Cronache sentimentali di un festival sui generis: «Il Buscadero Day»

In estate, lo sappiamo, si moltiplicano e affastellano i festival musicali, moltissimi di ben maggiore interesse per i nostri lettori, e molti di questi, come ogni anno, offrono il fianco a critiche e polemiche anche feroci circa la loro variegata programmazione. Ma credo che la storia di Buscadero e di Buscadero Day meriti un suo posto anche tra queste pagine.
// di Valentina Voto //
«Sono cresciuta a pane e Buscadero». Questo ho detto a un imbarazzato Guido Giazzi – forse a mo’ di scuse per l’abbordaggio emozionato, ma certo soprattutto a mo’ di spiegazione – dopo avergli chiesto di autografare la copia di mio padre del numero speciale di Buscadero, quello che, uscito questo luglio, celebra le vite intrecciate di Paolo Carù e della Rivista, arrivata a quarantacinque anni di storia. I critici si schermiscono sempre un po’, pur nella contentezza sincera, quando fai loro una richiesta così naturale, come quella di apporre una loro firma manu scripta su un giornale che delle loro firme stampate pullula e vive. Così, sulle voci incantate di Marilena Anzini e delle sue Ciwicé che si levavano dal palco Feel Rouge, si è aperto ed è cominciato il mio secondo Buscadero Day.
In estate, lo sappiamo, si moltiplicano e affastellano i festival musicali, moltissimi di ben maggiore interesse per i nostri lettori, e molti di questi, come ogni anno, offrono il fianco a critiche e polemiche anche feroci circa la loro variegata programmazione. Ma credo che la storia di Buscadero e di Buscadero Day meriti un suo posto anche tra queste pagine. Tenutosi per la prima volta a Pusiano nel 2008, lo scorso 20 luglio il Buscadero Day ha animato, come fa da diversi anni, il Parco Berrini di Ternate (VA), sulle rive del lago di Comabbio. Si tratta di una «maratona di musica» di un’intera giornata (ed è vero, l’indigestione di prelibatezze musicali se non si sta attenti è dietro l’angolo) che viene organizzata da qualche tempo insieme all’Associazione Wood in Stock, fondata da Luca Guenna e impegnata nella lotta contro il Parkinson, nella persona in particolare del per fortuna onnipresente e sempre pronto Alessandro Gusmini. Ora viene il bello: la manifestazione è ad ingresso libero (con offerta consapevole), ed è l’unica in Italia legata a un giornale che però curiosamente non nasce dal giornale stesso, bensì gli viene dedicata da un gruppo di appassionati lettori, capeggiati fin dall’inizio dall’infaticabile Andrea Parodi, cui si deve l’idea (e che quest’anno ha dovuto fronteggiare non solo il tempo prima bizzoso poi decisamente avverso, ma soprattutto l’aereo mancato dell’headliner Brian Mitchell, grande assente della giornata).
Ciò che dicevo all’inizio è vero. Molti di coloro che leggeranno queste pagine potrebbero aver sentito levarsi come prima voce di critico quella di Arrigo Polillo, tonitruante e tranchant nella sua distinta eleganza, io quella burbera di Paolo Carù, coi suoi giudizi (in)sindacabili, filtrati dalle parole sempre un po’ trasformanti, ma sempre oltre modo entusiaste (anche quando in disaccordo), di mio padre. C’è chi è cresciuto con il mito di Musica Jazz, io devo confessare di essere cresciuta con il mito di Eagles, Poco, Jackson Browne, Crosby, Stills & Nash e compagni, quindi di Buscadero e di Paolo Carù, con tutta la sua Redazione. Carù, il Prometeo dell’Americana in Italia, lo spacciatore di rarità viniliche, il profetico officiante di una «Mecca» – così era noto il suo negozio di dischi di Gallarate – meta sognata e fantastica di veri e propri pellegrinaggi di appassionati, figura a metà tra la realtà e il mito, che ha forse rappresentato per l’appassionato del rock venato di country e di folk in Italia ciò che è stato per il jazzofilo nostrano il critico e organizzatore Arrigo Polillo. Sentir parlare ieri delle gesta sue e del sodale Carlo Carlini mi ha ricordato alcune delle pagine migliori del «nostro» Stasera Jazz – certo, mutatis mutandis: penso all’attività pionieristica e di riferimento in Italia nei rispettivi generi musicali; lo strettissimo contatto e il rapporto, anche familiare, coi musicisti; i giudizi che potevano calare come mannaie o pesare come macigni sui musicisti, comunque sempre pronunciati con l’autorevolezza di una voce sapiente, anche se passibili di abbagli e sonori sbagli (inutile ricordare a tutti voi che leggete il primo giudizio espresso da Polillo su Coltrane…).
La musica ha fatto sì da padrona al Buscadero Day. E graditissima scoperta del tardo e uggioso pomeriggio musicale è stato per me Markus Eaton (insieme alla sua collega di palco, Giulia Millanta, cantautrice con verve di stand-up comedian, qualità che nei live di certo non guasta), il quale per certi versi mi ha ricordato il David Ford del Buscadero Day 2024. Già noto come apprezzato collaboratore di nientemeno che David Crosby, Eaton ha rivelato con leggerezza e un pizzico di autoironia la sua grande perizia strumentale, che ha unito a una bella comunicativa, nell’italiano tanto dolce quanto scalcinato e, soprattutto, in una voce cantante limpidissima ed espressiva. Di pregio i pezzi originali del duo, che ha chiuso i concerti nel palco Indoor (efficacissime le progressioni armoniche dei brani della Millanta), tanto che la cover di Plant e Krauss con cui hanno concluso il loro set, forse un po’ di maniera, non ha retto il confronto con i brani precedenti. Noi scapperemo come pulcini bagnati colti dall’ennesimo acquazzone, non riuscendo ad andare oltre la Session Americana che aveva aperto le danze sul palco principale (su di loro riprendo le parole straordinariamente felici del Rolling Stones: «una rock band in una tazza di tè o un gruppo folk in una bottiglia di whiskey») e dopo si sarebbero avvicendati i Luf, gli Uncle Lucius alla loro ultima data italiana e Massimo Priviero – che avevamo già apprezzato con il bravo Renato Tammi in un piccolo fuori programma nel pomeriggio: un insolito omaggio a Springsteen che è stato degna chiusa dei talk dedicati al cantautore e chitarrista del New Jersey –; probabilmente sarebbero riusciti a farci dimenticare «il grande assente» Brian Mitchell.
Il cuore dell’evento però non è stata la grand buffe di musica, ma l’incontro con la Redazione, sul palco Indoor, purtroppo programmato all’ora di pranzo, davanti alle tavolate sommerse dal ciacolare di gente affamata e tutt’altro che attenta. Francesco Caltagirone, Andrea Trevaini, Guido Giazzi (questi ultimi noti anche ai nostri lettori grazie alle interviste di Guido Michelone), Mauro Zambellini, Marco Denti, Helga Franzetti, tutti seduti e in fila, a condividere con chi volesse ascoltare il passato, il futuro e l’anno appena trascorso di Buscadero. Il ricordo che avevo di loro, seduti sullo stesso palco nel luglio dello scorso anno, provati per la scomparsa del loro fondatore e Direttore e con i volti tesi per l’incerto futuro della Rivista, non rendeva loro la giustizia che meritano. L’atmosfera questa volta era ben più rilassata e pronta allo scherzo, intrisa della determinazione a continuare ad esistere e della fiducia di poterlo fare (un ringraziamento in questo senso lo ha meritato dal palco anche la Sprea Editori).
Carù resta, come fulcro della Redazione e della Rivista, come suo primo motore immobile, ma soprattutto restano loro, nella gratitudine manifestata più volte verso i lettori di Buscadero (quanto davvero affezionati!) e nella passione e competenza di giornalisti musicali ancora innamorati della musica di cui scrivono (perché qui si va ben oltre la missione o la militanza) e, soprattutto, ancora innamorati delle pagine su cui scrivono. Figli di un secolo breve a tal punto che le sue tracce stanno scomparendo davanti ai nostri occhi, tutti i critici (anche Denti e la Franzetti, decisamente più giovani) mi sono parsi ergersi tra gli ultimi baluardi di una critica che non vuole passare invano e tra gli ultimi rappresentanti (non sono per fortuna i soli) di un sacro fuoco che il nuovo millennio non farà, temo, che spegnere, tra ignoranza mai più pudica e sempre più arrogante nel suo farsi norma, bulimia scriteriata nella sua cieca voracità e socialità fasulla. Sono l’immagine della Redazione e questa oretta, trascorsa forse troppo velocemente e immeritatamente un po’ in sordina, l’«unknown drummer» di questo festival – la Anzini mi perdoni la citazione del suo brano – e sono ciò che meglio ricorderò di questa edizione, oltre agli oramai leggendari agnolotti della moglie di Caltagirone, che sul palco si sono scoperti – tra il tenero e il comico – fonti sublimi di ispirazione per i musicisti che hanno avuto la fortuna di condividere con loro il desco. Questa è anche tuttora la lezione della Rivista, insieme alla musica raccontata sempre con dovizia e con passione – sia quella dei «grandi vecchi», mai osannati a prescindere, sia quella delle primizie, scoperte, coltivate sulle sue pagine e portate in Italia –, e alla più volte sottolineata e mai abbandonata indipendenza di pensiero e di linea editoriale, nonostante le difficoltà in cui versa un giornale musicale cartaceo e che sono a tutti ben note (valore, questo dell’indipendenza, che non dubito sarà molto apprezzato anche dai lettori di Doppio Jazz, ben abituati al pensiero libero e mai domo, per esempio, dalla penna sempre affilata e guizzante di Francesco Verrina). La lezione di una Rivista che a un certo punto della sua storia ha saputo aprirsi anche alle «altre» musiche, alla «nostra musica», il jazz, in primis (e Guido Michelone potrebbe raccontarci molto in merito…).
Per questa e per tante ragioni auguro a tutti loro, sperando che vogliate unirvi a me: lunga vita, Buscadero!
