horace-silver

Horace Silver

Horace Silver, figlio di un capoverdiano e di una irlandese, è sempre stato un compositore poliglotta affascinato da una mescolanza di linguaggi, apportando sistematicamente elementi di esoticità a vari livelli nell’ambito del jazz.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Pur nella sua enorme popolarità, Horace Silver, per molti resta un enigma avvolto in un mistero: genio o stregone? Sicuramente, un posto al caldo nella storia del jazz se l’è guadagnato: il suo ticket con la Blue Note per lunghi anni fu determinante per numerosi lavori, anche conto terzi, che uscivano da quella fucina di talenti. Molti dischi da lui realizzati in casa Alfred Lion appaiono talvolta immolati allo stesso dio, schematici, magari fatti con lo stesso stampo, in maniera impeccabile ma un po’ studiati a tavolino, quasi con scadenza fiscale; di certo esiste un marchio di fabbrica ben preciso nelle sue produzioni ed un metodo di lavoro non dissimile alla catena di montaggio messa in atto dalla Motown, fucina di successi in quello stesso periodo sul versante Soul-R&B. Il dispiegamento di uomini e mezzi fu notevole e, commercialmente parlando, il periodo Blue Note di Horace Silver da sempre seduce le masse e gli appassionati del cosiddetto soul-jazz.

Album come «Doing The Thing At The Village Gate» del 1961, «The Tokyo Blues» del 1962, «Silver’s Serenade» del 1963 e «The Cape Verdean Blues» del 1965, così come il suo capolavoro «Song For My Father», provengono tutti da session ben organizzate con fior di musicisti, il meglio di quanto potesse offrire la scena bop in quel momento; deponeva oltremodo a favore dei vari lavori di Horace Silver, l’immediatezza e la facilità di fruizione. L’abilità nel saper scrutare le nuove istanze della black music, certe accentazioni funkified e quel suo indugiare in accattivanti melodie di stampo soul, sono stati elementi fondamentali nei sui dischi e propedeutici ad un facile impatto sul mercato. Però, analizzando i fenomeni con attenzione, ci si accorge che uno dei sei album realizzati per l’etichetta di Lion svetta qualche spanna al di sopra della media del periodo.

«Further Explorations By The Horace Silver Quintet», ha una marcia in più ed un differente mood, dovuti con buona probabilità alle variazioni di line-up. In effetti, il cambio di collaboratori fu determinante, se non altro rigenerante. La progressione dell’onda sonora si ramifica oltre il suo abituale linguaggio, irrorando la linfa delle tipiche melodie di Silver con ritmi più esotici. Progettato con cura, l’album, pur aderendo alle istanze dell’hard bop di quegli anni, tenta una via obliqua ed innovativa rispetto alla solita scrittura di Silver e al suo concetto di pianoforte. L’ensemble su «Further Explorations» è coeso e determinato, basilare l’innesto di Art Farmer che contribuisce con assoli eleganti ed imprevedibili rendendo il suono più cristallino. Alla fine sembrerebbe che sia più un album di Farmer che di Silver o, comunque, un progetto in comproprietà: Farmer non era artista facilmente circoscrivibile ed intrappolabile in un preciso schema operativo.

I primi due frammenti chiariscono che «Further Explorations», ossia «ulteriori esplorazioni», come titolo sia alquanto appropriato: «The Outlaw» presenta progressioni armoniche più lunghe ed insolite, un ritmo latino alternato, tempi a 4/4 con sezioni sonore labirintiche, veloci stoppate e ripartenze improvvise, ma con un passo rapido e deciso; la seconda composizione sotto forma di ballata, «Melancholy Mood», porta subito un cambiamento di umore. Si parte con un tiepido duetto tra Silver e Teddy Kotick (uno dei bassisti preferiti di Charlie Parker), mentre Louis Hayes accompagna la ciurma con una batteria dalla pennellata morbida e levigata. L’assolo di Silver è un gioiello, che mescola lunghi tratti di accordi secondari minori, note con frasi sensuali e ripetute stoccate funkified. «Pyramid» è un mélange di melodia orecchiabile, tocchi latini e cori ondeggianti, in cui Art Farmer trova la strada maestra con lunghe linee dal lirismo intenso. «Moon Rays» è il pezzo centrale dell’album della durata di undici minuti.

La melodia al lime dei Caraibi risulta assai accattivante, mentre la maniera in cui Silver opera sul piano rimanda a talune modalità espressive tipiche del gioco sui tasti di Thelonious Monk. Jordan e Farmer raggiungono il climax in «Safari», una rivisitazione legata a Silver con Art Blakey e Gene Ramey, al suo debutto in Blue Note nel 1952, ossia The Horace Silver Trio. «I’ll Wind», che appone il sigillo di ceralacca chiudendo l’album, ha una struttura insolita e non molto digeribile al primo boccone, ma condensa tutte le caratteristiche di «Further Explorations» che, a consuntivo ultimato, possiamo collocare fra le migliori sessioni organizzate da Horace Silver. I solisti impressionano costantemente: Farmer, pur tentando una selezione insolita ed intervallata, suona in maniera molto melodica, rendendo tutte le progressioni assai attraenti. Il giovane Jordan si trasforma in una specie di Giano bifronte, espellendo dal suo mantice le sagome sonore a volte di Dexter Gordon, altre di Sonny Rollins, mentre dalle retrovie Kotick e Hayes mantengono il ritmo costante ed il sangue fluido, evitando che il movimento si solidifichi, irrigidendosi. Sebbene nessuno di questi pezzi abbia preso piede come standard, l’intero set è ricco di variazioni di umore e groove cangianti; ciò garantisce al disco un carattere di forte impatto comunicativo.(Horace Silver Quintet – «Further Explorations», 1958).

Horace Silver ha rappresentato il jazz con l’anima, «il grande ritmo dei treni neri» con la vaporiera sempre a tutta manetta, l’uomo al comando che trasportava il popolo del blues su un convoglio a base di funk-bebop, con esecuzioni brucianti di soul e sempre in volata. Horace Ward Martin Tavares Silva, questo il suo vero nome, è stato uno dei personaggi più rappresentativi dell’hard bop, prima con i Messengers di Art Blakey, con cui inizialmente divideva la leadership, quindi protagonista di una lunga carriera come band-leader. «Blowin’ The Blues Away» è un disco bifronte a due velocità, eseguito in trio su due tracce e quattro in quintetto, nonché registrato in due sezioni separate: la prima il 29 e il 30 agosto del 1959, la seconda il 13 settembre. Il pianista si alterna alla guida a tre o a cinque marce, pur potendo contare sulla squadra di sempre, quella storica e più affiatata al suo fianco: Junior Cook sax tenore, Blue Mitchell tromba, Gene Taylor contrabbasso, Louis Hayes batteria. In tutti i formati, Silver riesce ad esprimersi da eccelso solista, generando una forte propulsione alle spalle della linea frontale, quando arretra per garantire un comping perfetto ed impeccabile.

«Blowin’ The Blues Away» è uno degli elaborati più riusciti di Horace Silver in casa Blue Note, forte di sei composizioni originali; un album che segna l’apice del quintetto classico al pari di «Song For My Father» e «Horace Silver & The Jazz Messengers». Il ritmo dell’album è impeccabile, si va a martello e si rallenta con un paio di placidi intermezzi, tanto da consentire a tutti di riprendere fiato, ascoltatore incluso. Il ventaglio di sensazioni e variazioni tematiche offerte è assai ricco. Tra i tanti, due brani spiccano perintensità: «Peace», una bollente e seducente ballata e «Sister Sadie», basato sul Vangelo, un concentrato di swing, dove la band, di tanto in tanto, suona all’unisono prima che l’uno o l’altro dei solisti abbia una breve voce in capitolo. Entrambe saranno destinate a diventare degli standard del repertorio di Silver, al pari della title-track, «Blowin’ The Blues Away». «Melancholy Mood» è un case-study per piano trio, sviluppato con il solo accompagnamento di Hayes e Taylor, dove i ripetuti cambi di ritmo lento sono magicamente lirici, diluiti con qualche martellata alla Monk e da una melodia mercuriale, che tracciano una delle più riuscite rappresentazioni dell’estetica silveriana. Della stessa pasta è fatta anche la frenetica «The St.Vitus Dance» (il ballo di San Vito), un esempio di piano trio ad alta combustione sonora. L’esotismo e l’amore per le terre lontane affiorano, ma senza oleografia caricaturale e turistica, in «The Baghdad Blues», un bop up-tempo insanguato da una mistura di soul-blues metropolitano, dal groove funky e calato in gran bazar di suoni. «Break City» è frutto della tipica economia a forte impatto di casa Silver con la band ai massimi livelli di tensione, dove l’esuberanza totale diventa un diktat non derogabile. Al netto di ogni considerazione, «Blowin’ The Blues Away» resta uno dei cardini della lunga discografia di Silver. (Horace Silver Quintet & Trio – «Blowin’ The Blues Away», 1959).

Quasi tutti gli album di Horace Silver sono assurti allo status di classici. Al netto dei risultati in termini di vendita dell’uno piuttosto che di un altro, tutti i lavori del Capoverdiano editi dalla Blue Note costituiscono un punto di riferimento per gli appassionati di un peculiare tipo di hard bop formulato attraverso una combinazione di elementi molteplici provenienti dal continente latino e dal comparto soul-funk. Ancora oggi i dischi del pianista possono essere una valida piattaforma di studio per quanti amano penetrare la sintassi jazzistica, senza temere di essere tacciati di revivalismo, così come accadde a famosi «giovani leoni», Wynton Marsalis, Wallace Roney o Terence Blanchard, accusati, sul calare degli anni Ottanta da una certa stampa, di essere dei cloni e degli impostori, poiché cercavano di perpetuare la musica dei loro anziani precedessori, tentando di riprodurre le sonorità di Horace Silver, di Art Blakey et similia, anziché continuare laddove le avanguardie avevano interrotto.

La storia ha loro dato ragione ed, ancora oggi, il cosiddetto mainstream confezionato in casa Lion continua a destare interesse fra i giovani e ad essere un’importante via di accesso al jazz. Horace Silver fu uomo d’azienda e di fiducia dell’opificio Blue Note, amico e confidente personale del patron, ma nei lunghi anni di militanza attiva non è mai stato un vero capo tribù, ma piuttosto un capo guerriero. Al fine di agevolare la comprensione della belluina metafora, si potrebbe aggiungere come elemento chiarificatore che Cochise, ad esempio, era un capo tribù, tipo Art Bakley, mentre Geronimo era un capo guerriero, proprio come Silver, un autentico stratega musicale, in grado di organizzare le truppe, arrangiare e dirigere i musicisti sul piede di guerra durante una sessione. «Finger Poppin’» giunse dopo il più ambizioso, ma sottovalutato, «Further Explorations» del 1958, in cui il pianista aveva tentato alcune esplorazioni meno convenzionali, senza mai tradire il metro abituale. Il ritorno al metodo di lavoro tradizionale determinò un cambiò di line-up, ma soprattutto Silver evitò accuratamente composizioni ed arrangiamenti ricercati e complessi. Confermato Louis Hayes alla batteria e coinvolto il semisconosciuto bassista Gene Taylor, i solisti, Blue Mitchell alla tromba e Junior Cook al sax tenore, non furono meno ispirati della prima linea presente nell’album precedente, costituita da Art Farmer e Clifford Jordan.

Si potrebbe dire che «Finger Poppin’» mise in luce quello che rimane il quintetto tipo del pianista, sicuramente il più adatto alla sua sintassi sonora e capace di evidenziare i fonemi del linguaggio silveriano basato su una sofisticata armonia, sempre propedeutica all’immediatezza emotiva e costellata da sfumature swing, soul e blues. Sulla scorta di questo approccio «Finger Poppin’» rappresenta uno dei picchi più elevati della carriera del capoverdiano. Uno dei valori aggiunti fu sicuramente la chimica delle interazioni fra i vari componenti del gruppo, favorita da un band-leader generoso e capace di fornire un’intelaiatura armonica propedeutica agli assoli dei gregari. Silver era in grado di favorire il ricambio e l’alternanza della prima linea con inserti brevi e diretti, al fine di salvaguardare lo stato di veglia del fruitore. Il fluido interplay fra i musicisti testimonia un palpabile senso di scoperta e di eccitazione percepibile in tutte le tracce del disco. Per l’occasione il pianista più soul del pianeta jazz sfoderò un repertorio nuovo di zecca, tutta farina del suo sacco, otto temi scintillanti, uno diverso dall’altro. L’iniziale «Finger Poppin», scelta come title-track è una dichiarazione d’intenti che s’immola sull’altare dell’hard bop da industria pesante, tagliando l’aria con delle implacabili frustate funkified, mentre i fiati sfiorano l’overclocking. Blue Mitchell e Junior Cook non tentano alcuna negoziazione sulla velocità del tempo, espellendo dalla campana dello strumento rapide melodie stop-and-go con estrema precisione.

«Juicy Lucy» si caratterizza come uno dei momenti più riusciti dell’album, giocando su un azzeccato intreccio bluesy ed hard-swing. Il sapore caraibico di «Swingin’ The Samba» ci ricorda quanto, a quei tempi, fosse importante ballare. La tenerezza di «Sweet Stuff», eseguita in trio, costituisce un’altra delle carte vincenti che spesso Silver tirava fuori dal mazzo, mettendo i fiati in stand-by. La B-Side si apre con l’esplosione mirata di una carica di dinamite bop up-tempo, muscolare e gioioso, che fa di «Cookin’ At The Continental» un altro marchio tipico della premiata ditta Silver. «Come On Home» si snoda tra blues e funk con una serie di ostinati, di cui solo Silver conosceva la formula attuativa. «You Happened My Way» è una ballata emotiva calata dalla tromba di Mitchell in una notte di sentimenti. Sia Mitchell che Cook sanno intessere trame e raccontare storie fatte di note avvolgenti e descrittive, così come risvegliare gli ardori con «Mellow D», un ribollente hard bop insanguato di funk. Registrato al Van Gelder Studio, il 21 febbraio del 1959, «Finger Poppin’» è tutto quello che l’hard bop dovrebbe essere, nonché un tangibile esempio di ciò che ha reso il suono Blue Note coinvolgente e senza data di scadenza, quasi svincolato da ogni limite spazio-temporale. (Horace Silver – «Finger Poppin’», 1959).

ARRIVANO GLI ANNI SESSANTA

Horace Silver, figlio di un capoverdiano e di una irlandese, è sempre stato un compositore poliglotta affascinato da una mescolanza di linguaggi, apportando sistematicamente elementi di esoticità a vari livelli nell’ambito del jazz. Una fortunata serie di trionfali concerti tenuti nella terra del Sol Levante lo spinse a far tesoro di alcune sonorità e di un certo mood musicale con cui era entrato in contatto durante la tournée nipponica. Questa sorta di auspicio-ringraziamento riportato nelle liner notes della copertina di «The Tokyo Blues» è alquanto eloquente, per non parlare del titolo che diventa una sorta di memento per la grazia e l’ispirazione ritrovata in quella terra lontana: «Questo album è dedicato ai nostri numerosi fans giapponesi ed a quanti sono stati così gentili con noi mentre facevamo il tour in Giappone. Sarebbe nostro desiderio tornarci presto. Mentre ero lì, ho notato che i Giapponesi apprezzano tanto la musica latina, a cui anch’io sono molto legato. Nello scrivere alcune di queste composizioni ho cercato di combinare il sentimento delle melodie giapponesi con il feeling dei ritmi latini. Spero che siano di vostro gradimento».

Persino la foto scattata magistralmente da Francis Wolff, usata dal grafico Reid Miles per l’art work della copertina, descrive alla perfezione l’humus dell’album. Il tour di Horace Silver in Giappone fu uno dei più felici della sua carriera. Silver era un uomo mite e disponibile. La sua affabilità fu molto gradita ai Giapponesi che gli crearono intorno un ambiente confortevole, tanto da lasciare un segno profondo nella sua mente. Si narra che nei giorni antecedenti l’arrivo del pianista e durante il tour, le riviste musicali specializzate ne pubblicarono la discografia completa dando ampio rilievo alla sua figura ed ai gruppi da lui guidati, con recensioni dettagliate di tutti gli album. Un critico giapponese si attardò a disquisire perfino sull’origine latina del nome del musicista, all’anagrafe Horace Ward Martin Tavares Silva, accomunandolo all’antico poeta e scrittore satirico, Quintus Horatius Flaccus. Il quintetto del pianista aveva toccato il suolo giapponese il 30 dicembre, due giorni prima del Capodanno del 1962, momento di festeggiamenti molto sentito dai Giapponesi, poiché l’inizio dell’anno, secondo il loro credo, rappresenta una sorta di purificazione. L’ambiente fu alquanto favorevole, per cui Silver e compagni non ebbero difficoltà ad integrarsi e penetrarne il mood.

Tra le varie caratteristiche, Silver fu colpito molto dalla lentezza e soprattutto dalla capacità dei Giapponesi di dedicarsi al relax ed alla buona tavola e dalla loro predisposizione alla conversazione, al fine di intrattenere gli ospiti. Non solo lui, ma tutti i musicisti impararono subito a mangiare con le bacchette ed apprezzare pietanze particolari come il Sukiyaki alle rape in salamoia. Quando Silver rientrò negli Stati Uniti cercò subito di fissare in musica tutta quella serie di emozioni, visioni e suggestioni catturate in estremo Oriente. «Too Much Sake» nacque in ricordo del troppo sakeh, tipica bevanda del luogo, bevuta dopo i concerti; fu questa la prima scintilla ispirativa su cui si sviluppò l’intero album, nonché brano di apertura. Il pianista ricorda: «Una notte stavamo raggiungendo l’albergo in taxi dopo cena. Ci sentivamo molto bene, ma eravamo tutti mezzi addormentati. Il sakeh non è molto forte, ma ti prende di soppiatto». In seconda battuta arrivò «Sayonara Blues» che lo stesso Silver definisce così: «Il sentimento espresso in questa melodia mescola emozioni felici e stati d’animo un po’ più tristi». Tutta la costruzione pianistica appare perfettamente bilanciata. Il tema e la melodia si sviluppano gradualmente attraverso un efficace ritmo di base, impresso da Gene Taylor al basso e John Harris Jr. alla batteria, che produce una sensazione di suspense fino alla fine. La tromba di Blue Mitchell ed il sax tenore di Junior Coock ricamano il tema attraverso frasi garbate e gentili. Gli assoli sono morbidi e mai spericolati, mentre il piano li segue seminando una lunga scia di note dal sapore vagamente orientale.

La B-side si apre con la title-track, «The Tokyo Blues», che più di ogni altra traccia contiene scaglie di essenze e sapori nipponici. Racconta Silver: «Ci siamo goduti tutto lì, ma c’è piaciuta soprattutto Tokyo. Abbiamo girato molte città, ma quando siamo tornati a Tokyo, ci siamo sentiti come a casa». Un chiaro omaggio alla capitale giapponese, la città che gli aveva tributato maggiore attenzione, riservando alle esibizioni del quintetto un’accoglienza da rock-star. Lo stile pianistico di Silver è costantemente attraente e riconoscibile, merito dell’innata abilità di ancorare la musica a dei punti fissi e fermarla come se fosse una struttura palpabile, grazie agli accordi ripetuti dalla sua mano sinistra che formano una tela musicale su cui i sodali dipingono colorati schemi ritmici e policrome armonie. «Cherry Blossom» è una ballata lenta e commovente imperniata su una melodia immortale composta da Ronnell Bright, per lungo tempo accompagnatore di Sarah Vaughan.

In chiusura «Ah! So» è un sostanzioso hard bop che si materializza attraverso un impianto melodico complesso ed articolato: l’unico brano a non avere un connotato ritmico di tipo afro-caraibico. Il tema sembra sfuggire a qualsiasi catalogazione: la melodia viene suonata fuori tempo, mentre gli assoli perfettamente a tempo. Forse è il momento più attrattivo del disco, insolito, ma originale e non di maniera. Lungo tutto il tragitto la retroguardia ritmica formata da Gene Taylor e John Harris Jr. costituisce una solida base ed un eccellente supporto mai invadente, pur essendo entrambi ingredienti essenziali del mix sonoro. Blue Mitchell e Junior Cook, fratelli di sangue in nome e per conto del dio Soul, fanno faville innescandosi a vicenda. Mentre il marchio soul-latin-swing di Silver è sempre in prima linea, l’ispirazione stimolata dalle spezie orientali è chiaramente evidente in tutti gli aspetti dell’album. Registrato il 13 ed il 14 luglio del 1962 al Van Gelder Studio e pubblicato nell’ottobre dello stesso anno, «The Tokyo Blues» incarna la quintessenza di uno dei momenti di massima espressione creativa del periodo aureo della Blue Note, caratterizzandosi come un pilastro portante della lunga discografia di Horace Silver. (The Horace Silver Quintet – «The Tokyo Blues», 1962).

La pozione magica di Horace Silver si basa sulla chimica sonora del bilanciamento. Il pianista è sempre stato abile a lambiccare dinoccolati ritmi dal sapore caraibico con armonie complesse al fine di ottenere una balsamica mistura. «Song For My Father», il suo album più celebrato, nonché una delle punte di diamante del catalogo Blue Note, possiede elementi di sofisticata signorilità arricchiti da delicate pennellate esotiche che nascono dalla genetica predisposizione del pianista di Capo Verde per i ritmi del Sud del mondo. Horace Silver era un uomo dalle molte radici familiari e sonore, che aveva disinvoltamente incorporato nella sua musica, sempre molto diretta, calda e coinvolgente, in perfetto equilibrio tra hard bop e latin-soul-jazz. In questo album vari elementi coabitano pacificamente in un perfetto equilibrio: l’atmosfera bossa nova della title-track «Song for My Father», l’orientaleggiante incedere di «Calcutta Cutie» ed il mood tropicale di «Que Pasa?». Il pianista era noto per essere un perfezionista durante le sessioni di registrazione: fu questo uno dei motivi per cui pubblicò pochi dischi dal vivo, manifestando apertamente un’ossessione per il suono di altissima qualità, caratteristica assai evidente in quasi tutti i suoi album.

Silver amava circondarsi di un cast di talenti a rotazione, alcuni spesso sconosciuti, molti dei quali sarebbero diventati dei veri punti cardine del jazz moderno. Solo i Messengers, sotto l’egida dell’amico Art Blakey, dimostrarono maggior fermento come scuola di vita e laboratorio aperto ai talenti emergenti. «Song For My Father» proviene da tre distinte sessioni spalmate nell’arco di un anno, dall’ottobre 1963 all’ottobre 1964 (31 ottobre 1963, 28 gennaio e 26 ottobre 1964), con due diversi line-up. L’ordine dei brani, come originariamente concepito, mostra la formidabile intuizione del produttore Alfred Lion, il quale aveva esortato Silver a scritturare Carmell Jones, Joe Henderson, Teddy Smith e Roger Humphries. La coppia d’attacco Carmell Jones alla tromba, ma soprattutto Joe Henderson al sax tenore, con un esemplare lavoro sulla melodia, conferiscono gli attributi alla title-track: dopo l’introduzione iniziale del piano di Silver, i due fiati iniziano una narrazione chiara ed avvincente, Silver riceve presto il nulla osta al suo primo intervento in solitaria che onora attraverso una zampillante e variegata progressione armonica, sostenuta dalla retroguardia foriera di un certosino e calibrato apporto ritmico; la staffetta passa dunque ad Henderson che si evidenzia per il suo modo di improvvisare angolare e tortuoso da cui scaturisce uno dei migliori assoli di sax tenore di tutti i tempi.

L’album nella sua totalità è un concentrato maestoso di tromba e sax tenore con assoli infuocati ma mai eccessivamente lunghi e verbosi, mentre il pianoforte di Silver trama su un sublime telaio di note agrodolci, suggerendo una struttura formale, che aleggia su tutto il procedimento, ma senza restrittive imposizioni sui sodali. Tra i momenti salienti dell’album, una menzione speciale va a «Calcutta Cutie» registrata con una formazione completamente diversa, con il trombettista Blue Mitchell ed il sassofonista tenore Junior Cook, spesso trascurato dai libri di storia. L’unica traccia non scritta da Silver «The Kicker», a firma Henderson, che da solo vale il prezzo della corsa, si caratterizza come uno dei momenti più convincenti del disco, caratterizzato dalle marcate incursioni poliritmiche di Roger Humphries; ottime per struttura ed esecuzione anche «Que Pasa?» e «Lonely Woman». Pubblicato nel 1965 «Song For My Father», come già detto, nasce da un’insolita sessione di tipo split. Una parte dell’album è suonata dal classico quintetto di Silver (al piano) con Blue Mitchell alla tromba, Junior Cook al sax tenore, Gene Taylor al basso, Roy Brooks alla batteria. L’altra parte vede sul set Silver al piano, Carmell Jones alla tromba, Joe Henderson al sax tenore, Teddy Smith al basso e Roger Humphries alla batteria. Si potrebbe pensare ad un «taglia e incolla», ma ascoltando l’album, non si percepiscono sbavature o marcate differenze fra le due compagini: il lavoro risulta lineare ed omogeneo. Il focus centrale è dettato dal tocco di Silver, quel tanto che basta per far emergere la sua classe nascosta, una scrittura accattivante ed il suo lussureggiante marchio di fabbrica.

«Song For My Father» è un album meno concentrato sulle apparenze e sulla forma e più sulla sostanza: il pianista-leader contiene e smorza le esuberanze di entrambi i gruppi, legandoli insieme in maniera straordinaria; rifugge la complessità armonica e la sperimentazione fine a se stessa, incarnando il buon vecchio modo di concepire il jazz come una formula accessibile che mantiene la sua originaria componente blues e gospel. Silver in fondo era una persona sorridente e positiva come il suo modo di suonare. Era solito dire: «Personalmente non credo nella politica, nell’odio o nella rabbia da riversare nella composizione musicale (…) la musica dovrebbe portare felicità e gioia alle persone e fargli dimenticare i problemi». (Horace Silver Quintet – «Song For My Father», 1965).

Nei sette minuti di «Psychedelic Sally» Horace Silver stabilisce ancora le linee guida di quello che sarà un genere molto imitato, a partire dalla fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, da una nuova generazione di musicisti di colore, i quali cercheranno di trovare sempre più punti di contatto tra il jazz e altri derivati del blues. Alcuni di essi scivoleranno sul terreno più impervio della fusion o planeranno sui morbidi cuscini di un rassicurante smooth, di cui soul e funk costituivano due ingredienti indispensabili, quasi un’alternativa alla fusion jazz-rock più vicina a taluni stilemi praticati «dall’uomo bianco». «Serenade To A Soul Sister» è una potente mistura di funk anni ’60 e bop anni ’50, che nasce dal perfetto sodalizio tra il pianista più funky del jazz moderno, Horace Silver, ed il sassofonista più soulful della storia del bebop, Stanley Turrentine, spintonati da Charles Tolliver, trombettista dal tono deciso e robusto. Ecco, dunque, scodellata una delle migliori pietanze discografiche a base di soul-jazz, mai servita in casa Blue Note.

«Serenade To A Soul Sister», come dire nome omen, già il nome parla chiaro: il 1968 fu un anno di lotta e di turbolenze sociali e l’album è un tributo ideale alle donne afro-americane che in quel periodo soffrivano e lottavano, subendo discriminazioni ancora più pesanti rispetto agli uomini. Ciononostante, Silver esplicitò chiaramente il suo pensiero nelle note di copertina, chiarendo che non sarebbe mai stato capace di lasciare che «politica, odio o rabbia» entrassero nella sua musica. Registrato in due sessioni separate al Van Gelder Studio, il 23 febbraio ed il 29 marzo del 1968 e pubblicato nel giugno dello stesso anno, l’album si pregia di sei eccellenti composizioni originali a firma Silver, il quale appare in uno stato di grazia, sia da un punto di vista creativo, che sotto il profilo organizzativo. Le due variazioni di line-up, che vedono in alternanza, quali manovratori della macchina del ritmo Bob Cranshaw e John Williams al contrabbasso, Mickey Roker e Billy Cobhan alla batteria, non intaccano minimamente il costrutto sonoro concepito dal pianista: tutti i sodali sono perfettamente allineati agli assunti programmatici del band-leader. L’amalgama è perfetto e l’omogeneità garantita.

L’opener, «Psychedelic Sally», che da solo vale il prezzo della corsa, è una sorta di biglietto da visita ed il punto focale dell’intera opera: è scorrevole, invitante ed a presa rapida, inchiodandosi nelle meningi del fruitore, grazie ad una linea di basso propulsiva, secondo la migliore tradizione funkiness ed un tema imponente introdotto all’unisono dal sax e dalla tromba. Come da tradizione, il sontuoso sassofono di Turrentine, con un assolo bluesy da manuale, apre un varco ad un energico giro di tromba distillato da un efficace e disinibito Tolliver; infine Silver tira le somme delimitando il perimetro sonoro con un decisivo assolo di piano in modalità juke-joint, ossia con quell’innata capacità di sorprendere ancora, quando sembrava che gli altri avessero già detto tutto, ma senza disperderne le idee, mostrandosi competitivo o banalizzandole, ma concentrandole in un punto stabilito e saldandole insieme con un’abilità non comune. La title-track, «Serenade To A Soul Sister», è un ottimo hard bop insanguato di funk, che sembrerebbe richiamare i trascorsi di Horace con i Jazz Messengers, stagliandosi furtivamente in un’ambientazione metropolitana fatta di luci ed ombre, durante una notte fitta di misteri. «Rain Dance» nella fase iniziale ha un passo militaresco e sembrerebbe una chiamata alle armi; improvvisamente il piano di Silver comincia a diradare la polvere del «lampo dei manipoli e l’onda dei cavalli» per assumere una flessuosa grazia femminile, placcato in seconda battuta dal sanguigno sax di Turrentine e dalla profondità della tromba di Tolliver che sembra raccontare una storia di soprusi e sofferenze; quindi un finale nuovamente sul piede di guerra sferzato da una pioggia torrenziale di note.

«Jungle Juice» è un funk nervoso dal sangue misto, che sembra vagare in una giungla di pensieri, narrati alla perfezione come una telescrivente dal sax e dalla tromba, mentre il piano sembra seguirne il passo in maniera cadenzata, per poi avallarne gli assunti con un assolo elaborato quasi in copia carbone, mentre il racconto sonoro continua sotto dettatura per volere degli ottoni. «Kindred Spirits», sono le affinità elettive, gli spiriti diventano bollenti, mentre tutti i sodali ritrovano la loro analogia di pensiero legata al blues. «Next Time I Fall In Love» assume le sembianze di una ballata trascritta su carta millimetrata dal piano di Silver, dalle cui vene zampilla un misto di soul e di pathos. Senza condizionamenti esterni, con «Serenade To A Soul Sister», il prode Orazio ha continuato a tracciare le coordinate della perfetta navigazione, mentre in quell’anno il mondo del jazz era un mare in tempesta, fissandone la rotta ed i precisi punti d’ancoraggio, che diventeranno materia di studio ed un faro illuminante per quanti dopo di lui avrebbero voluto veleggiare nelle acque del soul-jazz. (Horace Silver – «Serenade To A Soul Sister», 1968).

Horace Silver

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *