Com’era davvero Amy Winehouse? «Una forza della natura, esilarante e intransigente, impegnata a prendersi cura degli altri»

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Amy Winehouse

// di Cinico Bertallot //

Tyler James, colui che meglio la conosceva al mondo, ha raccontato la vita della cantautrice, scomparsa a 27 anni per avvelenamento da alcool, in un libro pubblicato qualche anno fa (che ho riletto di recente), ma che forse rimane il più attendibile per tracciare i contorni di un personaggio fragile ed inquieto, in cui estro e sregolatezza hanno avuto una non facile coabitazione, ribadendo il concetto di «collisione fra arte ed accessi», il quale conduce sistematicamente ad un drammatico epilogo. In questo, Amy Winehouse, somiglia a tanti eroi maudit del jazz e del rock precipitati anzitempo negli abissi infernali a causa di una vita senza freni, dissoluta ed autodistruttiva vissuta sul ciglio del burrone, alimentata, per contro da un talento artistico non comune. «Ho visto Amy scrivere un sacco di canzoni. Prima di tutto annotava i suoi pensieri, le sue sensazioni: non c’erano brani che iniziassero con melodia o accordi, erano sempre parole. Per un cantautrice è piuttosto insolito. – Così racconta Tyler James nel suo libro – Ero incantato dal suo processo creativo: una pagina di poesia e nessun accordo. Scriveva soprattutto di notte, si sedeva sul pavimento della cucina con una bottiglia di Dooley’s o di Jack Daniel’s, la chitarra, un pezzo di carta e una penna. Di sopra, mentre ero a letto, riuscivo a sentirla chiaramente. Conoscevo quelle canzoni prima ancora che divenissero canzoni. La prima che ho ascoltato è stata quella che sarebbe diventata «Back To Black», sentivo il ritornello da settimane; le parole dei versi erano state scritte, ma non erano ancora state messe in musica».

Se c’è una persona che possa sapere in massima parte quanto realmente accaduto ad Amy Winehouse, oltre alla stessa Amy, è Tyler James, il suo migliore amico fin dall’età di tredici anni. I due si erano conosciuti a scuola e, da estranei insicuri, avevano stabilito un legame immediato, quasi di sostegno reciproco e mutualistico, vissuto gomito a gomito dalla tarda adolescenza fino al giorno in cui Amy morì. Tyler fu costantemente al suo fianco, dai primi spensierati anni in tournée insieme, fino alla creazione del pluripremiato album «Back To Black», che Amy scrisse sul pavimento della loro cucina. Dall’instabile matrimonio con Blake Fielder-Civil, attraverso le sue crescenti dipendenze, all’autolesionismo ed i disturbi alimentari, Tyler fu testimone di come la natura corrosiva della fama avesse distorto la realtà quotidiana della sua amica. Precisa Tyler: «Pensavo che le sue nuove canzoni fossero forse troppo deprimenti. Non solo non sapevo che «Back To Black» sarebbe diventato quello che sarebbe diventato: non avevo proprio idea di come sarebbe stato l’album. Non sapevo neanche se queste canzoni avrebbero mai fatto parte di un album. Avevo anche sentito dire, da Nick, che la Island stava pensando di mollarla. Secondo la logica della casa discografica, volevano un secondo album e questo non arrivava mai. Sapevano che stava bevendo molto. Non significa che non pensassero che fosse un’artista valida, ma quando lei scriveva quelle canzoni loro non le sentivano: Amy era a casa con la sua chitarra e non in studio. La registrazione vera e propria fu molto veloce: due settimane a Miami con Salaam Remi, poi due settimane a New York con Mark Ronson».

Negli ultimi tre anni della vita di Amy, sconfitta la dipendenza dalla droga fu vicina a superare anche l’alcolismo. Tyler rimase con lei praticamente ogni giorno, approfondendo, meglio di chiunque altro, la conoscenza della vera Amy Winehouse, quella che il pubblico e i lettori dei tabloid raramente avevano occasione di vedere: una forza della natura, esilarante e intransigente, altruista, generosa ed autolesionista. Pubblicato in occasione del decimo anniversario della sua morte, «La mia Amy» è il ritratto evocativo di un’amicizia indissolubile per la vita, nonché una spietata analisi sulla celebrità, sulla dipendenza e sull’autodistruzione. Tutti pensiamo di sapere cosa sia successo ad Amy Winehouse, ma non è così. La storia definitiva di questo amico intimo ci racconta, finalmente, la verità o qualcosa che le si avvicitna di più. «Una notte, al Koko, mi chiese di entrare in bagno con lei. Aveva una canotta sotto il top e si tolse il top. Senza dire una parola, o farne un dramma, mi mostrò i tagli che aveva sulle braccia: voleva farmelo sapere. Naturalmente mi preoccupai, ma non è che non avessi mai visto dell’autolesionismo prima. Nemmeno io dissi niente: lei non avrebbe voluto che lo facessi, ma ora sapeva che sapevo. E sapeva che d’ora in poi l’avrei tenuta d’occhio».

Tyler James, cresciuto nell’East End di Londra, incontrò Amy Winehouse presso la scuola di teatro di Sylvia Young. Nel 2003, l’intraprendente Tyler, sfruttando le amicizie e le conoscenze della sua intima amica, aveva tentato la carriera di cantante e compositore, firmando un contratto con la Island Records. All’inizio del 2009, dopo anni caotici sia per lui sia per Amy, riuscì da affrancarsi dalla dipendenza. «La mia Amy» fu il suo primo libro, un biografia verosimile, per quanto non si possa mai sapere esattamente cosa passasse per la testa dell’inquieta cantautrice. In ogni caso, le testimonianze dell’amico Tyler, si potrebbero avvicinare alla realtà, al netto delle esigenze di plot narrativo e di tentativo di romanzare taluni eventi: a tratti sembra che lo scrivente voglia mette più in risalto la propria attività di amico fedele e buon samaritano, mente la figura della Winehouse rimane sbiadita, problematica e sullo sfondo. Anche lui, inevitabilmente, venne trascinato verso il baratro tra vizi ed eccessi, ma ritrovò la diritta via smettendo di drogarsi e di bere. Perfino Amy era sulla buona strada, completamente disintossicata dai narcotici da almeno tre anni, ma ancora fortemente etilista fino a quel fatidico 23 luglio del 2011, quando una massiccia dose di alcool le stroncò la vita. Nel libro ci sono tutti gli alti e i bassi, aneddoti relativi a Prince, Mik Jagger, ei Bryan Adams; soprattutto Tyler evidenzia una Amy alquanto dolce ed altruista ma, al contempo, molto crudele quando era sotto gli effetti delle sostanze. Del resto, Tyler James fu quasi un fratello, per almeno tre quarti dell’esistenza della cantante: da quando si erano conosciuti, non si erano mai persi di vista e frequentati assiduamente, tranne durante i brevi periodi in cui lei era in studio (anche all’estero) per registrare le sue canzoni, quando aveva impegni discografici e concertistici oltre Manica o nelle parentesi sentimentali più importanti. Nonostante nella seconda relazione, quella con Blake, Tyler James dovette fare da badante ad entrambi. Scrive Tayler: «La più pura diciannovenne, cantautrice soul-pop-jazz, che mai avrebbe toccato le droghe pesanti, presa nell’ingranaggio, si trasforma presto in Amy Winehouse, la star mondiale, genio e sregolatezza Poi lentamente negli ultimi anni, dopo «Back to Black», riuscì ad allontanarsene, disgustata dal music business (…) ma nessuno l’ascoltava più, tutti volevano indietro quella Amy Winehouse (con le sue devianze e le sue intemperanze), tipica espressione del sogno britannico. Ma lei non ce l’ha fatta a reggere il colpo». Tante cose in questo libro, potrebbero essere mese in discussione. Siete invitati a leggere anche «Amy, mia figlia», scritto dal padre, per fare un confronto. Analizzando i due testi sembrerebbe che la Winehouse avesse quasi vissuto due vite differenti. Si possono avere punti di vista antitetici, profilando l’artista sotto l’aspetto psicologico e relazionale, oppure tentare di approfondire altri elementi, magari concentrandosi maggiormente sul costrutto musicale e sull’abilità canora. Nel libro di Tyler James ci sono, però, aspetti più veritieri, per quanto, a tratti, più crudi e spietati.

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