Andrea Zacchia e l’arte di raccontare l’immaginario: «Anemoia», il nuovo album tra jazz, nostalgia e visioni (Filibusta Records, 2025)

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La chitarra di Zacchia si distingue per un fraseggio intimista e penetrante, sovente incline alla riflessione e all’eloquenza melodica più che alla mera virtuosità.

// di Bounty Miller //

Cosa accade quando la musica tenta di raccontare luoghi fantastici, emozioni mai vissute e memorie di un tempo immaginato? Andrea Zacchia, chitarrista e compositore romano, tenta di rispondere con «Anemoia», un disco che sfugge alle definizioni rigide, e che si muove con leggerezza e profondità tra le pieghe del jazz modale, le suggestioni post-bop e un’attitudine narrativa spiccatamente personale. Pubblicato da Filibusta Records, l’album rappresenta non solo la maturazione artistica del chitarrista e compositore romano, ma anche un affascinante studio sul concetto di memoria immaginata: un’anemoia, per l’appunto, che diviene metafora sonora e dispositivo narrativo.«»

«Anemoia» – termine che unisce in greco «vento» (ánemos) e «mente» (nóos) – è un disco che suona come un diario in codice, fatto di risonanze interiori più che di fatti concreti, teso ad introdurre un’esplorazione musicale che si muove lungo coordinate liminali, al confine tra l’esperienza vissuta e quella sognata. Zacchia, con un approccio lirico e allo stesso tempo concettualmente rigoroso, costruisce un percorso fatto di atmosfere sospese, contrappunti ritmici e architetture armoniche che evocano la poetica del non-luogo e del tempo dislocato. «È il suono di certi tramonti visti da un prato», racconta Zacchia, «di una brezza gentile che ti sorprende mentre sei assorto nei pensieri». Il trio, composto da Pietro Caroleo all’Hammond e Maurizio De Angelis alla batteria, unge da catalizzatore dinamico, in grado di restituire un’ampia gamma di timbri e tensioni. La chitarra di Zacchia si distingue per un fraseggio intimista e penetrante, sovente incline alla riflessione e all’eloquenza melodica più che alla mera virtuosità. Le composizioni originali dialogano organicamente con gli omaggi a figure iconiche del jazz come Sonny Rollins, Wes Montgomery e Carl Perkins. L’inserimento di brani storici non è semplice citazione, ma atto di rifunzionalizzazione estetica e reintegrazione in un contesto sonoro fluido, un ponte tra tradizione e contemporaneità. La chitarra di Zacchia evita l’effetto-vetrina e preferisce raccontare, suggerire, evocare. L’Hammond di Caroleo non accompagna: dipinge. E la batteria di De Angelis non marca il tempo: lo plasma.

L’opener «Reveries» (A. Zacchia) è il manifesto estetico dell’album, sostenuto da un equilibrio raffinato tra strutture modali ed improvvisazione post-bop. L’introduzione della chitarra è morbida, cesellata con fraseggi leggeri ma pieni di sottintesi melodici. L’organo Hammond di Caroleo imposta la cornice armonica, con voicing ampi e caldi, mentre la batteria di De Angelis mantiene una pulsazione flessibile e narrativa. Il dialogo fra i tre strumenti evolve con una naturalezza che richiama le jam notturne della scena newyorkese anni ’90. «Reveries» è un costrutto sognante, pervaso da quella malinconia quieta che si avverte nel ripensare a qualcosa che forse non è mai accaduto davvero. L’atmosfera richiama paesaggi urbani immersi nella pioggia, nebbie interiori, desideri sfumati. La chitarra sembra raccontare ricordi immaginari, come se volesse trattenere una sensazione prima che svanisca. «Oleo» (S.Rollins), viene riproposto attraverso una lettura personale e decisa. La scelta di utilizzare l’Hammond in luogo del tradizionale pianoforte conferisce al costrutto un timbro più denso e viscerale. Zacchia articola il tema con rispetto filologico, ma è nella sezione improvvisata che afferma la sua voce, attraverso un fraseggio spezzato, talvolta spigoloso, che evita cliché bebop e preferisce derive modali più estese. Il trio rivendica la propria appartenenza alla tradizione jazzistica, ma senza mimetismi. L’esecuzione ha il gusto del tributo vitale, non museale. C’è energia, una forma di esuberanza trattenuta, che esplode nei momenti di interplay serrato. È un omaggio lucido, consapevole e vibrante. In «Full House» la complessità armonica del brano di Montgomery viene ben assimilata dal trio, che opta per una lettura articolata ma controllata. Zacchia non forza i tempi né l’esibizione tecnica, ma preferisce esplorare i vuoti tra le note, con un uso dosato del sustain e del vibrato. L’accompagnamento dell’Hammond è avvolgente e solidale, mentre le spazzole della batteria suggeriscono una tensione sotterranea, quasi cinematografica. Il brano ha il sapore di un tramonto tardo, quasi autunnale, che conserva però bagliori vivi all’orizzonte. È uno spazio in cui la malinconia incontra la resilienza; un’interpretazione che trasforma una classica prova di stile in un momento di sincera introspezione.

«Abendrot «(A. Zacchia) è una composizione originale dal titolo evocativo («rosso del tramonto» in tedesco), basata su un linguaggio armonico impressionista. La chitarra fluttua tra tonalità flessibili, e la sezione ritmica costruisce un supporto quasi cameristico. Qui ci si ferma a contemplare un tramonto interiore, dove la malinconia si fa bellezza percepita. «Blues For Wes» (A. Zacchia) è omaggio dichiarato a Wes Montgomery, di cui però Zacchia evita l’imitazione. Il fraseggio è più frastagliato, più moderno. Il blues diventa pretesto per un dialogo tra stili: groove, swing, atmosfere più spinte. La riconoscenza verso un maestro si trasforma in uno slancio personale, come dire «grazie» con voce propria. Caldo, diretto, ma con eleganza. In «Groove Yard» (C. Perkins) il trio s’impadronisce del tema, rendendolo terreno fertile per un interplay serrato. L’organico mette in rilievo una tessitura ritmica cremosa, ma mai pesante, evocando paesaggi metropolitani, locali pieni, risate lontane. Il jazz come spazio sociale oltre che musicale. «Longato» (A. Zacchia) è una dei passaggi più personali del disco, in cui si fonde l’energia primitiva del rock con aperture jazzistiche sofisticate. La costruzione dinamica crea un climax emotivo ben calibrato. È un ritorno alle origini, al luogo simbolico da cui tutto nasce. «Longato» non è solo una località: è uno stato dell’anima, dove la musica diventa viaggio e confessione. Con «Zefiro» (A. Zacchia) la chiusura del disco viene affidata ad un brano etereo, dal nome evocativo del vento primaverile. L’Hammond assume un ruolo quasi cinematico, mentre la chitarra predilige trame sussurrate come una carezza in forma di vento. Dopo il viaggio, «Zefiro» è il ritorno a casa, o forse il sogno di una casa immaginata. Leggero, sospeso, pieno di risonanze interiori. In un momento storico in cui il jazz italiano si trova a fare i conti con la tradizione da un lato e l’ibridazione dall’altro, «Anemoia» predilige la via della sincerità estetica. Non urla, ma persuade. Non corre, ma scava.

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