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Il secondo album di Parlan in veste di leader per la Blue Note, il primo a suo nome che impiega ottoni, «Speakin’ My Piece» si staglia su ritmo moderato, un invito allo swing con fraseggi blues aggraziati e note blue, sulla scorta di un’eleganza formale che si dirama lungo l’intero tracciato sonoro.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Non sempre celebrato dai libri di storia e dalle cronache jazzistiche, Horace Parlan s’iscrive per merito, all’albo d’oro del jazz moderno, quale pianista di notevole spessore, non solo per il suo stile unico, frutto di una mano destra parzialmente compromessa. Figura chiave del primigenio hard bop, ha lasciato un’impronta significativa nelle successive evoluzioni del vernacolo afro-americano, non disdegnando mai di infondere le sue composizioni di elementi blues ed improvvisazioni audaci e trasversali. Come band-leader Horace Parlan aveva il dono di un’aura fonica rilassata e swingante che poneva il pianoforte in un ruolo centrale, ma senza pretese di dominio assoluto, riuscendo a calibrare tutti gli apporti necessari: dal suo modo di suonare fatto di grana sottile fino alla sollecitazione di rilevanti contributi da parte dei membri di supporto.

Colpito dalla poliomielite in tenera età, Horace Parlan subì una parziale paralisi alla mano destra. Lo stile pianistico del musicista di Pittsburgh, fu per tanto, caratterizzato da linee ed accordi toccanti della mano sinistra e da un comping ritmico e scarno della destra. Il giovane Horace iniziò a prendere lezioni di pianoforte, come terapia, all’età di otto anni, superando gli effetti debilitanti della malattia, tanto da sviluppare una mano sinistra molto forte ed uno stile di diteggiatura nella mano destra che ingannava l’ascoltatore, facendogli credere che non esistesse alcuna disabilità. Nelle varie interviste, egli ha sempre citato Ahmad Jamal e Bud Powell come influenze principali. L’approccio assai peculiare al jazz incorpora influenze gospel, elementi di R&B e blues. Il suo stile insolito attirò l’attenzione di alcuni maggiorenti del jazz dei primi anni Cinquanta. Dal 1952 al 1957, suonò con Sonny Stitt; successivamente, Charles Mingus lo volle nel suo Jazz Workshop. Lo tecnica e l’articolazione accordale, inconfondibile, di Parlan fu un elemento prezioso nei classici album di Mingus «Mingus Ah Um» e «Blues & Roots». Nel 1972, Parlan si trasferì a Copenaghen, in Danimarca, dove divenne un punto di riferimento della scena jazz locale, frequentando il Club Montmartre, che già ospitava altri esuli americani come Dexter Gordon, Kenny Drew, Ben Webster e Archie Shepp. Con Shepp, registrò il seminale «Goin’ Home» del 1974, intriso di gospel, la cui registrazione, si dice, commosse più volte i due musicisti durante la sessione. Negli anni Settanta e nei primi Ottanta, Parlan incise numerosi album per l’etichetta danese Steeplechase.

Il secondo album di Parlan in veste di leader per la Blue Note, il primo a suo nome che impiega ottoni, «Speakin’ My Piece» si staglia su un groove moderato, un invito allo swing con fraseggi blues aggraziati e note blue, sulla scorta di un’eleganza formale che si dirama lungo l’intero tracciato sonoro. Tuttavia, i chorus si arricchiscono di entrate idiosincratiche e glissando ritmici e percussivi, che ricordano vagamente Monk, non tanto nell’uso della sintassi accordale, ma quanto nell’attitudine a colpire i tasti in maniera disarticolata, secca e spaziata. Parlan non esita a spingersi verso improvvise ottave alte, regalando piacevoli sorprese. L’opener «Wadin», emerge come un blues lento e pigro con il sax tenore di Stanley Turrentine, che immerso nel riverbero, distilla un assolo cinetico e ben strutturato. Suo fratello, Tommy, tenta di imitarne il gesto con la tromba, ma con meno ispirazione. «Up In Cynthia’s Room» mostra un tema scorrevole che punta su un piccolo inciso memorabile. Uscendo dai blocchi di partenza, Stanley Turrentine dispensa ancora una volta un assolo ben assestato, seguito a ruota da Tommy, proprio come un bambino che prova ad emulare le prodezze del fratello maggiore, mentre Parlan si sposta con passo angolare, tributando il suo background bop denso di sfumature gospel. Il bassista George Tucker interviene dimostrando al mondo quanto il contrabbasso sia della partita. «Borderline» sancisce un altro buon tema, scritto da Stanley Turrentine, con il consueto giro di assoli: Stanley al tenore, Tommy alla tromba e Parlan al pianoforte, protagonisti di un circolarità funzionale e fluida. Il contrabbasso prepara l’atmosfera sull’originale di Tommy Turrentine, «Rastus». Immediatamente assertivo, l’intreccio motivico decreta l’agilità dei musicisti: Stanley Turrentine raggiunge il climax dell’intera prestazione; perfino il fratello Tommy non è da meno. Parlan contribuisce con un assolo fitto di hard-swinging e funk, evidenziato abbondantemente dal potente backbeat di Al Harewood. Il passaggio successivo a firma Leon Mitchell, «Oh So Blue», innesta un cambio di ritmo e di mood. Stanley Turrentine, memore di qualche storia d’amore vissuta in passato e perduta nel tempo, si esprime con un tono a gola piena perfettamente adatto all’ambientazione del costrutto melodico, mentre gli obbligati di Tommy riempiono accuratamente i silenzi. Dal canto suo, Parlan segue con un assolo carico di lirismo come un carotaggio emotivo. A suggello dell’album, la title-track, «Speakin’ My Piece», a firma Parlan, basata su un medio swing, diventa una sorta di tracciamento idiomatico del quintetto, calato in una perfetta ambientazione hard bop.

«Speakin’ My Piece», fa parte di una serie di album di spessore che Parlan realizzò con i suoi line-up per l’etichetta di Alfred Lion nei primi anni Sessanta. Inizialmente, il trio, completato dal bassista George Tucker e dal batterista Al Harewood, divenne noto come Us Three (noi tre), un’unità ritmica classica della Blue Note, dotata di rara coesione e circolarità. Il primo album del gruppo per l’etichetta di Alfred Lion fu proprio «Us Three» (1960). Parlan scomparso a ottantasei anni nel 2017, è stato l’ultimo sopravvissuto di un’epopea memorabile, essendo George Tucker morto per emorragia cerebrale nel 1965 – mentre suonava con Kenny Burrell – ed Al Harewood spentosi nel 2014. Il gruppo acid- jazz US3, nel 1993, ottenne un successo planetario con «Hand On The Torch», campionando diverse registrazioni classiche della Blue Note. Nel 1960, all’età di 29 anni, Parlan era visto come il nuovo Horace Silver, uno stilista duale, un membro della squadra di Mingus e, contestualmente, un profeta del blues ed un cesellatore di ambientazioni soulful legato al gruppo di lavoro di Lou Donaldson. Il pianista poteva scegliere l’uno o l’altro modulo di gioco: in questo disco – registrato 14 luglio 1960 al VanGelder Studio e pubblicato nel novembre dello stesso anno – è il team soul a dettar legge, anche perché, nel 1960 era ancora abbastanza presto, perché il soul jazz si tramutasse nel funky chicken.

Horace Parlan
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