Scompare a 96 anni Sheila Jordan: l’arte della verità nel canto. Ritratto di una voce irriducibile

Sheila Jordan
L’approccio interpretativo, mai ridotto a sterile virtuosismo, era permeato da un’urgenza espressiva che rifletteva la sua biografia segnata da privazioni, abusi ed ostacoli personali, fra cui le dipendenze da alcool e cocaina, dalle quali riuscì a riscattarsi attraverso un rigoroso percorso di riabilitazione.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Sheila Jordan, figura liminale eppure imprescindibile del vocalismo jazzistico del Novecento, incarnò un paradigma di integrità artistica refrattaria alle seduzioni dell’industria discografica. Pur non avendo mai conseguito la fama planetaria di una Billie Holiday o di una Sarah Vaughan, la sua statura interpretativa e l’originalità del suo linguaggio improvvisativo la collocano, senza esitazione, nel pantheon delle voci più significative della storia del jazz. Il riconoscimento ufficiale giunse tardi, quando nel 2012, a ottantaquattro anni, le venne conferito il titolo di National Endowment for the Arts Jazz Master, ma la sua influenza, tanto sugli addetti ai lavori quanto sugli ascoltatori più attenti, fu costante e profonda sino agli ultimi anni di vita. Dotata di un’intonazione cristallina e di un gusto sopraffino, Jordan concepiva l’atto performativo come un dialogo privilegiato con i musicisti, piuttosto che come una concessione alle platee generaliste. La sua vocalità, nutrita di un vibrato eloquente e di un fraseggio elastico, si distingueva per la capacità di manipolare il tempo con libertà quasi strumentale, allungando le linee melodiche e giocando con i silenzi come fossero parte integrante della tessitura armonica. L’approccio interpretativo, mai ridotto a sterile virtuosismo, era permeato da un’urgenza espressiva che rifletteva la sua biografia segnata da privazioni, abusi ed ostacoli personali, fra cui le dipendenze da alcool e cocaina, dalle quali riuscì a riscattarsi attraverso un rigoroso percorso di riabilitazione.
Nata Sheila Jeanette Dawson nel 1928 a Detroit, in un contesto operaio e familiare instabile, venne cresciuta dai nonni materni in un ambiente segnato da miseria e discriminazioni etniche. L’epifania musicale si produsse in adolescenza, quando l’ascolto folgorante di «Now’s the Time» di Charlie Parker le rivelò la grammatica bebop come destino irrevocabile. Dotata di un orecchio prodigioso, era in grado di assimilare e cantare le complesse linee solistiche di Parker, al punto da meritarsi da lui l’appellativo di «million-dollar ears». Trasferitasi a New York nei primi anni Cinquanta, alternò la vita diurna da segretaria presso agenzie pubblicitarie al fervore notturno dei jam session nei club di Greenwich Village, studiando con il pianista e teorico Lennie Tristano e stringendo legami con figure centrali dell’avanguardia jazz. Il matrimonio con il pianista Duke Jordan, segnato dall’assenza e dalla tossicodipendenza di quest’ultimo, si concluse con il divorzio, lasciandola sola a crescere la figlia Tracey e costringendola a ridurre drasticamente l’attività concertistica. L’esordio discografico come leader avvenne tardivamente nel 1963 con «Portrait Of Sheila», pubblicato dalla Blue Note, la quale fino ad allora non aveva mai messo sotto contratto una cantante. Accolto da recensioni entusiaste, il disco rimase per oltre un decennio un episodio isolato nella sua discografia, a causa di scarsa fiducia in sé stessa e priorità familiari. Solo a metà anni Settanta tornò con continuità in sala d’incisione, dando vita ad un corpus di oltre venti album, fra cui lavori di rilievo come «Confirmation» (1975) e «Portrait Now» (2025), nonché numerose collaborazioni con strumentisti di primo piano come Steve Kuhn e Harvie S. Parallelamente alla carriera concertistica, Jordan intraprese un’intensa attività didattica, inaugurata quasi per caso con un intervento al City College di New York nel 1977, che contribuì alla nascita di uno dei primi programmi accademici di jazz vocale negli Stati Uniti. La sua azione pedagogica, improntata a trasmettere l’amore incondizionato per il linguaggio jazzistico, formò generazioni di interpreti, lasciando un’eredità non solo estetica ma etica, imperniata sull’idea che il canto sia un atto di autenticità e dedizione totale.
La parabola artistica di Sheila Jordan si offre dunque come testimonianza di come la marginalità mediatica possa convivere con una centralità culturale. Il suo percorso, immune da compromessi e alimentato da una coerenza rara, continua a rappresentare un modello per chi concepisce il jazz non come un genere commerciale, ma come una forma d’arte viva, libera e profondamente umana. Collocata all’interno della costellazione vocale del bebop, Sheila rivela un’impostazione radicalmente diversa rispetto alle più celebrate interpreti che transitarono, con maggiore o minore convinzione, nell’orbita parkeriana. Se Ella Fitzgerald aveva assorbito il linguaggio bebop integrandolo nel proprio scat solare e centrato sull’efficacia comunicativa, e Sarah Vaughan ne aveva trasposto la complessità armonica in un fraseggio sontuoso e timbricamente opulento, Jordan privilegiò una declinazione più austera, quasi cameristica, di quel medesimo vocabolario. Il suo approccio si fondava su una relazione simbiotica con la linea di basso, elemento che spesso fungeva da unico supporto armonico, permettendole una libertà metrica estrema e una gestione del silenzio come parte integrante della narrazione sonora. In questo senso, la sua prassi si avvicina più alla concezione strumentale di un Lee Konitz o di un Warne Marsh che non alla tradizione vocale afroamericana legata al blues feeling come radice primaria. L’influenza diretta di Lennie Tristano, con il quale affinò il controllo del tempo e la padronanza dell’improvvisazione melodica, è evidente nella scelta di evitare abbellimenti superflui, prediligendo invece linee pure, cesellate e cariche di sottintesi ritmici. A differenza di Betty Carter – altra grande «architetta» dell’improvvisazione vocale – Jordan non puntava sull’espansione virtuosistica della gamma dinamica o sull’uso di metric modulations estreme; preferiva invece uno scavo melodico che trasformava lo standard in un racconto intimo, quasi confessionale, in cui ogni nota sembrava respirare la memoria personale. In ciò, la sua arte appare affine alla poetica minimalista di interpreti come Jeanne Lee, benché priva dell’elemento dichiaratamente sperimentale e avanguardistico tipico di quest’ultima. Questa collocazione laterale rispetto al canone bebop le permise di preservare un’identità singolare. Ella non cercava di emulare lo strumentista di riferimento, ma di assimilarne la logica improvvisativa e riformularla in un codice vocale inedito, nel quale il timbro denso e il vibrato controllato convivevano con un fraseggio asimmetrico, scandito da pause strategiche e improvvisi slanci lirici. Ne scaturì un linguaggio che, pur profondamente radicato nel bebop, ne trascendeva le convenzioni formali, avvicinandosi a una sorta di jazz parlato cantabile, in cui la parola e il suono si compenetravano fino a divenire indistinguibili.
Tra le tappe discografiche più emblematiche della sua carriera, «Portrait Of Sheila» (Blue Note, 1963) – come già accennato – occupa un posto centrale non solo per ragioni cronologiche, ma per la portata storica del suo apparire: prima cantante mai registrata dall’etichetta di Alfred Lion, Jordan vi delineò un’estetica vocale asciutta ed intimista, capace di filtrare il repertorio degli standard, da «Falling In Love With Love» a «Baltimore Oriole», attraverso un fraseggio limpido e sospeso, sostenuto da arrangiamenti minimali che lasciavano emergere ogni sfumatura timbrica. Più di un decennio dopo, «Confirmation» (East Wind, 1975) segnò il ritorno ad un’attività discografica regolare, offrendo una lettura del bebop rarefatta e raffinata, nella quale il brano eponimo di Charlie Parker diventava terreno per un virtuosismo misurato ed intriso di lirismo. Questo disco sancì anche la sua predilezione per il formato ridotto, privilegiando interazioni ravvicinate con il contrabbasso e il pianoforte, piuttosto che con l’orchestra o grandi ensemble. In «The Outer View» (1962), concept a firma di George Russell che la vede ospite, Jordan incise una delle interpretazioni più singolari di tutta la sua carriera: «You Are My Sunshine», ridotta a un’esposizione quasi a cappella, dove il vuoto sonoro e la tensione sospesa diventavano veicoli espressivi di sorprendente modernità. La scelta di presentare un brano di radice popolare in una veste così spogliata anticipava soluzioni che negli anni successivi sarebbero state adottate da vocalist di area sperimentale. Con «Lost And Found» (Muse, 1990), Jordan affrontò un repertorio più variegato, alternando standards a composizioni originali, e confermando la sua attitudine narrativa: ogni canzone appariva non come un esercizio stilistico, ma come un racconto in prima persona, intessuto di inflessioni ritmiche sottili e improvvise impennate melodiche. La collaborazione con il contrabbassista Harvie S trovò qui una delle sue forme più coese, rivelando una rara simbiosi timbrica. Infine, «Sheila Jordan Live At Mezzrow» (2019) rappresenta una summa del suo percorso artistico, registrata a novantadue anni senza alcuna perdita di freschezza creativa. Il contesto dal vivo, intimo, raccolto, quasi domestico, le consentì di distillare l’essenza della propria arte, grazie ad un rapporto diretto con il pubblico, un’improvvisazione plasmata dall’interazione istantanea ed una consapevolezza totale dello spazio sonoro. Brani come «Autumn In New York» vi assumono una dimensione contemplativa e, al contempo, vibrante di vitalità. In queste cinque opere si condensa la parabola artistica di Jordan: dall’audacia giovanile alla maturità meditativa, dal minimalismo formale alla complessità emotiva, restituendo il ritratto di un’artista che ha saputo fare del jazz non solo un linguaggio, ma una forma di autobiografia musicale.
