Brian Jackson: groove, funk e parola: tra musica, impegno civile e immaginario artistico del Novecento
Brian Jackson & Gil Scott Heron
L’arte di Brian Jackson va letta anche come un esercizio di consapevolezza culturale, al punto che le sue composizioni non si esauriscono in un mero intrattenimento musicale, ma si fanno veicolo di un messaggio che sposa estetica ed impegno civile. Le armonie sospese, i ritmi essenziali ed al contempo carichi di tensione espressiva restituiscono l’immagine di una musica che si muove tra la dolcezza elegiaca e l’urgenza della denuncia sociale.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Brian Jackson è stato uno degli musicisti più paradigmatici della storia afroamericana degli anni Settanta, un intellettuale del suono che ha saputo fondere militanza politica ed invenzione estetica, facendosi al tempo stesso custode di una tradizione e artefice di inedite possibilità espressive. La sua parabola artistica si lega indissolubilmente con quella di Gil Scott-Heron, del quale fu sodale musicale e complice creativo. Il loro morganatico ha prodotto un corpus discografico che ha ridefinito i contorni del rapporto fra spoken word, soul e jazz, anticipando la grammatica dell’hip hop e dell’urban poetry.
Formatosi dapprima come pianista classico, Jackson ha progressivamente arricchito il proprio linguaggio con suggestioni tratte dal rhythm and blues e dal jazz modale, senza trascurare l’apporto delle tradizioni popolari afroamericane. La sua scrittura armonica, sempre sorretta da un’attenzione meticolosa per la opulenza timbrica, rivela un pensiero compositivo che privilegia le sfumature e i dettagli, piuttosto che l’esibizione virtuosistica. Nei dischi concepiti insieme a Scott-Heron, come «Winter In America» o «Pieces Of A Man, la sua presenza non si limita ad un accompagnamento funzionale. Per contro, l’intelaiatura pianistica, il ricorso all’organo Fender Rhodes e la sapiente stratificazione delle texture sonore delineano paesaggi in cui la parola declamata di Scott-Heron trova un terreno fertile, quasi una scenografia sonora che sostiene ed amplifica il contenuto politico e poetico dei testi. La tradizione jazzistica costituiva per Brian Jackson un terreno fondativo, ma non vincolante. egli la assimilò, la reinterpretò e la trasformò, inserendola in un parenchima sonoro che fondeva funk, soul, poesia ed impegno civile. La sua formazione, cresciuta in un ambiente in cui l’eco dei grandi tastieristi ed arrangiatori afroamericani del jazz, da McCoy Tyner ad Herbie Hancock, abbracciava l’esperienza diretta della musica nera urbana, gli consentì di padroneggiare un linguaggio armonico sofisticato. Sul piano tecnico, le influenze jazz emergono nella gestione della modulazione e nella costruzione di loop armonici che sostengono la voce di Gil Scott-Heron, spesso in modo quasi cameristico, con un’attenzione al contrappunto timbrico che ricorda l’arte della grande stagione post-bop. Le progressioni di Jackson, pur radicate nelle consonanze diatoniche e modali tipiche del jazz, vengono elaborate in funzione di un messaggio politico ed emotivo, creando un jazz “al servizio del discorso” piuttosto che fine a se stesso. Il suo approccio ritmico e poliritmico mostra, inoltre, la sensibilità jazzistica nell’uso del sincopato e della pianistica percussiva, che dialoga con la sezione ritmica funk e soul senza sacrificare la libertà espressiva. L’improvvisazione. meno verticale e virtuosistica rispetto ai solisti tipici del jazz mainstream, si traduce in un’interazione meditata tra armonia, groove e parola, dove l’estensione temporale e lo spazio sonoro sono modellati sull’urgenza del testo. In questo quadro, Jackson non si limita a subire la tradizione jazz, ma la reinventa, tanto che il jazz diventa una lente attraverso cui filtrare l’esperienza sociale e politica degli anni Settanta, un veicolo per la narrazione orale, in linea con la sua evocazione del griot africano. La lezione dei grandi del jazz non appare come citazione pedissequa, ma come substrato che alimenta una sintesi originale, dove armonia, ritmo e timbro dialogano con la poesia sociale e con la necessità di comunicare un messaggio collettivo.
L’arte di Jackson va letta anche come un esercizio di consapevolezza culturale, al punto che le sue composizioni non si esauriscono in un mero intrattenimento musicale, ma si fanno veicolo di un messaggio che sposa estetica ed impegno civile. Le armonie sospese, i ritmi essenziali ed al contempo carichi di tensione espressiva restituiscono l’immagine di una musica che si muove tra la dolcezza elegiaca e l’urgenza della denuncia sociale. In questo senso, il modus agendi appare come una continuazione della tradizione afroamericana intesa non solo come repertorio sonoro, ma come archivio di resistenza e di memoria collettiva. Negli anni successivi, Jackson ha continuato a coltivare una visione musicale autonoma, collaborando con altri interpreti e riaffermando la centralità del pianoforte come strumento capace di coniugare introspezione lirica e potenza evocativa. Anche nelle esperienze più recenti, si percepisce una fedeltà ai principi estetici elaborati durante la stagione aurea con Scott-Heron, quando il dialogo tra parola e suono, la tensione fra spiritualità e concretezza politica, mostravano la volontà di conferire alla musica una funzione di testimonianza. Brian Jackson rappresenta un caso emblematico di musicista la cui influenza trascende la propria visibilità pubblica. L’incontro fra i due, alla Lincoln University sul finire degli anni Sessanta, non diede soltanto origine ad un sodalizio artistico, ma segnò l’inizio di un progetto culturale che avrebbe inciso profondamente sull’immaginario politico e sonoro degli Stati Uniti post–movimento per i diritti civili. Quello di Jackson non era un semplice accompagnamento, ma si sostanziava come la costruzione di un paesaggio sonoro che amplificava e sosteneva la parola, collocandola in una dimensione a metà tra sermone e orazione civile. La celeberrima «The Revolution Will Not Be Televised», con la sua tagliente satira sui media, deve molta dell’ incisività anche a quell’intelaiatura musicale capace di coniugare urgenza ritmica e sobrietà timbrica. Non sorprende che, già pochi anni dopo, critici come quelli del New Musical Express leggessero in quelle opere «il suono della rivoluzione nera», mentre nel 2004 The Guardian ne avrebbe riconosciuto il carattere di laboratorio anticipatore, grazie alla «pionieristica commistione di politica, protesta e proto–rap poetry». Jackson stesso, oggi, non nasconde lo stupore dinanzi alla persistenza di quella eredità: «È incredibile. Non sono mai riuscito a capire fino in fondo come potesse funzionare, davvero non ci riesco. Immagino che quelle opere non sarebbero ancora ascoltate se non avessero qualcosa da dire al nostro presente». La sua riflessione mette in luce un aspetto cruciale, ossia che quelle canzoni non furono meri documenti di un’epoca, ma veicoli di significato continuamente riattivabili, capaci di offrire conforto a chi allora, come oggi, si sentiva smarrito dinanzi ad un potere politico e mediatico percepito come manipolatorio.
Lungo gli anni Settanta, il duo seppe incarnare un’utopia sonora che, pur nutrita di ingenuità giovanile. Jackson, appena diciotto anni all’uscita del primo disco, compiendone ventuno al tempo di «Winter in America», riuscì a dare voce a un’intera generazione. L’ottimismo pacifista, erede della controcultura hippy, conviveva con l’amarezza per le contraddizioni del reale. La musica funzionava come dispositivo critico e come carezza collettiva: «Eravamo lì per loro», ricorda il pianista, «per rassicurare che non erano soli, che altri vedevano ciò che vedevano». Il rapporto con Scott-Heron, tuttavia, non fu immune da fratture. La progressiva rottura del tandem, acuita da questioni legali e contrattuali e, nondimeno, la cancellazione del nome di Jackson dalla società editoriale comune, Brouhaha Music con relativa perdita delle royalties segnò non soltanto la fine di una stagione creativa, ma anche lacerazioni personali profonde. «Ero arrabbiato, risentito. Ma col tempo mi sono reso conto che nel mondo della musica simili vicende non sono l’eccezione, ma la norma». In questa sua consapevolezza emerge il tratto amaro, ma insieme pedagogico, di un musicista che oggi ama raccontare la propria esperienza come monito alle nuove generazioni. Dopo la separazione, Jackson scelse una vita più appartata, lavorando come project manager per il Comune di New York, mentre Scott-Heron imboccava un sentiero doloroso di dipendenze e marginalità. Il ricordo di quell’amico perduto rimane intriso di malinconia: «Avrei voluto stargli vicino. Sono grato che la mia vita abbia seguito un percorso diverso, ma sono molto triste per lui». Nonostante le ferite, l’eredità del duo continua a risuonare. Chuck D dei Public Enemy ha riconosciuto in Scott-Heron il vero progenitore del rap, mentre Kendrick Lamar ha intessuto riferimenti diretti a quell’universo sonoro, campionando «Peace Go With You, Brother» da «Winter in America». Lo stesso Jackson ammira in Lamar un nuovo poeta capace di rinnovare quella tradizione. La maturità odierna di Jackson lo vede impegnato a riaffermare il valore di quella stagione: «Uno dei miei compiti è mantenere ed al tempo stesso ampliare la nostra eredità», afferma. I concerti-tributo, come quello dedicato a Scott-Heron o l’omaggio ad Alice Coltrane, non hanno il tono museale della commemorazione, ma la vitalità della testimonianza. Sono celebrazioni della musica come forma di resistenza, strumenti per ricordare che l’arte, quando s’imbatte nella coscienza storica, può ancora dischiudere spazi di libertà.

Gli Stati Uniti a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta erano un terreno lacerato da contraddizioni profonde. All’indomani dell’assassinio di Martin Luther King e di Malcolm X, il movimento per i diritti civili entrava in una fase di radicalizzazione, mentre le proteste contro la guerra in Vietnam infiammavano campus e piazze. La promessa di un’integrazione pacifica, vagheggiata negli anni precedenti, appariva fragile, mentre le diseguaglianze razziali e la violenza poliziesca continuavano a minare il tessuto urbano, alimentando il senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni. L’opinione pubblica viveva un paradosso: mentre i notiziari televisivi proponevano immagini edulcorate, spesso piegate alle esigenze propagandistiche del governo, una larga parte della popolazione afroamericana sperimentava sulla propria pelle marginalità e segregazione. Jackson e Scott-Heron intercettarono questa discrasia e la tradussero in suono. Il loro dischi non si limitavano a registrare uno stato di malessere, ma costituivano una vera e propria contro-narrazione rispetto al discorso ufficiale. L’arte diventava strumento di testimonianza. Così proprio nel momento in cui la politica negava la realtà, la musica ne riaffermava la verità, rendendo udibile ciò che i media tacevano. Le liriche di Scott-Heron, animate dalla furia satirica di testi come «The Revolution Will Not Be Televised» o «The Prisoner», trovavano nel pianismo di Jackson un contrappunto che non era mai ornamentale, bensì parte integrante della denuncia. Le armonie sospese e i ritmi asciutti restituivano la tensione di un’epoca in cui l’America sembrava vivere una guerra intestina. La scelta di presentare questi lavori in contesti diversi – università a prevalenza bianca e atenei afroamericani, club di jazz e teatri popolari – aveva una precisa valenza politica, ossia significava affermare che quel messaggio poteva essere accolto trasversalmente, oltre le appartenenze etniche, perché descriveva un malessere condiviso. Il clima di quegli anni era dunque intriso di illusioni e disillusioni. Da un lato sopravviveva l’eco della controcultura hippy, con il suo lessico di pace e amore, che Jackson stesso evoca come cifra ingenua ed idealistica della loro gioventù. Dall’altro, la realtà della repressione statale, delle disuguaglianze strutturali e di una politica internazionale aggressiva conferiva al loro lavoro una carica di urgenza che lo distingueva dalla semplice evasione. Se molta musica soul e funk coeva celebrava edonismo ed intrattenimento, l’universo sonoro di Jackson e Scott-Heron si ergeva come cronaca in versi e note, una sorta di colonna sonora della resistenza quotidiana.
È in questo scenario febbrile che si comprende appieno la portata di un musicista come Jackson, la cui tastiera non era solo uno strumento, ma un dispositivo politico, un’arma simbolica che, accanto alla parola poetica, contribuiva a costruire uno spazio di coscienza collettiva, dove la canzone militante non poteva indulgere in virtuosismi compiaciuti o in fughe puramente estetiche, ma doveva sostenere il peso della parola e restituire l’urgenza del discorso politico. Sul versante delle strutture armoniche, Jackson ricorreva con frequenza ad accordi sospesi, aperti, spesso costruiti su quarte e quinte giustapposte piuttosto che su triadi tradizionali. Questa scelta evitava una risoluzione piena e definitiva, producendo una tensione armonica che rispecchiava l’instabilità politica dell’epoca. Non si trattava di un astratto esercizio modernista, ma della traduzione sonora di una condizione sociale segnata da attese disattese e da promesse non mantenute. Tale predilezione per armonie «in sospeso» conferiva ai testi declamati da Scott-Heron una cornice inquieta, quasi a sottolineare che la rivoluzione era attesa, ma non ancora compiuta. L’uso del Fender Rhodes, strumento allora simbolo di modernità, non era solo un vezzo stilistico. Il suono caldo e vellutato serviva a smorzare l’asprezza dei testi più duri, instaurando un contrappunto affettivo tra lirica e sonorità. In «Pieces Of A Man», ad esempio, la morbidezza timbrica del Rhodes funge da balsamo su parole di forte carica politica, creando un equilibrio fra denuncia ed intimità. Allo stesso tempo, nei passaggi in cui l’organo Hammond subentra con le sue risonanze più aspre, la scelta timbrica amplifica la dimensione collettiva della protesta, evocando quasi un registro liturgico, da chiesa laica del dissenso. In merito agli arrangiamenti, Jackson optava spesso per texture ridotte, prive di ridondanze orchestrali. Questa economia di mezzi, in netto contrasto con la fastosità di parte del soul orchestrale dell’epoca, rispondeva ad una logica di chiarezza comunicativa, dove ogni elemento doveva risultare intellegibile, al servizio della parola poetica. Le linee di basso erano scarne ma incisive, i pattern ritmici sobri, quasi ossessivi, come se la ripetizione insistita avesse il compito di martellare l’ascoltatore con la stessa forza con cui lo faceva il messaggio politico. Un ulteriore aspetto riguarda la gestione della dialettica fra improvvisazione e struttura. Pur provenendo dal jazz, Jackson limitava spesso gli spazi di improvvisazione, privilegiando formule cicliche e ostinate che evocavano l’idea di resistenza, di un discorso da ribadire fino alla saturazione. La rinuncia al virtuosismo solistico, tipico di tanto jazz coevo, non nasceva da un limite, ma da una precisa postura politica: privilegiare la collettività sul protagonismo individuale, ridurre l’ego del musicista per amplificare la voce della comunità. In tal modo, il linguaggio sonoro di Jackson si fece immediatamente riconoscibile: essenziale ma non povero, lirico ma non sentimentale ed intriso di una tensione che rifletteva la precarietà dell’epoca. Non sorprende che questa architettura musicale abbia trovato eco in generazioni successive. Il minimalismo ostinato delle progressioni, l’uso di accordi sospesi e la valorizzazione della voce parlata hanno costituito la matrice sotterranea di molta estetica hip hop, da Public Enemy a Kendrick Lamar. La dimensione politica, dunque, non si limitava ai testi, piuttosto permeava le scelte armoniche, timbriche e formali, determinando una musica che era già in sé, prima ancora della parola, un atto di presa di posizione contro l’ordine costituito.
Un confronto con altri tastieristi afroamericani della stessa stagione consente di cogliere appieno la specificità della voce musicale di Brian Jackson. Negli anni Settanta la tastiera elettrica divenne lo strumento-simbolo di una generazione che vedeva nel Fender Rhodes e nell’organo Hammond non solo mezzi timbrici innovativi, ma veicoli di un immaginario culturale che univa spiritualità, modernità e rivendicazione identitaria. Tuttavia, se figure come Lonnie Liston Smith, Joe Sample o George Duke indirizzarono il proprio linguaggio verso forme in cui l’aspetto lirico o il virtuosismo tecnico assumevano un ruolo centrale, Jackson scelse un percorso più dimesso, ma non per questo meno radicale. Lonnie Liston Smith costruì il suo universo sonoro a partire dall’idea di «spiritual jazz», recuperando la lezione cosmica di Sun Ra e di Pharoah Sanders. I suoi brani (si pensi ad Expansions, 1975) si articolano in ampi tappeti modali, dilatati ed ipnotici, dove l’elemento tastieristico evoca una dimensione trascendente, una fuga verso spazi siderali di libertà. L’intenzione politica, seppure presente, si traveste da misticismo, da utopia spirituale. In Jackson, al contrario, l’armonia sospesa non costituisce un veicolo di evasione cosmica, bensì una metafora dell’instabilità sociale. Dove Smith cerca l’infinito, Jackson restituisce la precarietà del quotidiano. Joe Sample, membro fondatore dei Crusaders, incarnava la declinazione più «urbana» e levigata del jazz-funk. Le sue tastiere, raffinate ed immediatamente riconoscibili, fungevano da ponte tra il linguaggio jazzistico e la logica radiofonica del soul e del rhythm and blues. L’obiettivo era coniugare eleganza ed accessibilità, generando un prodotto che potesse circolare senza attriti nel mercato discografico mainstream. Jackson, invece, manteneva una sobrietà quasi ascetica, in cui la suo costrutto sonoro non mirava alla fluidità commerciale, bensì alla chiarezza del messaggio. Le armonie asciutte ed i pattern ritmici essenziali non invitavano alla danza spensierata, ma alla riflessione ed alla presa di coscienza. George Duke, infine, rappresentava il versante opposto, vale a dire un tastierista virtuosistico, capace di muoversi con disinvoltura tra fusion, funk e pop, dominando la scena grazie ad una tecnica debordante e ad una curiosità inesauribile per i nuovi strumenti elettronici. La sua forza risiedeva nell’abbattimento delle barriere di genere, in una poliedricità che lo rese figura centrale della West Coast. Jackson, per contro, rinunciava volontariamente al protagonismo solistico, riducendo l’improvvisazione a favore di strutture cicliche, concepite come collettive e non individualistiche. In questo confronto emerge con chiarezza la singolarità di Jackson. Laddove i suoi coetanei sperimentavano l’espansione timbrica, la spettacolarità tecnica o la commerciabilità del jazz-funk, egli scelse una via minoritaria ed insieme radicale, ancorando la propria tastiera a un compito etico. Le sue armonie non miravano a estasi cosmiche né a raffinatezze da club, ma a dare voce ad una generazione che cercava nello stesso gesto estetico un atto politico. Se la memoria storica riconosce in Smith, Sample o Duke i protagonisti di un’epoca di prosperità sonora, la figura di Jackson va compresa come quella di un «griot elettrico», un narratore che ha ridotto all’essenziale la propria tavolozza cromatica per amplificare la potenza della parola poetica e corrosiva al contempo di Gil Scott-Heron.
Un raffronto con i pianisti provenienti dall’alveo del cosiddetto soul jazz legato alla tradizione gospel – figure come Les McCann o Ramsey Lewis – illumina ulteriormente la posizione peculiare di Brian Jackson all’interno del panorama afroamericano degli anni Settanta. McCann e Lewis appartengono ad una genealogia che trae linfa dall’esperienza liturgica afroamericana: la chiesa come luogo di formazione musicale, il call and response come matrice dialogica, il pianoforte come strumento capace di intercettare il fervore collettivo della comunità. Nei loro lavori più significativi, basti pensare a «Compared To What», la celebre esecuzione dal vivo di McCann a Montreux nel 1969, o agli album di Lewis come «The In Crowd» (1965), dove la tastiera diventa veicolo di un entusiasmo contagioso, che unisce groove immediatamente fruibili ad una dichiarata intenzione comunicativa. Il messaggio politico, pur presente, permane veicolato attraverso una forma di euforia partecipativa, quasi una trasposizione secolare dell’estasi religiosa. Jackson, pur condividendo alcune matrici comuni, sceglie una strada differente. Il suo pianismo non mira a suscitare l’allegria collettiva tipica del gospel traslato in ambito laico, ma a costruire un tessuto sonoro che ospiti ed amplifichi la parola poetica e l’interazione sociale di Gil Scott-Heron. Dove McCann scaglia il suo grido di protesta attraverso una ritmica trascinante ed accordi possenti, Jackson preferisce l’ambiguità delle sospensioni armoniche, la reiterazione ostinata e la parsimonia timbrica. La sua tastiera non cerca il pathos immediato della congregazione, bensì la meditazione, l’ascolto consapevole e la riflessione critica. Se Ramsey Lewis faceva della contaminazione con il pop e con la dimensione radiofonica un tratto distintivo – basti ricordare la fortuna commerciale di «The In Crowd» – Jackson rifuggiva deliberatamente simili logiche, mantenendo una posizione più appartata, quasi ascetica. La sua economia di mezzi non determina un indice di minor fantasia, ma una scelta etica, ossia ridurre l’ornamento per lasciare spazio alla parola, sacrificare l’effusione emotiva tipica del gospel per sottolineare l’urgenza della denuncia sociale. Mentre McCann e Lewis restavano in qualche modo ancorati alla tradizione comunitaria della chiesa, Jackson innestava quella medesima eredità su un terreno politico esplicitamente laico e militante. L’energia del gospel, che in McCann e Lewis si traduceva in esuberanza collettiva, in Jackson si trasforma in sobrietà severa, in un gesto di concentrazione che vuole costringere l’ascoltatore a misurarsi con il contenuto del messaggio. Così, se McCann e Lewis rappresentano la prosecuzione festosa della liturgia afroamericana in ambito jazzistico e soul, Jackson ne costituisce la torsione politica, basata su un «pianismo di resistenza», meno incline al coinvolgimento emotivo immediato e più disposto a farsi sostegno sonoro al servizio di una parola che denuncia, ammonisce e custodisce memoria.
Il riferimento che Brian Jackson stesso compie alla tradizione del griot africano non va inteso come semplice metafora, bensì come dichiarazione di poetica. Il griot – figura polisemica che in molte culture dell’Africa occidentale funge da cantore, archivio vivente e custode delle genealogie – non rappresenta soltanto un musicista, ma un trasmettitore di memoria. La sua funzione risulta insieme estetica, politica e sociale, mentre la parola, avvinghiata al canto e alla musica, garantisce la continuità della comunità e ne registra i traumi, le resistenze e le speranze. Jackson, collocato nel cuore dell’America degli anni Settanta, rilegge questa eredità in chiave diasporica. Il suo pianoforte – o meglio, l’insieme delle sue tastiere elettriche, dai Fender Rhodes ai sintetizzatori analogici – non mira tanto alla virtuosità individuale, quanto a costruire un ambiente sonoro nel quale la voce di Gil Scott-Heron potesse agire come voce del griot contemporaneo, costantemente recitativa, polemica ed a tratti profetica. Nondimeno, le sue scelte tecniche, quali la predilezione per pedali armonici statici, la ripetizione ciclica di cellule melodiche e l’uso sobrio e calibrato dei timbri elettrici funzionano come un bordone narrativo, il corrispettivo musicale del kora o del balafon che accompagnano i griot africani. Non si tratta di semplice accompagnamento, bensì di rituale di contestualizzazione, in cui Jackson crea lo spazio, ne regola le tensioni e stabilisce un orizzonte sonoro che permette alla parola poetica di sedimentarsi. Come il griot, che non è mai soltanto intrattenitore ma anche pedagogo e cronista, Jackson sente il bisogno di «dare contesto», di offrire un’intelaiatura storica ed affettiva alle narrazioni di lotta e speranza. Questo radicamento nel modello griot spiega anche la sua scelta di uno stile economico e funzionale, mai ridondante. In opposizione ad un’idea occidentale di virtuosismo come esibizione individuale, per Jackson ciò che conta non viene sancito dall’ornamento tecnico, ma dall’attitudine a sviluppare uno spazio coabitativo, garantendo che la memoria non venga dispersa. La suo flusso melodico-armonico, in altre parole, non è soltanto suono ma veicolo di memoria collettiva. Appare significativo che Jackson continui a definire il proprio lavoro, ancora oggi, in termini di eredità da custodire e trasmettere. In questo, il parallelo con il griot appare perfettamente calzante, tanto che egli si percepisce come anello di una catena diasporica, incaricato di mantenere vivo un vernacolo di protesta, di coscienza critica e di opposizione, la stessa che affonda le radici nelle storie narrate intorno al fuoco dai custodi della parola africana.
Il confronto tra Brian Jackson e Herbie Hancock risulta particolarmente illuminante, perché mette a fuoco due modalità diverse, ed in parte complementari, di intendere il ruolo della tastiera nel decennio in cui il funk e la sperimentazione elettronica segnavano la scrittura afroamericana. Hancock, all’indomani della sua militanza con Miles Davis, si lancia in un’esplorazione che è al tempo stesso tecnologica e concettuale, dove l’adozione sistematica dei sintetizzatori ARP, del clavinet Hohner e del Fender Rhodes non è mai soltanto timbrica, ma diventa occasione per ridefinire la grammatica stessa del funk, caricandolo di complessità armonica e di spazi improvvisativi. Dischi come «Head Hunters» (1973) portano il linguaggio della fusion ad un livello di elaborazione quasi ingegneristica, dove i pattern ripetitivi convivono con sofisticate modulazioni, e la tastiera si emancipa dal ruolo di accompagnamento per imporsi come motore ritmico e orchestratore centrale. Jackson, pur muovendosi nello stesso clima sonoro, assume una posizione differente, più aderente alla funzione narrativa della musica. Per lui, l’elettronica non è un laboratorio di sperimentazione individuale, ma una tavolozza discreta al servizio della parola e della coralità. Se Hancock tende a saturare lo spettro con linee incrociate e stratificazioni timbriche, Jackson predilige l’ergonomia del gesto, con il Rhodes che tesse tappeti armonici ipnotici, i voicing costruiti su quarte o quinte parallele che evocano una dimensione modale e le strutture cicliche che si avvicinano alla trance. Anche l’approccio al funk è differente. Hancock porta il funk verso una dimensione futurista e spettacolare, dove il groove diventa laboratorio di avanguardia, persino di fantascienza sonora; Jackson, al contrario, lo declina come medium sociale, quale struttura semplice e diretta, capace di sorreggere un discorso poetico-politico. Laddove Hancock immaginava città del futuro, Jackson costruiva piazze simboliche dove la voce di Scott-Heron potesse arringare il pubblico. Si potrebbe dire che Hancock cerca un oltre del funk, un’espansione quasi cosmica, mentre Jackson ne ricerca un nucleo centrale, un’essenzialità che lo radichi nella funzione del canto collettivo e della memoria storica. Entrambi condividono la fascinazione per le possibilità infinite delle tastiere elettriche, ma le piegano a fini diversi: Hancock come esploratore di nuove istanze sonore, Jackson come custode e amplificatore della parola.
«Pieces Of A Man» (1971, con Gil Scott-Heron) si erge come manifesto della tensione tra impegno sociale e ricerca musicale. Sul piano armonico, Jackson costruisce un tappeto di Rhodes sospeso, quasi vaporizzato, dove le modulazioni rimandano ad un’idea di instabilità controllata, echeggiando l’urgenza di un’America in tumulto: il Vietnam, le lotte per i diritti civili, la disillusione politica si riflettono in accordi aperti e quarte che pendono come cartelli di protesta in un’urbanistica mentale. L’emozione scaturisce dalla fusione tra il timbro caldo del Fender Rhodes e le linee melodiche vocali di Scott-Heron, creando un senso di intimità collettiva che ricorda le suggestioni narrative del cinema impegnato di Gordon Parks, così come la densità sociale dei fumetti underground di Robert Crumb. Le liriche, taglienti e dense di ironia, dialogano con la letteratura afroamericana contemporanea di Baldwin, Hughes e Baraka ed, al contempo, anticipano la poetica rap. «The Revolution Will Not Be Televised» si attaglia come un manifesto di controcultura mediale che, come certi interventi di Pop Art, critica la superficialità della rappresentazione. «Winter In America» (1974) riprende ed intensifica il discorso politico e poetico. Le strutture armoniche diventano più scabre, spesso basate su pedali modali e vamp ciclici che danno respiro alla narrazione. Il senso di alienazione urbana, percepibile nelle tensioni dei testi, dialoga con la pittura sociale americana di Edward Hopper, con la sua solitudine illuminata da lampioni al neon, e con l’atmosfera sospesa della Nouvelle Vague francese. La tensione emotiva si sviluppa nella contrapposizione tra la delicatezza del Rhodes e il peso dei testi, dove la title-track cattura l’angoscia di un’epoca che oscilla tra speranza e disincanto, ricordando al contempo le istallazioni concettuali di Joseph Beuys, dove ogni elemento appare carico di significato simbolico e politico. «Secrets» (1978) rappresenta un passaggio verso una maggiore sofisticazione sonora, in cui Jackson integra elementi funk più marcati senza abbandonare la riflessione politica. Gli arrangiamenti presentano stratificazioni di tastiere e percussioni leggere, che evocano paesaggi urbani e mondi sospesi tra realtà ed immaginario. Le scelte timbriche richiamano la tensione cromatica della Pop Art e di Roy Lichtenstein, dove la linearità apparente nasconde una profondità concettuale, mentre i testi affrontano le contraddizioni sociali e le ipocrisie dei media, anticipando un ethos critico tipico della street art e dei poster politici degli anni Settanta. «Bridges» (1977), forse il lavoro più lirico di Jackson insieme a Scott-Heron, si distingue per una scrittura armonica che mescola jazz modale, funk e soul, con progressioni ricche di tensione e risoluzione ritmica. L’album riflette il desiderio di creare ponti tra comunità, generazioni e linguaggi artistici, in cui le linee melodiche fluiscono come sequenze cinematografiche, suggerendo montaggi alla Godard, mentre i testi affrontano temi di giustizia sociale, memoria storica e identità collettiva, evocando la poesia di Langston Hughes e la narrativa urbana di Toni Morrison. Le armonie sospese ed i pedali modali diventano veicoli emotivi, in grado di trasmettere empatia e partecipazione sociale. «We’re Almost Lost Detroit» (1977), pur essendo un singolo e titolo simbolico di un progetto più ampio, sintetizza perfettamente l’intreccio tra musica, politica e testimonianza storica. Jackson costruisce un groove ipnotico, con un’armonia semplice ma carica di tensione, dove i synth e le tastiere alimentano una densità atmosferica che amplifica il racconto civile, dove il collasso industriale e la precarietà urbana sono tradotti in pattern ritmici e cicli melodici che evocano la serialità della Pop Art e le dinamiche spaziali del fumetto e dell’aerosol art urbana. L’emozione scaturisce dalla sintesi tra groove e parola, dove il tessuto sonoro diventa medium narrativo e memoria collettiva, in cui il testo e l’armonia dialogano come in una performance di griot contemporaneo, trasferendo storia e morale attraverso la musica. Ciò che permane nella memoria storica è la capacità di Jackson di innestare una sensibilità jazzistica dentro un impianto narrativo che travalica i generi, consegnando alla posterità un corpus discografico che ha agito come matrice sotterranea per l’evoluzione della black music contemporanea. La sua figura non può dunque essere letta in chiave ancillare rispetto a Scott-Heron, bensì come presenza imprescindibile nella definizione di un linguaggio musicale che ha saputo farsi al tempo stesso canto elegiaco e strumento politico, mantenendo intatta la tensione tra forma e contenuto, tra estetica e prassi sociale.

