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Il contesto è quello del 1966, un anno in cui il free jazz ha ormai rotto ogni argine, ma non ha ancora perso la sua carica utopica. Coleman non si limita a cavalcare l’onda, ma la plasma. Se Coltrane in quegli stessi mesi esplorava l’estasi e la trascendenza, e Cecil Taylor costruiva architetture sonore di vertiginosa complessità, Coleman sceglieva la via dell’essenzialità, della tensione trattenuta e del frammento che dice più del discorso compiuto.

// di Francesco Cataldo Verrina //

C’è qualcosa di profondamente magnetico nell’ascoltare «Who’s Crazy?», come se si stesse spiando un rituale privato, un atto creativo che non ha mai avuto intenzione di essere spettacolo. Non è solo una colonna sonora, e nemmeno un semplice episodio della discografia di Ornette Coleman: è un documento vivo ed un frammento di tempo in cui la musica si fa carne del pensiero, gesto istintivo ed insieme lucidissimo. Registrata in una sola sessione, mentre il film veniva proiettato su una parete, il concept non accompagna le immagini, ma le interroga, le sfida e le trasfigura.

Coleman, con il suo sax contralto, ma anche con la tromba e il violino – strumenti che suona come se li stesse inventando in quel momento – non cerca mai la bellezza convenzionale. La sua è una ricerca di verità, di autenticità emotiva, di una forma di comunicazione che precede e supera il linguaggio. Accanto a lui, il contrabbassista David Izenzon ed il percussionista Charles Moffett, non sono meri accompagnatori, ma coautori di un discorso collettivo, in cui ogni suono è una scelta etica prima ancora che estetica. Essi evocano l’estetica della harmolodics, concetto cardine del pensiero colemaniano, in cui melodia, armonia e ritmo si emancipano da gerarchie prestabilite per coesistere in uno spazio paritario e dinamico. Il contesto è quello del 1966, un anno in cui il free jazz ha ormai rotto ogni argine, ma non ha ancora perso la sua carica utopica. Coleman non si limita a cavalcare l’onda, ma la plasma. Se Coltrane in quegli stessi mesi esplorava l’estasi e la trascendenza, e Cecil Taylor costruiva architetture sonore di vertiginosa complessità, Coleman sceglieva la via dell’essenzialità, della tensione trattenuta, del frammento che dice più del discorso compiuto. Infatti il progetto si colloca in un momento cruciale della parabola del free jazz, accanto a capolavori come «Ascension» di John Coltrane (1965) o «Unit Structures» di Cecil Taylor (1966). Tuttavia, a differenza dell’approccio spesso catartico e densamente orchestrato di questi lavori, «Who’s Crazy?» si distingue per una scrittura più rarefatta, quasi ascetica, che privilegia la tensione sottile e l’eloquenza del silenzio. In questo senso, «Who’s Crazy?» è parente stretto dei due volumi di «At The Golden Circle», registrati nello stesso periodo a Stoccolma, ma Ornette ne accentua l’aspetto performativo e cinematografico.

Il legame con il Living Theatre non è casuale. Entrambi – Coleman e la compagnia di Julian Beck e Judith Malina – condividono una visione dell’arte come atto politico, come rottura delle convenzioni e come spazio di liberazione. La genesi dell’album è legata all’omonimo film sperimentale diretto da Thomas White, in cui gli attori del Living Theatre, compagnia d’avanguardia nota per la sua vocazione anarchica e performativa, interpretano un gruppo di internati psichiatrici in fuga, intenti a fondare una micro-società utopica in un casolare belga. Il film trova nella musica di Coleman non un commento, ma un’eco, un doppio ed un controcanto; sembrerebbe che i suoni stessi siano fuggiti da un manicomio, trovando rifugio in un linguaggio che non chiede il permesso per esistere. Eppure, non c’è nulla di caotico in questa musica, perfino nei momenti più convulsi, più nervosi. Per contro si avvertono una coerenza interna ed una logica altra, che non hanno bisogno di spartiti per farsi comprendere. Siamo alle prese con la logica dell’ascolto reciproco, della fiducia assoluta tra i musicisti e della libertà che nasce solo dentro una disciplina condivisa. La critica ha riconosciuto all’album un valore che trascende la sua funzione diegetica, sottolineandone l’autonomia estetica e definendo le improvvisazioni «compiute e autosufficienti». Richard Brody, sulle pagine del New Yorker, ne evidenzia la concisione espressiva, mentre John Litweiler vi scorge un momento di trasformazione identitaria per Coleman, che amplia il proprio arsenale timbrico con l’uso sempre più frequente di strumenti «non idiomatici». Il documentario «David, Moffett And Ornette», girato da Dick Fontaine durante le sessioni, costituisce un complemento visivo di inestimabile valore, offrendo uno sguardo ravvicinato sull’atto creativo in fieri. In esso, la musica si rivela non come prodotto finito, ma come processo in divenire e come flusso di coscienza collettivo.

C’è un senso di apertura, quasi di soglia, in «January», motivo d’esordio del primo volume. Il titolo evoca un inizio, ma la musica non si limita a introdurre: irrompe. Coleman, al sax contralto, intesse una linea melodica franta, spezzata, che sembra cercare un centro senza volerlo mai trovare. Izenzon, con l’archetto, disegna un contrappunto inquieto, mentre Moffett alterna colpi secchi e sospensioni, come se stesse scandendo un tempo interiore, non misurabile. È un inizio che non rassicura, ma che invita a disorientarsi. «Sortie Le Coquard», brevissima, è quasi un haiku sonoro. Un minuto e dieci secondi in cui il trio condensa un’intera grammatica dell’imprevisto. Il silenzio risulta tanto eloquente quanto il suono: ogni nota sembra affiorare da un vuoto carico di tensione. Siamo all’esercizio di sottrazione, un gesto che suggerisce più di quanto dichiari. Con «Dans La Neige» si entra in un paesaggio più rarefatto, quasi contemplativo. Il titolo, «nella neve», suggerisce immobilità, ma la musica è tutt’altro che statica. Coleman abbandona il sax per il violino, strumento che suona con un’intensità ruvida, quasi primitiva. Non c’è virtuosismo, ma una sincerità disarmante. Izenzon e Moffett costruiscono un tappeto sonoro che non accompagna, ma dialoga: la neve non incarna l’idea del silenzio, ma fermento sotterraneo. «The Changes» è forse il componimento più strutturato del primo volume, ma anche il più ingannevole. Il titolo allude a mutamenti armonici, ma Coleman li sovverte: non ci sono progressioni canoniche, solo trasformazioni continue e metamorfosi timbriche. Il sax si fa voce, grido, interrogazione. La sezione ritmica non tiene il tempo, ma lo reinventa ad ogni battuta. «Better Get Yourself Another Self» ha un titolo che suona come un aforisma zen, mentre la musica lo riflette. Siamo di fronte ad un costrutto che si moltiplica, si sdoppia e si contraddice. Coleman passa alla tromba, strumento che suona con una fragilità quasi infantile, ma proprio per questo potentissima. Il trio sembra cercare un’identità che sfugge, che si dissolve nel momento stesso in cui si forma. Chiude il primo volume «The Duel, Two Psychic Lovers and Eating Time», una suite in miniatura che alterna momenti di tensione drammatica a passaggi di lirismo straniante. Il «duello» non avviene tra gli strumenti, ma le tra intenzioni. Ogni musicista sembra seguire una traiettoria autonoma, eppure il risultato sembra basato su un’unità instabile, ma affascinante. Il tempo non rappresenta solo una misura musicale, ma diviene un oggetto da manipolare, da «mangiare», come suggerisce il titolo.

Il secondo volume si apre con «The Mis-Used Blues (The Lovers and the Alchemist)», un costrutto sonoro che gioca con le forme del blues per smontarle dall’interno. Coleman riprende il sax, ma lo piega ad un fraseggio sghembo ed irregolare. Il «blues mal usato» è in realtà un blues liberato, che non ha più bisogno di dodici battute per esistere. L’alchimia del titolo si deve forse lo stesso Ornette, che trasforma il piombo della forma in oro espressivo. «The Poet» si sostanzia come un momento di sospensione. Il trio si muove con cautela, come se stesse cercando le parole giuste in una lingua sconosciuta. Il sax mostra una tempra canora, ma è un canto spezzato ed esitante. Il contrabbasso si fa lirico, quasi cantabile, mentre la batteria si riduce ad un sussurro che non afferma, ma suggerisce, che non dichiara, ma evoca. «Wedding Day And Fuzz» è un cortocircuito tra sacro e profano. Il «giorno del matrimonio» viene evocato da un tema quasi cerimoniale, subito sabotato da esplosioni di rumore, da «fuzz» che non esprime solo distorsione sonora, ma anche concettuale. Coleman al violino sembra voler sabotare ogni aspettativa, mentre la sezione ritmica si fa più aggressiva e più fisica. Infine, «Fuzz, Feast, Breakout, European Echoes, Alone and the Arrest» si abbatte sull’ascoltatore come un collage sonoro, una suite frammentaria che riassume l’intero progetto. Ogni sezione rappresenta un mondo a sé: il «banchetto» è un’esplosione di energia, la «fuga» appare frenetica, gli «echi europei» sono forse un omaggio ironico alla musica colta del continente. Il finale, con «l’arresto», non formalizza una chiusura, ma una sospensione. La musica s’interrompe, ma non finisce, al contrario resta nell’aria, come una domanda senza risposta.

«Who’s Crazy?» non rappresenta soltanto una colonna sonora o un semplice episodio discografico, ma un manifesto sonoro di libertà, un laboratorio di possibilità espressive, un’utopia acustica che riflette e amplifica le tensioni culturali, politiche ed estetiche del suo tempo. In un’epoca segnata da rivolte, sperimentazioni e rotture epistemologiche, il lavoro di Coleman si erge come testimonianza di una musica che non si limita a descrivere il mondo, ma lo reinventa. Riascoltata oggi, questa musica conserva intatta la sua forza. Non appare invecchiata, perché non è mai stata alla moda, evidenziandosi come un oggetto anacronistico, nel senso più nobile del termine, apparentemente fuori dal tempo, e proprio per questo capace di parlarci ancora. Non importa se il film sia stato dimenticato per decenni, se la sua qualità cinematografica sia discutibile: ciò che resta è il suono. E quel suono rimane ancora una sfida, un invito, una promessa.

Ornette Coleman

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