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L’album diventa un ascolto imprescindibile, ma anche un unicum: una lezione di virtuosismo, interplay e sperimentazione sonora… frutto di eccellenza strumentale e compositiva per multipli di quattro e di un equilibrato dialogo trans-generazionale, oggi improbabile a questi livelli

// di Francesco Cataldo Verrina //

Un’autentica manna per gli amanti del jazz, quasi un libro dei sogni a lungo coperto da due dita di polvere, il quale si colloca in quell’enclave che va dal dall’hard bop al cool jazz, passando per le prime avvisaglie del jazz avant-garde, «Altissimo» riunisce sotto lo stesso tetto quattro altoisti di rango, ognuno dei quali ha ricoperto un ruolo determinante nelle dinamiche evolutive del vernacolo afro-americano: Lee Konitz, Jackie McLean, Gary Bartz e Charlie Mariano. Il risultato è un’escursione multitematica intrisa di urgenza e di istanze molteplici, dove le voci dei sassofoni si intersecano vagliando con personalità e carattere le innumerevoli possibilità idiomatiche del jazz. Il processo di fusione è sistematicamente armonioso e vibrante, i quattro comprimari si sovrappongono, si oppongono, si sostengono ma non abdicano mai, soprattutto non si confondono l’uno con l’altro.

Lee Konitz ha lasciato un’impronta indelebile nell’ambito della filosofia davisiana del jazz a basse temperature, distinguendosi per il suo fraseggio fluido e pungente e per l’abilità di improvvisare sulla scorta di un approccio melodico inequivocabile. La sua influenza si estende ben oltre i primi rudimenti appresi alla «scuola di formazione» di Lennie Tristano, avendo egli esplorato perfino il free jazz e l’avanguardia. Jackie McLean è stato un pioniere dell’hard bop, noto per il suo suono tagliente e la sua corrosività espressiva. Per lungo tempo «compagno di merende» di Charlie Parker, ha contribuito a spingere il jazz verso territori più trasversali, condizionando alcune forme sperimentali di post-bop. Gary Bartz, già alla corte di Art Blakey e Miles Davis, ha portato il jazz verso nuove direzioni, incorporando elementi di soul, funk e fusion. Il suo lavoro con la NTU Troop ha dimostrato come il jazz potesse essere un veicolo per la rivendicazione sociale e la lotta politica. Charlie Mariano, forte delle sue collaborazioni con Eberhard Weber e Charles Mingus, è stato un indagatore sui generis, il quale ha cercato di intercettare il jazz nella sua globalità, introiettando nel suo modus agendi influenze terzomondiste ed orientali, indiane in particolare. L’attitudine a fondere il jazz con inedite sonorità, lemmi ed esotismi di sorta ha aperto le strade alla world music ed al jazz etnico.

Registrato in Danimarca, il 17 luglio del 1973, presso lo studio Rosenberg di Copenhagen, «Altissimo» si distingue per la perpetua attività dialogica fra gli strumentisti, resa ancora più credibile dal sostegno di una retroguardia che non lascia aria ferma: Joachim Kuhn al pianoforte, Palle Danielsson al basso e Han Bennink alla batteria. Per quanto la proposta collettiva, a tratti si regga sul mestiere e l’esperienza dei singoli, apparendo vagamente come un messale ben scritto e declamato, nell’album ci sono momenti di vera epifania per ciascuno degli attanti. L’opener «Another Hairdo», tratto dal libro dei sogni di Charlie Parker, viene interpretato magistralmente da Lee Konitz, con il supporto dei sodali, i quali innescano un interplay circolare che sembra rotolare su se stesso all’infinito. Come in tutte le composizioni di Bird, l’elemento cardine è la velocità, qui propedeutica per evidenziare l’agilità dei quattro sassofonisti. «Mode For Jay Mac» di William Gault, è un componimento ipermodale di quasi dieci minuti – uno dei momenti topici dell’intero album – che dà spazio ad una narrazione tematica ed improvvisativa intensa ed articolata. «Love Chorale» reca in calce la firma Lee Konitz, il quale gioca di fino sull’eco di qualche reminiscenza tristaniana, tesa a mettere in stand-by la sezione ritmica, sfrecciando così libero fra le melodie con tocco leggiadro ed espulgendo dalla campana del sax un’aura di sacrale e pastorale liricità, tanto da risucchiare il fruitore in una spirale di sensazioni e di suggestioni oniriche.

«Fanfare» è un altro brano di Lee Konitz con una prosopopea ed un’esplosività cinematografica, in cui il passaggio di staffetta tra le singole maestranze risulta sinestetico ed assertivo, quanto coinvolgente ed a facile combustione, grazie ad una serie di fraseggi dall’alto gradiente melodico. «Du Rain» di Gary Bartz si esaurisce in poco più di tre minuti, ma la durata, talvolta eccessiva o ridotta, non stabilisce quasi mai la qualità e l’intensità di un componimento, tanto che l’approccio di Bartz, più sotterraneo e meditativo, innesca un’interpretazione accorata, segnata da una profondità abissale. «Hymn», altra traccia breve, ma persistente ed attraversata da un trionfalismo bandistico, mette in risalto la sensibilità di Konitz e il sistema operativo con cui il line-up riesce a secernere un’atmosfera evocativa, basandosi su pochi elementi armonici. Arrangiato da Charlie Mariano, «Telieledu Rama», quale spremitura di una melodia tradizionale di Tyagaraja (Kakarla Tyagabrahmam), uno dei massimi compositori di musica indiana, venerato come un santo, suggella l’album con un tocco di classicismo esotico ed un arrangiamento jazzistico proteso al free form. Per gli appassionati e gli studiosi di jazz e, in particolare, dell’alto sax, «Altissimo», prodotto dal massimo esperto tedesco di jazz, Joachim Ernst Berendt, diventa un ascolto imprescindibile, ma anche un unicum: una lezione di virtuosismo, interplay e sperimentazione sonora che, nonostante gli anni e qualche strato di polvere che rischiava di precipitarlo nel baratro dell’oblio, conserva una vivida attualità ed una varietà stilistica senza eguali, frutto di eccellenza strumentale e compositiva per multipli di quattro e di un perfetto dialogo trans-generazionale. Oggi, nel caos jazzistico del tutto e del niente, un bartering artistico di tal fatta sarebbe impossibile da riproporre a questi livelli.

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