Un corsa, anche ad ostacoli, fra gli impervi ed accidentati tratturi del jazz contemporaneo, con un visone allargata e multiprospettica su mondi altri, per poi andare a ritroso e scoprire la cinetica forza d’urto della scena newyorkese, da sempre signora e padrona…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ci sono delle forme di jazz europeo che s’imbevono degli umori e degli amori del territorio in cui fioriscono. Il jazz, sia pure nella sua quadratura e nella sua postura più tradizionale, è una spugna che assorbe e rielabora, dentro il variegato crogiolo ritmo-armonico, istanze e sofferenze locali, passioni e turbamenti provenienti da ogni dove. Di certo, non tradisce talune aspettative o certi consolidati assiomi creativi l’album «Beyond Motion», il nuovo progetto della pianista ucraina Katarina Kochetova, edito dalla A.MA Records di Antonio Martino, produttore sempre attento ad intercettare i fermenti provenienti dall’Est-Europa. Si potrebbe parlare di esplorazione in lungo e largo sui vari territori del jazz moderno, un post-bop autoctono e contemporaneo, supportato da una forte preparazione accademica. Basta sentire l’opener, «Self Portrait», in cui lo sgorgante zampillo pianistico di Katarina si dirama in ogni punto con la medesima intensità come l’ombrello di una fontana, quasi un principio fisico (quello di Pascal), producendo una sensazione di freschezza e un elevato indice benessere. Stricto sensu, trattasi di una convincente elaborazione in piano trio di un modulo jazzistico alquanto personalizzato ed allargato agli inserimenti di due sassofoni: un tenore ed un contralto che ravvivano ed illuminano alcune vie di demarcazione del costrutto sonoro, apportando elementi di forte caratterizzazione strumentale ed ambientale.

Non c’è da aspettarsi il classico piano trio, addormentato sul tipico manierismo intimistico e tediosamente cameristico, per quanto non manchino i momenti riflessivi che introiettano tensione e pathos puntualmente, però, risputati verso l’esterno; per contro l’album è pervaso da una palpabile inquietudine emotiva per l’assurda situazione che la terra madre di Katarina Kochetova vive da un paio di anni, a causa di una guerra assurda e quasi fratricida. Tutto ciò emerge subito, in seconda battuta, da «Ntytwtatst (Things We Say)». Alcune costruzioni sonore, come la suddetta, esplodono prepotentemente attraverso una rabbia riottosa e malcelata che rende l’intero concept vivo e sanguigno, grazie allo scambio telepatico e al dinamico interplay di Katarina Kochetova al pianoforte, Hugo Löf al contrabbasso, musicista dal tocco potente, astro nascente della scena jazz svedese e Matheus Jardim alla batteria, nato in Brasile e dotato di un senso dell’orientamento innato per il ritmo. Non sono da meno i due sassofonisti ospiti: Jure Pukl, originario della Slovenia, capace di portare il livello emozionale collettivo e la tensione personale al climax espressivo e Joander Cruz secondo brasiliano in squadra, sopraffino altoista in grado di tracciare diferenti prospettive melodiche che arricchiscono il già opulento parenchima sonoro della Kochetova. Una conferma arriva dalla terza traccia «Untiteled4#», una magnifica odissea avvolta in sudario di sofferenza, in cui il sax di Joander Cruz sembra scandire talvolta con dei riff taglienti, altre volte con pungenti ostinati. Forse sono solo suggestioni ma il «canto» del sax in «Hemma», una ballata soffusa e crepuscolare, ci mette il carico da undici, così come l’elemento drammaturgico raggiunge un notevole livello di voracità esecutiva. In quanto a divoramento intimo-centripeto e turbamento dell’animo gentile della Kochetova, «Holmstock» e «Ballad For Natasha» non sono da meno, anzi lo sono di più. Sicura di un ensemble di tutto rispetto, l’eclettica pianista di Kiev, dotata di una genetica padronanza del pianoforte, nonché di una distintiva capacità compositiva, spazia attraverso un itinerario musicale che, a livello percettivo, sembrerebbe attraversare universi paralleli e sistemi provenienti da differenti latitudini e costellazioni sonore, con una capacità innata di attrarre come una calmata differenti lemmi e fonemi, sviluppando così un debordante ed avvolgente riverbero creativo di tipo globale. Il background classico di Katarina, talvolta, è solo un terreno di coltura su cui impiantare variegate sementi melodico-armoniche, ibridi tematici e complessi arrangiamenti dislocati fra lo yin e lo yang della tradizione e dell’innovazione.

«Beyond Motion» è un concept cinematico che si srotola in maniera sequenziale davanti «agli occhi» del fruitore, il quale sembra vedere ciò che ascolta: il trasferimento della sensazione si ripente magicamente ad ogni ascolto. Il disco è un corsa, anche ad ostacoli, fra gli impervi ed accidentati tratturi del jazz contemporaneo, con un visone allargata e multiprospettica su mondi altri, per poi andare a ritroso e catalizzare la cinetica forza d’urto della scena newyorkese, da sempre signora e padrona di tutti i «sudditi» del jazz europeo: saper guardare ai maestri non è certo una deminutio capitis. «Bass Intro», con l’ottimo Hugo Löf al contrabbasso, diventa propedeutico alla title-track «Beyond Motion», in cui tutti i sodali si esprimo al top: una ballata mid-range, caratterizzata dai molti cambi di passo e di mood, che sottolinea ancora una volta l’azzeccata scelta della pianista di Kiev di aggiungere due ance al progetto triangolare. «Eternal Goodbyes» è una corda elastica e molleggiata tesa fra Brasile ed America. In chiusura «Directions (In Time)», un sofferente abbandono frammentato tra piano e basso e assistito dal concreto lavoro del batterista Matheus Jardim. Il crescendo ritmico ci induce a pensare che, nonostante il distacco percepito e la durata fisica del CD, si tratti di un arrivederci e non di un addio. Il trio allargato non indugia troppo nel guardare lo specchietto retrovisore. Nel disco non ci sono nostalgismi o tributarismo, piuttosto Katarina e i suoi pards si spingono oltre i confini di quel jazz europeo, sovente standardizzato, parruccone, germanizzato e imbarattolato in un pesante contenitore di classicismi paludosi, ostentati e melliflui: in «Beyond Motion» l’energia zampilla a fiotti e la ridefinizione dei moduli espressivi è pressoché costante, mentre il jazz trova la sua forma mentis migliore.

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