La critica jazz francese: testi ed autori essenziali
Come spesso accade l’inglese – o meglio l’american-english – diventa subito l’unica lingua franca del jazz e quasi tutto quel che viene scritto in altri idiomi ottiene scarsissima circolazione, non avendo la possibilità di venire tradotto: ne fanno spese innanzitutto Paesi o zone come Belgio, Danimarca, Svezia, oggi Italia, Giappone, Spagna, Brasile, Portogallo, Ispanoamerica, Est-Europa, dove gli studi aumentano in quantità e qualità.
// di Guido Michelone //
La Francia, intesa come nazione e per le attività culturali, vanta nel jazz diversi primati che nemmeno gli Stati Uniti – patria certificata del jazz – riescono o vogliono raggiungere soprattutto per quanto riguarda la fase iniziale e immediatamente successiva, da molti, più o meno correttamente definita ‘tradizionale’ e ‘classica’ ossia di fatto le prime due grandi tendenze novecentesche hot (anni Dieci e Venti) e swing (anni Trenta e Quaranta). La Francia inventa e promuove, sul jazz, il primo libro (Le Jazz, 1927), la prima rivista («Jazz Hot», 1935), i primi circoli (gli Hot Clubs, 1933), la prima collana discografica (etichetta Swing, 1937), i primi critici (Hugues Panassié e Charles Delaunay), i primi antropologici interessati (André Schaeffner e Michel Leiris), i primi intellettuali coinvolti (Boris Vian), la prima avanguardia entusiasta (il Surrealismo), il primo festival jazz al mondo (Nizza, 22-28 febbraio 1948).
Tranne i corsi accademici – i primi insegnamenti in Conservatorio avvengono nel 1929 in Danimarca, altra nazione europea, così come è il Belgio a rivendicare sia il primo jazzologo, Robert Goffin, sia il primo jazzman a inventare uno stile autenticamente europeo, il geniale chitarrista Django Reinhardt, benché egli sia apolide, in quanto rom e comunque emanazione del Quintette du Hot Club De France, sotto la cui denominazione si esibisce ai concerti e in sala di registrazione) – crea tutto o quasi soprattutto impegnandosi nel favorire il jazz quale musica d’arte, bisognosa di rispetto, autonomia e attenzioni critiche, che, oltre riviste, bollettini, opuscoli, conferenze, audizioni pubbliche, tavole rotonde, vengono comunicate attraverso i libri valorizzati soprattutto dagli anni Cinquanta anche dalla grande editoria. Purtroppo, come spesso accade l’inglese – o meglio l’american-english – diventa subito l’unica lingua franca del jazz e quasi tutto quel che viene scritto in altri idiomi ottiene scarsissima circolazione, non avendo la possibilità di venire tradotto: ne fanno spese innanzitutto Paesi o zone come Belgio, Danimarca, Svezia, oggi Italia, Giappone, Spagna, Brasile, Portogallo, Ispanoamerica, Est-Europa, dove gli studi aumentano in quantità e qualità. Le due uniche eccezioni sono rappresentate, dal dopoguerra, da Polonia e Germania Ovest: la prima, aggirando la censura di regime, pubblica la rivista «Jazz Forum» in tre lingue (polacco, inglese, tedesco); la seconda con l’exploit del volume Das Jazzbuch (Il libro del jazz) uscito in patria nel 1952 (e sei volte aggiornato, al momento fino al 2005) e tradotto negli Stati Uniti nel 1957 e via via in moltissime altre lingue: resta a tutt’oggi il libro sul jazz più venduto al mondo.
Per quanto riguarda i testi francesi internazionalizzati sono pochissimi: solo il pionieristico Le hot jazz (1935) del citato Panassié (1912-1974) viene tradotto l’anno dopo, quasi contemporaneamente in Inghilterra e Nord America e in altre nazioni, ma non in Italia per due precise ragioni: il libro esce in piena euforia fascista, quando almeno nominalmente il jazz non esiste, essendo vietato dalle istituzioni, ma ribattezzato ‘ritmo sincopato’ o con il generico ‘musica da ballo’ per ottemperare all’autarchia vigente. Quando, dieci anni dopo, sarebbe possibile tradurlo, la nascente critica italiana è a conoscenza delle posizioni antimoderne di Panassié: i vari Testoni, Polillo, Barazzetta, Cerri, Fayenz, Maletti, Candini, allora giovani o giovanissimi, a causa delle censure del Duce, non hanno la possibilità di seguire per filo e per segno, l’iter evolutivo del sound afroamericano dal ragtime al post-swing, ragion per cui accolgono tutto assieme appassionatamente, amando in contemporanea il dixieland revival il progressive jazz e il nuovo bebop.
Benché diverse rubriche su riviste quali «Musica Jazz», «Ritmo», «Jazz di ieri e di oggi» facciano riferimento alle consorelle d’Oltralpe («Jazz Hot» e «Jazz Magazine») il primo grande incontro con la stampa francese avviene con un libro molto importante come Hommes et problèmes du jazz (1954) del parigino André Hodeir (1921-2011), violinista e compositore, ma soprattutto fra i primi a coniugare il linguaggio jazzistico a quello colto-contemporaneo: tradotto nel 1958 in italiano e due anni prima in inglese, il testo diventa subito un punto di riferimento nella bibliografia jazzistica, regolarmente citato dai principali critici internazionali e acclamato come l’atto di nascita della jazzologia, il volume però subisce un lungo periodo di oblio sia in Francia sia in Italia prima delle riedizioni negli anni Ottanta con nuova premessa dell’Autore.
Come si sa, il libro di Hodeir, ormai leggendario, non pretende di essere una storia del jazz, ma ne parla, per la prima volta, ‘seriamente’, andando oltre un approccio al fenomeno puramente basato sugli eventi, indagando una sorta di ‘avventura del linguaggio’ attraverso lo studio musicale di alcune delle incisioni dei principali strumentisti che creano un’estetica unica e duratura. Hodeir riconosce molto presto il jazz come uno dei principali fenomeni artistici del XX secolo, così che questo contributo all’esplorazione delle forme, della struttura e del potenziale musicale del discorso jazzistico rimane ancor oggi di eccezionale attualità. E l’evolversi del jazz introdotta dai nuovi maestri della scena afroamericana (dall’hard bop a oggi) non smentisce la modernità e la consistenza di uno scritto anche di coinvolgente lettura.
Ma occorre aspettare più di dieci anni per trovare il libro che più sconvolge la jazzologia europea (Italia compresa) e che suscita il maggior numero di polemiche, denigrazioni, stroncature: si tratta di Free Jazz / Black Power scritto a quattro mani da Philippe Carles (1941-2023) e Jean-Louis Comolli (1941-2022, quest’ultimo anche molto noto come regista e critico cinematografico). Il testo, com’è scritto sul sito dell’Einaudi che lo traduce e lo pubblica già nel 1973 “(…) si presenta nel panorama della critica jazz come lo strumento di comprensione di una delle più importanti correnti musicali nero-americane, offrendoci altresì una disamina dell’intero jazz dal ‘punto di vista nero’. Il jazz è visto come espressione ‘del bisogno del Nero di porsi al centro di una sua propria manifestazione, di assurgere a soggetto della sua storia’. E, così, come la storia del Nero-americano è un’alternanza di sottomissioni e di rivolte, di comprensione intellettuale e di conservazione sotterranea di una cultura autoctona, di resistenza all’ambiente estraneo e di una acculturazione necessaria per sopravvivere, così il jazz appare come lo specchio di tali contraddizioni attraverso un’alternanza di sfruttamento economico e di orgogliosa ripulsa di facili edonismi, fino a configurarsi come ‘contestazione globale dei valori culturali della civiltà occidentale e come costruzione di una musica afroamericana specifica e attività musicale in funzione di arte rivoluzionaria’”.
Quando invece nel 2000 la collana tascabile Folio ripubblica a Parigi il volume, gli autori offrono una nuova introduzione, in cui fra l’altro dicono: “Scuotendo la storia – la storia del jazz, la storia del Blues People, la storia dell’America in lotta contro se stessa, il peso dei fantasmi del passato, il peso dei revenant degli schiavi che tornano a ballare di notte nelle nostre menti – il free jazz scuote le catene del corpo nero che è invisibile, fuori dallo schermo, nella storia bianca. Quando abbiamo pubblicato questo libro, era il 1971. I Neri erano le Pantere, Malcolm X era stato assassinato e il suo profeta non era ancora veramente nato, Julius Hemphill stava formando il suo primo gruppo a St. Louis e Joe McPhee, con Clifford Thornton, aveva già inciso il suo Nation Time. Spike Lee andava a scuola e la cortina di ferro era caduta. LeRoi Jones si chiamava già Amiri Baraka, il Lyon Workshop si chiamava ancora Free Jazz Workshop, George Jackson era stato assassinato in prigione e Mumia Abu-Jamal non era ancora nel braccio della morte. Questo è ciò che non è cambiato, questo è ciò che è cambiato”.
A chi già allora, forse più di oggi, fra jazzologi e accademici, definisce il free incomprensibile o anti-musica, Carles e Comolli danno una risposta perentoria: «(…) una simile tesi finisce per confondere le esigenze delle masse con le esigenze culturali, ma anche economiche e politiche, dell’ideologia dominante; nonché per occultare totalmente il problema di quali potrebbero essere le effettive urgenze culturali delle masse con quanto l’ideologia, sotto la veste della domanda, attribuisce e inculca loro e formula per loro conto (e anche attraverso loro). Il free jazz, intraprendendo una polemica contro ciò che prevale nei gusti popolari (…) compie un preciso sforzo per rompere non con il pubblico, ma con l’ideologia che lo pervade».
Passano diciassette anni e Carles e Comolli assieme a André Clergeat (1927-2016) redigono il Dictionnaire du jazz che resta, al momento, il migliori libro sull’argomento sia in quanto a completezza su autori, stili, generi (benché i jazzmen francesi siano prevedibilmente in netta maggioranza rispetto ai colleghi europei) sia per quanto riguarda i dettagli critici, biografici, discografici e soprattutto musicologici. Marco Buttafuoco su «Jazzitalia» sottolinea giustamente pregi e difetti dell’edizione italiana del 2008, dove una seconda prefazione e un aggiornamento generale si devono all’attuale direttore di «Musica Jazz». L’inizio della recensione è assai elogiativo, in merito alla struttura del libro: «Da Aacm a Zydeco: 2500 voci e 1388 pagine, due brevi ma corpose prefazioni (l’una dei coordinatori francesi, l’altra del curatore dell’edizione italiana, Luca Conti) più una bibliografia. Schede biografiche (integrate da scarne indicazioni discografiche) dedicate a gruppi e singoli musicisti, ai vari generi, agli strumenti, ai luoghi stessi del jazz (Congo Square, il Five Spot Cafè, o il Birdland, le stesse New Orleans e New York), ai suoi rapporti con il cinema (…) Confesso un legame particolare con quell’edizione francese, stampata su carta sottile e poverissima che per anni era accanto ai dischi e mi ha aiutato a districarmi in quella foresta aggrovigliata che è il jazz». È duplice invece il punctum dolens: «Mi aspettavo quindi di poter avere, con questa edizione italiana, un importante aggiornamento su quanto era venuto avanti nella scena jazzistica negli ultimi due decenni. Si può dire che questa aspettativa è stata soddisfatta per quanto riguarda il jazz italiano, che ha il ruolo dovuto nell’economia dell’opera. Certo i criteri di scelta delle singole voci relative ai musicisti di casa nostra possono essere discutibili, ma sono in ogni caso riconducibili alla valutazione personale del curatore dell’edizione italiana».
Quello che invece sia Buttafuoco sia il resto dei lettori fatica a capire «(…) è come mai, in uno sforzo editoriale tanto importante si sia scelto di non gettare uno sguardo, anche rapido, su quanto avviene nel jazz globalizzato dei nostri giorni. In altre parole, non ci sono schede su figure come Uri Caine, William Parker, Dave Douglas. Non si parla nemmeno di World music, categoria magari equivoca, ma che con il jazz ha, volenti o nolenti, molto a che vedere». Ancor peggio risulta la revisione bibliografica che di fatto è la nota stonata di quasi tutta la critica e la jazzologia italiane: «(…) la bibliografia è, ad esempio, decisamente datata e spesso incompleta, è infatti aggiornata al 1994 e cita solo opere edite negli Usa e in Francia (unica eccezione Il jazz in Italia dalle origini al dopoguerra di Adriano Mazzoletti e la Grande Enciclopedia del jazz dello stesso autore), e omette spesso di citare le traduzioni italiane esistenti. Un italiano che si avvicinasse oggi al jazz ricaverebbe dal dizionario l’impressione che da noi non sono mai uscite le autobiografie di Miles, Satchmo, Duke etc. Ignorerebbe il nome stesso di Arrigo Polillo e l’esistenza di tanta importante letteratura italiana sul jazz (la collana di biografie di Stampa Alternativa ad esempio)».
Per concludere – al di là di altre fortunate passate traduzioni dei volumetti didascalici di Lucien Malson e André Francis o di singole monografie – bisogna tornare in Italia all’inizio degli anni Zero con la parziale scoperta del Boris Vian critico jazz: il grande romanziere, poeta, drammaturgo, inventore, discografico, trombettista parigino (1920-1959) del quale l’editore milanese Marcos y Marcos, a partire da fine Novanta, traduce e pubblica l’intero corpus narrativo offre il destro a Stampa Alternativa a due nuovi volumi – Jazz! (rassegna stramba) e Musika & dollaroni. Contro l’industria della canzone – che riassumono l’immane produzione cartacea su riviste che il geniale parigino redige sul jazz tra il 1946 e il 1958 e che in Francia viene integralmente antologizzata nei tre volumi Chroniques de jazz, Écrits sur le jazz, Jazz in Paris, usciti postumi tra il 1981 e il 1996.
Tuttavia i due Vian ‘italiani’ non arrivano al clamore, al successo e alla popolarità dei testi di Hodeir, Carles e Comolli, Carles-Clergeat- Comolli che anche i jazzofili e gli studiosi nel nostro Paese tengono ben stretti sugli scaffali delle loro librerie, aspettando magari anche la traduzione del primo Le jazz (più volte proposta invano dal sottoscritto) di André Schaeffner, autore di cui ci si può consolare leggendo Origine des instruments de musique. Introduction ethnologique à l’histoire de la musique instrumentale, lavoro antropologico (non sul jazz)uscito nel 1936 ma giunto in Italia solo mezzo secolo dopo con il titolo Origine degli strumenti musicale grazie all’editore Sellerio.
Bibliografia francese
Il presente elenco è una selezione dei miglior libri dalle origini a oggi, scelti con i criteri dell’originalità espressa dalla critica jazz francese.
Antonietto Alain, Billard François, Django Reinhardt. Rythmes futures, Fayard, Paris 2004.
Augeé Marc, Colleyn Jean-Paul, L’anthropologie, Que sais-je? Presse Universitarire Française, Paris 2021.
Balen Noël, Django Reinhardt. Le génie vagabond, Éditions du Rocher, Monaco 2015.
Balen Noël, L’odyssée du jazz, Éditions Liana Levi, Paris 1993.
Bergerot Franck et Merlin Arnaud, L’épopée du jazz. 1/ du blues au bop, Gallimard, Paris 1991.
Bergerot Franck et Merlin Arnaud, L’épopée du jazz. 2/ Au-delà du bop, Gallimard, Paris 1991.
Bessières Vincent, Django Reinhardt, swing de Paris, Textuel Cité de la Musique, Paris 2012.
Béthume Christian, Le Jazz et l’Occident, Klincksieck, Paris 2008.
Billard François, La vie quotidienne des jazzmen américains jusqu’aux années 50, Hachette, Paris 1989.
Brierre Jean-Dominique, Le jazz français de 1900 à aujourd’hui, Librairie Eyrolles, Paris 2000.
Carles Philippe, Clergeat André, Comolli Jean-Louis, Dictionnaire du jazz, Robert Laffont, Paris 1988.
Carles Philippe, Comolli Jean-Louis, Free Jazz Black Power, Éditions Champ Libre, Paris 1971.
Clouzot, Henri, Level André, L’art nègre et l’art océanien, Devambez, Paris, 1919.
Cotro Vincent, Chants libres. Le free jazz en France 1960-1975, Outre Mesure, Paris 1999.
Cœuroy André, Schaeffner André, Le jazz, Claude Aveline, Paris 1926.
Cugny Laurent,. Histoire du jazz, Frémeaux & Associés, Vincennes 2025.
De Gouyon Matignon Louis, Jazz manouche. La discotèque idéale, L’Harmattan, Paris 2015.
Delaunay Charles, Delaunay’s Dilemma. De la peinture au jazz, Éditions W, Mâcon 1985.
Francis André, Jazz, Éditions du Seuil, Paris 1958.
Goffin Robert, Aux frontiers du jazz, Sagittaire, Paris 1932.
Hodeir André, Hommes et problèmes du jazz, Flammarion, Paris 1954.
Hodeir André, Les mondes du Jazz, Union Générales d’ Éditions, Paris 1970.
Hucher Philippe, Le jazz, Librio, Paris 2007.
Jalard Michel-Claude, Le jazz est-il encore possible, Parenthes, Marseille 1986.
Jamin Jean, Williams Patrick, Une anthropologie di jazz, CNRS Éditions, Paris 2010.
«L’Homme. Revue française d’anthropologie» (a cura di), Jazz et anthropologie, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 2001.
Legrand Anne, Charles Delaunay et le jazz en France dans les années 30 et 40, Éditions du Layeur, Paris 2009.
Malson Lucien et Bellest Christian, Le jazz, Presses Universitaires de France, Paris 1987.
Malson Lucien, Les maîtres du jazz d’Oliver à Coltrane, Presses Universitaires de France, Paris 1952.
Martin Danis-Constant, Roueff Olivier, La France du jazz. Musique, modernité et identité dans la première moitié du XX siècle, Éditions Parenthèses, Marseille 2002.
Mouëllic Gilles, Le jazz. Une esthétique du XX siècle, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2000.
Nattiez Jean-Jacque, Lévi-Strauss musicien: essai sur la tentation homologique, Actes Sud, Arles 2008.
Panassié Hugues, Le jazz hot, Corréa, Paris 1934.
Panassié Hugues, Monsieur jazz, Stock, Paris 1975.
Pierrepont Alexandre, Le champ jazzistique, Éditions Parenthèses, Marseille 2002.
Porcile François, La belle époque de la musique française, Fayard, Paris 1999.
Réda Jacques, L’improviste. Une lecture du jazz, Gallimard, Paris 1990.
Regnier Gérard, Jazz et société sous l’Occupation, Éditions L’Harmattan, Paris 1999.
«Revue d’esthétique» (a cura di), Jazz, Jean Michel Place, Paris 1991.
Roueff Olivier, L’ethnologie musicale selon André Schaeffner, entre musée et performance, in «Revue d’histoire des sciences humaines», no 14, 2006.
Schaeffner André avec la collaboration d’André Cœuroy, Le jazz, Jean-Michel Place, Paris 1988.
Schaeffner André, Origine des instruments de musique. Introduction ethnologique à l’histoire de la musique instrumentale, Payot, Paris, 1936.
Schaeffner André, Essais de musicologie et autres fantaisies, Le Sycomore, Paris 1980.
Schaeffner André,Correspondance avec Pierre Boulez, 1954-1970, Fayard, Paris 1998.
Schaettel Charles, De brique et de jazz, Éditions Loubatières, Toulouse 1999.
Soutif Daniel, Il secolo del jazz. Arte, cinema, musica e fotografia da Picasso a Basquiat, Skira, Milano 2012.
Ténot Frank, Boris Vian, jazz à Saint-Germain, Éditions du Layeur, Paris 1999.
Tournès Ludovic, New Orléans sur Seine. Histoire du jazz en France, Fayard, Paris 1999.
Tuzet Jean-Baptiste, Jazz manouche. La grande aventure du swing gitan de Django Reinhardt à Tchavolo Schmit, Éditions Carpentier, Paris 2007.
Verdeaux Laurent et Pascal, Nouvelle Histoire du Jazz, Éditions Hermès, Paris 1968.
Vian Boris, Chroniques de jazz, La Jeune Parque, Paris 1967.
Vian Boris, Écrits sur le jazz, Cohérie Boris Vian et Christian Bourgois éditeur, Paris 1981.
Vian Boris, Jazz in Paris, Le livre de poche, Pauvert, Paris 1996.
Vian Boris, Jazz! (rassegna stramba), Stampa Alternativa, Frosinone 2003.
Vian Boris, Musika & dollaroni. Contro l’industria della canzone (con CD Audio), Stampa Alternativa, Frosinone 2008.
Zacsongo Joseph Léa, Les frontières entre les professions de journaliste et de critique dans la presse musicale française contemporaine, Tesi di Master, Université de la Sorbonne, Paris 2023.


