JazzUmbria_Long

Nella regione dei santi e della santa inquisizione, il jazz c’è, talvolta in abbondanza, e si muove con profitto oltre l’impenetrabile cortina di ferro dell’impero di Umbria Jazz.

Gabriele Mirabassi – «Verso Sud», EGEA Records, 2025

Riccardo Catria – «Orchestral Suite N° 1», Encore Music, 2025

Manuel Magrini – «Inner Pictures», Encore Music, 2025

Lorenzo Bisogno Quartet, Feat. Cosimo Boni – «It’s A New Day», EMME Record Label, 2025

// di Francesco Cataldo Verrina //

Quattro recenti uscite discografiche, il cui comune denominatore è l’Umbria. Quattro artisti che raccontano e declinano il verbo jazzistico in virtù di differenti metodologie: si va dalle struggenti atmosfere sudamericane di Gabriele Mirabassi, al denso sinfonismo corale ed orchestrale di Riccardo Catria, dalle incursioni eurodotte di Manuel Magrini in piano solo, sino all’energia post-bop e funkified di Lorenzo Bisogno. L’ordito relazionale si arricchisce con Gabriele Mirabassi ospite nel disco di Magrini e quest’ultimo che diventa struttura armonica portante nell’album di Bisogno.

Il clarinetto di Gabriele Mirabassi occupa una posizione singolare nel jazz europeo e italiano: non è semplice strumento, ma voce poetica, estensione del pensiero musicale che si muove tra lirismo, rigore e improvvisazione con naturalezza rara. Nel panorama nazionale, ha riscattato il clarinetto da una marginalità storica, oscurata dal sassofono, restituendogli centralità. La formazione classica al Conservatorio Morlacchi di Perugia gli ha garantito un controllo timbrico e dinamico di vertice; ciò che lo distingue, però, è la capacità di trasformare la cantabilità operistica italiana in fraseggio jazzistico: ogni nota sembra portare l’eco di un’aria pucciniana filtrata dall’immediatezza improvvisativa. In Europa si colloca accanto a Louis Sclavis, Michel Portal e Gianluigi Trovesi, ma con una voce più narrativa e melodica che astratta: il suo clarinetto non frattura, ma canta e racconta, disegnando una via mediterranea al jazz. Decisivo risulta l’incontro con le musiche popolari sudamericane, soprattutto brasiliane: choro, samba e milonga diventano per lui lingue da abitare, non generi da citare. Il clarinetto diventa ponte tra classico e improvvisato, Europa e Sudamerica, scrittura e oralità. Emblematica in tal senso appare l’esperienza di «Verso Sud» (EGEA), nato dopo una serie di concerti in Colombia con il quartetto d’archi Q-Arte. Non semplice trasposizione discografica, ma meditazione sul viaggio inteso come trasformazione interiore. Il Sud non è direzione geografica, ma tensione simbolica, luogo mitico ed emozionale. Il repertorio alterna originali e omaggi, come «Las Presencias N.6» di Guastavino, il «Puccini delle Pampas», che porta un’aura lirica al progetto. Ma è nelle composizioni di Mirabassi che la voce si fa personale: melodie cantabili, spesso balcanizzate, immerse però nella libertà formale del jazz. Il quartetto Q-Arte non funge da semplice sostegno armonico, ma da interlocutore contrappuntistico, comportandosi più da collettivo jazz che da ensamble classico. I brani tracciano un itinerario emotivo: da «Amica Vittoria», sospesa tra l’opera italiana e il canto criollo, a «Chisciotte», intrisa di tensione, fino ai «Giardini di Dioniso», che evocano choro e danzón come in un quadro impressionista. In «Pinocchio 1911» il Sud diventa geografia multipla, tra Bahia, Toscana e Mediterraneo. Con «Subindo a Cantareira» e «Chove na minha valsa» il tono si fa più intimo, oscillante, come un pensiero che danza in cerchio. Guastavino ritorna con la malinconia trasparente di «Las Presencias N.6», vero asse lirico del disco, mentre «Sospesi a Primavera» chiude come breve epilogo, seducendo pienamente il fruitore. «Verso Sud» non è incontro superficiale tra culture, ma riconciliazione estetica, in cui l’Italia lirica e la Colombia sincretica si avvitano come voci in fugato. Il jazz vi appare come grammatica dell’accoglienza, capace di ospitare bandoneón, chitarra, clarinetto e archi senza imporre gerarchie. Ne resta un’opera che non va verso un luogo né verso uno stile, ma «verso l’altrove», ricordandoci che le vere ibridazioni non nascono dalla moda, ma da fame di senso e di stupore.

Con la «Suite n. 1» per Orchestra di Riccardo Catria continua il viaggio pluriverso nel jazz umbro. Il trombettista-compositore coniuga tensione astrattista e rigore formale, con una scrittura orchestrale stratificata e contrappuntistica. Non narrazione, ma esercizio poetico sull’autonomia del suono, dichiarazione estetica che rinuncia al descrittivo e affida all’ascolto libertà semantica. Il titolo essenziale sottolinea un posizionamento ideologico, non privazione, ma apertura a molteplici letture. L’opera s’inserisce nella linea della musica assoluta, evocando Hanslick, Brahms e, nel versante jazzistico, Kenny Wheeler. Otto movimenti distinti per timbro e ritmo, ma coerenti in una macrostruttura che privilegia dialogo fra sezioni e tensione modale. Determinante l’esecuzione della Perugia Big Band con ospiti come Jeff Ballard, Gabriele Evangelista, Marta Raviglia e Massimo Morganti, con interventi che non spezzano ma ampliano la tessitura. La tromba di Catria si staglia come voce lirica e riflessiva. Rilevante l’uso della voce umana non come portatrice di testo, bensì come timbro puro, negando riferimenti semantici e rafforzando la natura pluritematica del progetto. L’armonia si emancipa dai modelli tonali, privilegiando scale eterogenee e ritmi variabili, dalle pulsazioni swinganti a increspature afro. Anche la dimensione visiva partecipa al discorso. La copertina di Meri Tancredi, con onde di luce su sfondo nero, non descrive ma allude. Il nero, simbolo di mistero e infinito in Occidente, richiama altrove acqua, saggezza e principio Yin: immagine, come musica, aperta e plurivoca. La sequenza dei movimenti non costruisce trama narrativa, ma percorso di emersione sonora. Il Movement I introduce con opulenza timbrica e tromba di richiamo. Il II rarefatto mette al centro la voce come linea astratta; il III intensifica la ritualità attraverso metriche composite e contrabbasso profondo; il IV recupera lirismo trasparente con fiati e groove in equilibrio. Il V, più esteso, costituisce l’epicentro, con interplay plastico, improvvisazione strutturata e reminiscenze wheeleriane fuse in una grammatica personale. Nel VI emerge la pulsazione afro-ritmica, destabilizzante e percussiva. Il VII esibisce cromatismo contrappuntistico, con la batteria di Ballard come architettura ritmica. L’VIII conclude dissolvendosi, mentre la Suite non chiude ma si ritrae. Ne risulta un’opera che afferma una visione estetica compiuta, fatta di coerenza senza linearità e intensità senza compiacimento. La musica diventa esercizio speculativo, l’ascolto esperienza fenomenologica. La «Suite n. 1» non cerca consenso, ma complicità del pensiero, quasi un manifesto poetico di libertà sonora.

L’ambientazione diventa più intima con «Inner Pictures» di Manuel Magrini, pubblicato da Encore Music, che segna un ritorno significativo per il compositore umbro, il quale sceglie la dimensione del piano solo arricchita da preziose collaborazioni. Non un soliloquio, ma un dialogo vivo con tre ospiti di rilievo, accolti nel suo spazio armonico con naturalezza e misura. Magrini, diplomato al Conservatorio Morlacchi di Perugia, ha già collezionato premi e riconoscimenti, distinguendosi per un percorso che unisce rigore tecnico e spiccata sensibilità jazzistica. In questo album amplia la propria architettura melodico-armonica con interazioni che conferiscono spessore e intensità. L’opener «Tempest On The Lake» introduce subito il mondo impressionistico del pianista, con una tempesta che vista dall’interno appare insormontabile, ma osservata dal di fuori diventa solo una cornice emotiva. Con «Promenade» entra in scena Gabriele Mirabassi: il suo clarinetto annoda al pianoforte un lirismo sospeso tra nostalgia e slancio narrativo, in un abbraccio sonoro che fonde tradizione e futuro. «La Rosa dei Trenta» è invece metafora di maturità, in cui superata la soglia dei trent’anni, si acquisisce la consapevolezza dei venti da cavalcare e di quelli da evitare. In «Gentle Warrior», il bandoneón di Federico Gili colora l’orizzonte timbrico con una malinconia ardente, incastonandosi nelle armonie di Magrini e restituendo il calore della tradizione popolare filtrata dal linguaggio jazzistico. «Il Castello del Graal – Piano Etude» s’ispira a un archetipo junghiano, dove per raggiungere la luce bisogna attraversare le oscurità dell’inconscio. Ne risulta uno studio virtuosistico che unisce tensione e resilienza. Fra le tracce più coinvolgenti, «Can She Excuse My Wrongs» con la voce di Cristina Zavallotti: un episodio teatrale, quasi brechtiano, in cui la vocalità operistica si fonde con il pianoforte, trasformando la composizione in esperienza scenica intensa e raffinata. L’album si rivela un intreccio di introspezione e dialogo, fusione di stili e influenze che trovano coerenza in una narrazione sonora personale. «Inner Pictures» non è solo conferma di talento, ma affermazione di originalità sulla scena jazzistica contemporanea. Un mosaico di emozioni e prospettive, da ascoltare come viaggio condiviso con l’autore.

Il pellegrinaggio sonoro nella terra dei «santi» si chiude con Lorenzo Bisogno, the last but not the least, musicista dal talento cristallino, nutrito da un background americano che gli conferisce una visione ampia del linguaggio jazzistico: saldo custode della tradizione, ma al contempo aperto a incursioni nell’hic et nunc. Chi lo ha ascoltato dal vivo, persino in contesti informali come le jam session, ha potuto coglierne il dominio tecnico, la sicurezza idiomatica e la capacità di plasmare lo strumento con naturalezza. Dopo il debutto con «Open Spaces» e il relativo tour in Italia e all’estero, Bisogno conferma la sua crescita con «It’s A New Day» (EMME Record), opera che s’innesta nel solco precedente ma si arricchisce di nuove sfumature. Il disco nasce dal quartetto con Manuel Magrini (piano), Pietro Paris (contrabbasso) e Lorenzo Brilli (batteria), ampliato dall’ingresso della tromba di Cosimo Boni, la cui interazione con il sax di Bisogno appare fluida, paritaria e talora dialettica, generando una tessitura sonora che richiama l’eredità del secondo quintetto davisiano senza mai indulgere in manierismi: il repertorio, quasi interamente originale, è convincente e fresco di scrittura. La title-track, affidata al pianoforte in apertura, si sviluppa come manifesto dell’album, con una miscela di suggestioni metropolitane, echi soul e venature funk, sostenuta da un groove lucido ed energico. «Embers» di Pietro Paris, invece, si colloca in un alveo post-bop intriso di soul jazz, dove il piano orienta il dialogo tra fiati con efficacia calibrata. Con «It’s An Old Day», Bisogno si misura con la forma ballad, proponendo un lirismo intenso su cui sax e tromba liberano invenzioni di rara sensibilità. «Red Circles» amplifica il contrappunto fra i due strumenti a fiato, mentre «Trying To Remember» concede maggiore libertà improvvisativa grazie a un impianto armonico ampio e poco vincolante. L’apporto di Boni risulta ulteriormente valorizzato in «Know Thing», di sua firma, tra atmosfere sospese e memorie delle dilatazioni shorteriane. «Día De Los Muertos» di Magrini imprime invece una drammaticità quasi teatrale, con i fiati che si innalzano su un piano dalle tinte oscure. I due intermezzi improvvisativi «Mayabe Not» e «That Was For Albert» fungono da preludio a «Grecò», scritta da Paris, una ballata crepuscolare, intrisa di malinconia e di un lirismo contrabbassistico che diviene protagonista. Con «It’s A New Day» Lorenzo Bisogno si afferma come voce autorevole del nuovo jazz italiano, un artista capace di conciliare rigore formale e libertà inventiva, radici afroamericane e respiro contemporaneo, consegnando un lavoro coeso e ispirato che conferma la sua maturità e la solidità del line-up che lo sostiene. Nella regione dei santi e della santa inquisizione, il jazz c’è, talvolta in abbondanza e si muove con profitto oltre l’impenetrabile cortina di ferro dell’impero di Umbria Jazz. Et sic transeat gloria mundi!

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2 thoughts on “Umbria, terra di Santi e di Jazzisti

  1. Come sempre puntuale ed esaustivo, l’unico che riesce a dare il giusto risalto ai nostri musicisti purtroppo trascurati dalla “impenetrabile cortina di ferro”.

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