«Black Bird» di Federico Bonifazi: un progetto di sintesi stilistica e riflessione formale (Dodicilune, 2025)

0
Bonifazi_Ante

Il pianoforte diventa nave, strumento di navigazione tra armonie che non si chiudono, ma si aprono a nuove possibilità. Il titolo stesso, «Black Bird», richiama un volo che non ha direzione obbligata, ma segue correnti interiori. Il risultato è un concept legato all’hic et nunc del jazz contemporaneo che non si consuma nell’ascolto, ma tende a sedimentarsi nel tempo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il nuovo lavoro discografico di Federico Bonifazi, «Black Bird», prodotto da Dodicilune, si colloca nel solco della tradizione pianistica jazzistica contemporanea, proponendo un progetto solistico che non si limita alla mera esecuzione, ma si attesta come esercizio di sintesi e di riflessione formale. L’album si articola attorno ad una selezione di componimenti che, pur provenendo da ambiti stilistici differenti – jazz, bossa nova, repertorio classico – convergono verso un’idea di suono unitario, frutto di una ricerca timbrica ed armonica che s’ispira ai modelli di Keith Jarrett, Bill Evans e Brad Mehldau.

La scelta di includere composizioni originali accanto a brani iconici non risponde ad una logica di repertorio, ma ad un intento curatoriale. Bonifazi non si limita a reinterpretare, ma interviene con discrezione sulla struttura armonica e ritmica, preservando l’identità melodica dei brani, innescando processi di trasformazione che spaziano dal blues al romanticismo europeo, passando per il linguaggio dello stride piano. L’improvvisazione non è mai decorativa, ma funzionale all’implementazione di un discorso musicale coerente. Il pianismo di Bonifazi si distingue per una scrittura che coniuga fluidità e controllo, con una gestione del tempo che evita ogni rigidità metronomica. La sua tecnica, mai esibita, si mette al servizio di una narrazione musicale che privilegia la densità espressiva alla brillantezza virtuosistica. Nei due dei brani originali, si percepisce una tensione compositiva che richiama le architetture armoniche di Mehldau, ma con una sensibilità melodica più cantabile, più prossima alla tradizione lirica italiana. La carriera internazionale di Bonifazi, testimoniata dalle collaborazioni con musicisti del calibro di Jimmy Cobb, Eric Alexander, Philip Harper e Furio di Castri, ha contribuito a consolidare un linguaggio che non si rifugia nella citazione, ma si nutre di esperienze vissute, di incontri e di contaminazioni. Le sue precedenti produzioni per l’etichetta Steeplechase – You’ll See, 74th Street, Autumn Colors, Last Minute – delineano un percorso coerente, dove la scrittura si affina e la voce autoriale si definisce. In Black Bird, il pianoforte diventa spazio di meditazione, luogo di attraversamento stilistico, laboratorio di sintesi. Il titolo, che richiama una pietra miliare della discografia dei Beatles, non è un omaggio nostalgico, ma una dichiarazione di poetica che nasce dal desiderio di volare sopra le categorie, di cercare un suono che non appartenga ad un genere, ma a una visione.

In «How Insensitive» (A. C. Jobim), la rilettura di Bonifazi conserva l’essenza melodica del brano, ma ne riformula il contesto armonico con una sobrietà che evita ogni deriva sentimentale. Il pianismo si muove con misura, lasciando che la progressione tonale suggerisca una malinconia trattenuta. L’uso delle pause e delle sospensioni ritmiche richiama la scuola di Evans, ma con un tocco più asciutto. «Intermezzo» (F. Bonifazi) affiora come una composizione originale che si distingue per la costruzione modulare del tema. L’incipit, quasi minimalista, si sviluppa attraverso variazioni che alternano tensione e rilascio. L’armonia si articola su gradi secondari, con modulazioni interne che non cercano l’effetto, ma la coerenza narrativa. Il fraseggio appare netto e privo di orpelli. «Oh Yes Baby» (F. Bonifazi) rappresenta un componimento dal carattere più assertivo, dotato di un impianto ritmico che richiama il blues urbano. La struttura accordale, pur semplice, viene arricchita da cromatismi e da un uso calibrato delle dissonanze. Il tema, sia pur diretto, ma risulta mai banale, mentre l’improvvisazione si sviluppa con una logica interna che evita ogni dispersione. In «29 Palms» (B. Mehldau), Bonifazi affronta il flusso tematico con rispetto formale, ma introduce una lettura personale che ne accentua la componente lirica. L’armonia, complessa e stratificata, viene trattata con chiarezza, senza mai perdere il senso della direzione. Il pianismo diventa narrativo, con un uso del pedale che amplifica la profondità timbrica. «My Romance» (R. Rodgers), dalla melodia, universalmente riconoscibile, viene mantenuta intatta, ma il trattamento accordale ne rivela nuove sfumature. Il pianista lavora per sottrazione, evitando ogni enfasi. Il tempo è flessibile, il tocco leggero, mentre l’intera esecuzione sancisce un esercizio di eleganza formale. «You Don’t Be Sad» (F. Bonifazi) si rapprende come una composizione che si distingue per la costruzione tematica in forma di dialogo. L’armonia si sviluppa su intervalli ampi, con una progressione che suggerisce un moto ascendente. Il tema, pur semplice, viene arricchito da variazioni ritmiche che ne amplificano la forza espressiva. Di «Dat Dere» (B. Timmons), Bonifazi ne offre una versione asciutta, ritmicamente incisiva. L’impianto armonico viene semplificato, ma non impoverito. Il fraseggio risulta serrato, con un uso sapiente delle sincopi. L’intera esecuzione si muove con una logica interna che richiama il jazz modale, ma con una sensibilità contemporanea. «Black Bird» (Lennon-McCartney), il brano che dà il titolo all’album, viene trattato con rispetto melodico e libertà armonica. Bonifazi conserva l’identità del tema, ma ne riformula il contesto ritmico, introducendo elementi di stride e di romanticismo europeo. L’improvvisazione, tutt’altro che ornamentale, si afferma quale parte integrante della struttura.

Attraverso una una lettura in controluce si potrebbe dire che l’ascolto di «Black Bird» di Federico Bonifazi si delinea come un immersione narrativo, dove ogni brano rappresenta un capitolo autonomo ma interdipendente, legato da una tensione formale che non si risolve mai in maniera definitiva. Il progetto, pur nella sua dimensione solistica, non è monologico, piuttosto si agglutina come un dialogo interno, fatto di riflessione, esercizio di memoria e di reinvenzione. A guidare questa lettura, si potrebbe, per tanto, evocare Pedro Páramo di Juan Rulfo, romanzo breve ma stratificato, dove le voci si sovrappongono, si rincorrono e si dissolvono. Come nel testo di Rulfo, anche qui il tempo non risulta lineare, ma circolare; la voce del pianoforte non è unica, ma molteplice; la melodia non appare più descrittiva che evocativa. Bonifazi allestisce un paesaggio sonoro che non si limita a rappresentare, ma interroga, suggerisce e lascia sospeso. La scelta dei brani, la loro disposizione, il trattamento armonico e ritmico, concorre a delineare una poetica dell’intervallo, ossia tutto ciò che accade tra le note, tra le frasi e tra le citazioni. Il pianismo non cerca di imporsi, ma di insinuarsi, come una voce che arriva da lontano, come un’eco che non pretende risposta.

Non è di certo disdicevole aggiungere che il progetto solistico di Federico Bonifazi non si limiti a sondare il repertorio jazzistico e classico, bensì si dipana come un percorso di consapevolezza, una mappa sonora che richiama le traiettorie di due figure letterarie emblematiche: Stephen Dedalus e Ishmael. Il primo, protagonista ed alter ego joyciano, incarna la tensione verso l’autonomia espressiva, la ricerca di una lingua personale che possa contenere il mondo senza tradirlo. Il secondo, narratore di Moby Dick di Herman Melville, si palesa quale testimone di un viaggio che non è solo geografico, ma esistenziale, dove il mare diventa specchio dell’inconscio. Come Dedalus, Bonifazi costruisce il proprio linguaggio attraverso la sottrazione, il dettaglio e la variazione. Ogni momento dell’album diventa una tappa di questo processo, ossia non una fuga, ma un ritorno consapevole alla forma, alla struttura, alla melodia, in cui l’improvvisazione non si appalesa mai come un elemento di rottura, ma estensione, evitando il disordine e promuovendo la mobilità costruttiva. Alla medesima stregua di Ishmael, il pianista dribbla tra repertori diversi, con lo sguardo di chi non cerca il centro, ma accetta la deriva come metodo. Il pianoforte diventa nave, strumento di navigazione tra armonie che non si chiudono, ma si aprono a nuove possibilità. Il titolo stesso, «Black Bird», richiama un volo che non ha direzione obbligata, ma segue correnti interiori. Il risultato è un concept legato all’hic et nunc del jazz contemporaneo che non si consuma nell’ascolto, ma tende a sedimentarsi nel tempo.

0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *