ritmica e timbrica che amplifica l’intensità emotiva delle interpretazioni. La scelta dei musicisti, attenti all’interplay più che alla pura virtuosità, consente di costruire un discorso musicale in cui la tensione non deriva dalla velocità o dalla densità, ma dal senso di attesa, dall’intensità dei silenzi e dalla scelta delle note. La musica sembra dialogare con la poesia di Proust, nella quale ogni gesto contiene un intero universo di ricordi e di emozioni latenti, o con i paesaggi cinematografici di Wim Wenders, dove la luce e il vuoto assumono valore narrativo.

«Easy Living» (2004) conferma questa poetica del respiro sospeso, ma aggiunge una dimensione meditativa più marcata. Le linee melodiche si muovono tra leggerezza e introspezione, sorrette da un tessuto armonico che alterna intervalli aperti e modulazioni cromatiche appena percettibili. In questo disco, egli si avvale di un quartetto composto da Gianluca Petrella al trombone, Stefano Bollani al pianoforte, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Registrato nel giugno del 2003, l’album segna il ritorno del prodigo Enrico alla ECM dopo una lunga pausa. Le composizioni, tra cui «Easy Living» e «The Third Man», presentano una scrittura armonica raffinata, con progressioni modali e cromatiche che evidenziano l’evoluzione del linguaggio raviano. L’interscambio tra i musicisti risulta caratterizzato da una salda intesa, con Bollani che arricchisce le composizioni con il suo tocco elegante e creativo. L’effetto è quello di una poesia sonora che ricorda Ungaretti, dove ogni nota, ridotta all’essenziale, contiene mondi interiori e, nello stesso tempo, apre lo spazio all’immaginazione dell’ascoltatore. Il quartetto, nella sua economia di mezzi, diventa laboratorio di attese e sorprese, un microcosmo in cui l’improvvisazione è misura di relazione più che di virtuosismo. Con «The Words And The Days» (2007), il trombettista consolida la propria capacità di tessere narrazioni sonore complesse senza perdere trasparenza. Questo quintetto vede il ritorno di Gianluca Petrella al trombone, con l’aggiunta di Andrea Pozza al pianoforte, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Registrato nel dicembre del 2005, l’album esplora nuove direzioni sonore, con composizioni più complesse e strutturate. Le progressioni accordali sono più opulente ed articolate, con l’uso di dissonanze e poliritmie che arricchiscono il linguaggio musicale del gruppo. La comunicazione tra i musicisti risulta caratterizzata da una continua interazione, con ciascun strumento che contribuisce alla costruzione collettiva del suono. Le linee tematiche battibeccano con la sezione ritmica come in un racconto letterario, dove le azioni minime rivelano il senso profondo dell’intreccio. La musica si sviluppa tra poli armonici differenti, modulando la tensione emotiva senza ricorrere ad artifici, dove ogni frase appare come un pensiero che si dispiega nello spazio, evocando l’attenzione contemplativa di un romanzo di Calvino o le immagini silenziose di un film di Kaurismäki, nei quali l’umanità emerge attraverso dettagli minimi ma significativi. Infine, «Wild Dance» (2015) rappresenta una sintesi ed un’espansione della poetica raviana. La collaborazione con musicisti più giovani, in particolare Francesco Diodati alla chitarra, introduce elementi timbrici sperimentali ed una dinamica più energica, senza compromettere il tradizionale intimismo che caratterizza i lavori del trombettista triestino. In questo progetto, egli si avvale inoltre di Gabriele Evangelista al contrabbasso, Enrico Morello alla batteria e la partecipazione di Gianluca Petrella al trombone in alcune tracce. Registrato nel gennaio del 2015, l’album presenta una sonorità più moderna ed avanguardista, dovuta proprio all’introduzione della chitarra elettrica che amplia le possibilità timbriche del gruppo. Le composizioni sono caratterizzate da ritmi più complessi e strutture meno convenzionali, con ampio spazio per l’improvvisazione collettiva. Il rapporto dialogico tra i musicisti appare vivace e tensioattivo, con ciascun strumento che interagisce in modo liquido e sorgivo. Le progressioni modulanti, i contrappunti sottili e l’uso creativo di cluster e tensioni cromatiche usufruiscono di un groove mutevole, capace di alternare pulsazioni energiche e sospensioni poetiche. Il tessuto accordale si fa più aperto e le modulazioni cromatiche creano un senso di instabilità controllata, mentre il quintetto si muove in un interplay fitto e vibrante. L’ascolto evoca la tensione narrativa di un film di Tarkovskij, in cui ogni dettaglio sonoro contribuisce a costruire un universo emotivo complesso, e la riflessione letteraria di André Gide, dove l’introspezione si mescola a un’indagine continua del mondo esterno. Sulla base di tale percorso, i cinque dischi non sono mai isolati, ma si rispondono a vicenda, come tappe di un racconto unitario in cui la tromba diventa strumento di introspezione, di narrazione e di scambio dialettico. L’armonia, pur variando con le formazioni e le epoche, resta sempre sospesa tra apertura e tensione, e il profilo emozionale oscilla tra lirismo meditativo e slancio poetico, confermando Rava come interprete unico, capace di fondere jazz, cultura europea e sensibilità narrativa in un’unica, coerente poetica sonora.

Enrico Rava Fearless Five

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