«Everlasting Suite» di Jaromir Rusnak , geografie interiori di un suono transnazionale

L’album, nel suo sviluppo continuo e coerente, rivela un impianto progressivo di rara finezza, dove le singole sezioni non solo dialogano fra loro, ma si completano in un equilibrio dinamico tra forma e contenuto, tra disciplina e spontaneità, tra introspezione e apertura. L’ascolto sancisce non un’analisi frammentata di episodi, ma un’immersione prolungata in un universo coerente, mobile e profondamente umano.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Laddove il lirismo malinconico del jazz polacco – forgiato da una lunga tradizione di ricchezza espressiva e rigore formale – sposa la fluidità narrativa e la sensibilità cangiante della scena italiana, prende forma un linguaggio che non cerca sintesi, ma dialogo. «Everlasting Suite» di Jaromir Rusnak nasce proprio da questo attrito fertile, da una tensione fra appartenenza ed apertura, in cui l’identità non si conserva per opposizione, ma si riscrive attraverso l’ascolto. Il progetto non si limita a riflettere una traiettoria personale, bensì trasforma l’esperienza del disorientamento in una ricerca sonora, intima e collettiva al tempo stesso. Le sue linee melodiche, i chiaroscuri timbrici, la costruzione delle dinamiche, tutto converge verso una rappresentazione che mette in scena il divenire, lo sradicamento, la conquista di una nuova prospettiva. «»
Rusnak, originario di Cracovia e ormai figura ben radicata nel fertile terreno artistico milanese, impianta in questa creazione un costrutto che si muove tra la vulnerabilità dell’isolamento ed il lento, faticoso emergere di una nuova identità. La sua scrittura musicale, sempre misurata ma mai priva di slancio, riesce a trasformare gli ostacoli linguistici e l’iniziale senso di spaesamento in materia poetica, capace di parlare una lingua universale. Il line-up allestito dal compositore è un sestetto di rara intesa che si muove con libertà vigilata tra spazi armonici ampi e dialoghi improvvisativi dal timbro caldo e incisivo: Raffaele Fiengo sassofono contralto, Riccardo Sala sax tenore, Pietro Vitali tromba, Giuseppe Blanco pianoforte, Andrea Lo Palo batteria. Il contrabbasso di Rusnak funge da radice e respiro dell’intero impianto sonoro, mai ridotto a mero fondamento ritmico, bensì elevato a voce narrativa, ora sussurrata, ora dichiarativa. Dall’ariosità elegante dei fiati alla consistenza plastica del pianoforte, fino al drumming attento e cangiante, il contributo degli altri strumentisti non si limita a un’interpretazione scrupolosa, ma si adegua ad un sentire comune che si traduce in una coesione organica, quasi cameristica, in cui ogni gesto sonoro contribuisce alla tessitura dell’insieme. Non vi è residuo di ostentazione o compiacimento formale: ciò che colpisce è la sobria intensità con cui il linguaggio jazzistico che si crogiola con elementi di lirismo slavo ed un intuito contemporaneo per le sfumature timbriche, il tutto esposto con nitore mercuriale ed assertivo. La presenza costante di spazi aperti, pause significative e dinamiche, mai banali, permette al parenchima sonoro di respirare, di evaporare senza ingombrare e di insinuarsi nel fruitore con la discrezione e la forza propria di un progetto che fa dell’autenticità la sua carta vincente.
L’accuratezza con cui ogni sezione si sviluppa, pur mantenendo un andamento fluido e privo di cesure, rivela una maturità compositiva che va ben oltre l’esibizione formale di perizia tecnica. Le strutture musicali, pur rifuggendo l’imbrigliamento in modelli prestabiliti, si articolano con lucidità e profondità, rivelando una capacità rara di coniugare introspezione e visione d’insieme. Non si tratta semplicemente di un lotto di episodi separati, ma di un corpo sonoro unitario, coerente nella sua varietà interna, che trova nel suo dispiegarsi un senso compiuto e necessario. Ogni sezione si presenta non come brano isolato, ma come tappa interconnessa di un itinerario sonoro ed interiore, dove la forma espositiva e quella emotiva coabitano con naturalezza. La «Intro», breve e sospesa, agisce come soglia d’ingresso, un respiro iniziale carico di tensione implicita, nel quale si percepisce la genesi del concetto creativo: qui l’atmosfera diviene rarefatta, il contrabbasso s’insinua con discrezione, mentre i fiati delineano, quasi per allusioni, un paesaggio emotivo ancora in attesa di definirsi. Vi è una sorta di immobilità fluttuante, di presenza trattenuta, che anticipa lo slancio espressivo della sezione successiva. «Part 1 – Beginning» si apre con un senso di scoperta trattenuta, come se l’identità musicale stesse cercando i propri contorni attraverso un lessico in via di formazione. La scrittura ritmica si mantiene composta ma flessibile, mentre le linee melodiche, affidate a sax e tromba, si alternano in un dialogo che evoca la fragilità iniziale del confronto con l’ignoto. L’interazione tra gli strumenti suggerisce la costruzione di un linguaggio comune, faticosamente ma ostinatamente condiviso: un linguaggio nuovo, nato dal disorientamento e dalla ricerca di equilibrio. Il pianoforte, sempre sobrio ma incisivo, offre una trama armonica che sorregge senza invadere, lasciando spazio alla fragilità dell’espressione individuale. Con «Part 2 – Behold», il progetto entra in una fase contemplativa e lucidamente emotiva. Il paesaggio armonico si amplia, le tessiture si fanno più articolate ed i timbri si stratificano con sapienza, lasciando emergere una rinnovata consapevolezza. L’architettura musicale sembra osservare sé stessa ed il proprio divenire, come in uno specchio: le frasi strumentali sgusciano con calibrata eleganza, mantenendo un respiro collettivo che non soffoca la singolarità. I fiati, ora più distesi, costruiscono archi melodici che accennano ad una serena accettazione della complessità, mentre il contrabbasso pulsa con autorevolezza, trasformandosi da osservatore a narratore centrale. La libertà improvvisativa è guidata ma non irretisce, regalando momenti di libera uscita, dove ogni voce ritrova il posto più congeniale nell’insieme.
«Part 3 – Resolution» rappresenta un punto di svolta. Si avverte un senso di compimento emotivo, non inteso come approdo definitivo, ma come conquista momentanea di una direzione e di una postura nuova rispetto al mondo. L’impianto ritmico si fa più deciso, senza perdere raffinatezza, mentre le linee melodiche, pur conservando la loro duttilità, sembrano procedere con passo più sicuro. C’è in questa parte una sottile tensione tra memoria e proiezione, tra ciò che è stato attraversato e ciò che resta da compiere: la musica incarna una trasformazione in atto, un’identità che si sta consolidando pur mantenendo viva la sua apertura al cambiamento. I dialoghi strumentali raggiungono una pienezza espressiva che racchiude il senso dell’intero concept, restituendo all’ascoltatore la sensazione di aver viaggiato dentro un processo umano di comprensione e integrazione. Infine, «Outro» non chiude, ma distende. È il momento della decantazione e della sintesi silenziosa. La struttura si alleggerisce, i timbri si fanno più rarefatti, quasi evanescenti, come se la materia sonora stesse lentamente tornando allo stato originario. Eppure, nulla è come prima: ogni nota reca il segno del passaggio, ogni frase contiene tracce della trasformazione compiuta. La scrittura si fa trasparente ed essenziale, lasciando spazio al silenzio come parte integrante del messaggio.
«Everlasting Suite» non è soltanto un testamento musicale, ma un atto di riconciliazione tra l’io originario e la persona che si diventa oltrepassando il confine di un ipotetico altrove. Jaromir Rusnak consegna al pubblico una confessione sonora, intima ma mai autoreferenziale, una sorta di diario musicale che, pur restando fedele alla propria origine, si apre all’alterità ed accoglie l’influenza degli incontri, dei silenzi condivisi, dei legami costruiti con il tempo e la presenza. L’album assume così la fisionomia di un rito di passaggio, in cui ogni nota afferma una rinascita, ogni pausa custodisce un’inquietudine superata, ogni contrappunto racconta un legame consolidato. L’album, nel suo sviluppo continuo e coerente, rivela un impianto progressivo di rara finezza, dove le singole sezioni non solo dialogano fra loro, ma si completano in un equilibrio dinamico tra forma e contenuto, tra disciplina e spontaneità, fra introspezione ed prospettiva. L’ascolto sancisce non un’analisi frammentata di episodi, ma un’immersione prolungata in un costrutto concettuale coerente, mobile e squisitamente appagante.
