«Legacy» di Paolo Fresu, tre modi di interpretare il jazz con una sola anima

Le composizioni sono vivide e visive, mai caotiche, spericolate e frattaliche, mentre i cromatismi sonori sono facilmente percepibili e di facile combustione, in particolare l’afflato melodico sembra avvolgere a spirale il fruitore sospingendolo in un’alcova di emozioni.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Paolo Fresu, nell’immaginario collettivo, è l’artista che meglio incarna l’idea di jazz italiano: un caleidoscopio sonoro fatto di influenze molteplici che punta costantemente verso i quattro punti cardinali della musica. Paolo Fresu, musicista proteiforme capace di cambiar pelle, di sperimentare, ricercare, allontanarsi dal nucleo originario del jazz per poi ritornare sui suoi passi nelle vesti di un novello Chet Baker che non disdegna di filtrare con saggezza ed oculatezza l’opera davisiana pensando a Rava. Il paolo Fresu delle collaborazioni importanti, catalizzatore delle più rinomate manifestazioni jazzistiche italiane, sedotto dalla musica accademica e operistica, che si affaccia sovente sulle musiche del Sud del mondo, che unisce tradizione e contemporaneità, che sa guardare in avanti ma con un occhio fisso allo specchietto retrovisore del vernacolo jazzistico americano e afro-americano, ma soprattutto il Paolo Fresu che sorprende e che sembra essere sempre un gradino più in alto, mentre tutti gli altri restano indietro cercando di capire dove stia andando e dove voglia arrivare. Fresu è una dinamo inarrestabile che si abbevera perpetuamente ad una fonte che non va mai in secca: festeggia e celebra traguardi, collaborazioni e anniversari, mai però come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, mentre la sua vena compositiva parrebbe ingrossarsi con il passare del tempo. Il nuovo triplo album, in CD e vinile, è la sintesi e l’epitome di un percorso inarrestabile e di una costanza scolpita nella roccia. Il trombettista/ flicornista di Berchidda nelle note di copertina scrive: «Ho iniziato giovane a fare musica e questa è diventata la mia vita. Mi sento fortunato e ho il privilegio di avere trovato nel mio cammino persone e artisti straordinari con i quali ho potuto condividere molte cose». Sono davvero tanti gli amici, le persone care, i collaboratori ed i musicisti che lo stesso Fresu ringrazia nelle liner notes, in primis il padre Lillino «che guarda da lassù sorridendo alle note, mia cugina Filomena che chiamava il nostro sogno ‘lo jazz’».
«Legacy», appena pubblicato dalla sua personale etichetta Tǔk Music, è un lungo giubileo collettivo che festeggia in modo tutt’altro che autoreferenziale (il torrente di musica improvvisata fuga ogni perplessità) alcuni punti cardine di una pluridecennale ed invidiabile carriera: i quarant’anni anni del suo Quintetto storico, i ventidue anni del Devil 4et e i vent’anni anni del Duo con Uri Caine. La copertina del progetto è di per sé una dichiarazione d’intenti: una visione di colori lineari ed appena sfumanti, che sembrano confluire l’uno nell’altro come le idee sonore che zampillano da ogni piega dell’album. Le composizioni sono vivide e visive, mai caotiche, spericolate e frattaliche, mentre i cromatismi sonori sono facilmente percepibili e di facile combustione, in particolare l’afflato melodico sembra avvolgere a spirale il fruitore sospingendolo in un’alcova di emozioni. L’opera è suddivisa in tre parti come una rappresentazione teatrale della vita in tre atti, in cui affiorano ricordi, inquietudini, amori e passioni. Le linee guide, o per intenderci i vari moduli espressivi ed esecutivi, sono definiti: «Improvvisi», in cui il musicista sardo è affiancato da Uri Caine ed i colori associati sono più crepuscolari, quasi notturni. «Improvvisi», costituito da dodici componimenti con il medesimo titolo contrassegnato da un numero progressivo, offre molte suggestioni, da segnalare l’inclusione di una ghost-track: «L’amante bugiardo». La singolar tenzone tra Fresu e Caine potrebbe essere considerata un duello, così come un duetto, un passo di danza a due, un’opera letteraria vergata da due scrittori diversi, portatori di stilemi differenti che a volte si compensano mutualisticamente, ma che in altri frangenti si muovono seguendo due tracciati autonomi, come due rette parallele che non s’incontrano mai, sia pur tendenti alla medesima direzione. L’asimmetria risulta assai propedeutica alla libertà improvvisativa, mentre il byplay è mercuriale. La risultante olistica e totalizzante scaturisce dal soffio di Fresu, con i suoi umori mutevoli e policromi, ricca di sentori atavici e nostalgici che s’impianta nel substrato armonico del pianismo dilatato e totalizzante di Uri Caine. Ciò che emerge in maniera preponderante è il perfetto equilibrio tra due differenti e marcate personalità musicali, due artisti atipici, da sempre interessati a cimentarsi con repertori che travalichino il ristretto perimetro dei generi e dei linguaggi. Qualsiasi loro mossa è finalizzata ad un precetto musicale che esprima non solo una forma interiore, ma che mostri anche un aspetto esteriore corrispondente all’idea di bellezza, in cui le melodie sembrano sgusciare una dall’altra come da una matrioska o da un un gioco ad incastri
«Impromptus» realizzato con il supporto del Devil Quartet, in cui il legame con i colori si porta più verso alcune gradazioni che conducono ad un blu elettrico contiguo alla fusion. Anche in tale contesto le traccie sono dodici, stessa denominazione numerata in progressione con l’aggiunta di un brano-fantasma dal titolo «My Man’s Gone Now». Nella musica del Devil Quartet, i sentimenti si confondono con l’ammirata esplorazione lirica di un paesaggio sonoro ideale, talvolta lussureggiante e sublime, altre volte puntellato da nuances cupe e fosche; un intreccio di melodie e ritmi quale riflesso perenne di un’esistenza complessa, di un reticolo fittissimo di esperienze e di sensazioni. Nelle varie composizioni si avverte una tensione superficiale che si trasforma progressivamente in una placida serenità: mentre la vocazione elettrica del Devil Quartet, a tratti, cede il passo ad una dimensione più intima: gli strumenti parlano, sospirano, si esprimono con affabilità colloquiale e con lirica immediatezza, mentre la chitarra di Bobo Ferra e gli ottoni di Fresu, in perfetta sinergia, si scambiano promesse per l’eternità, innescati dalla retrovie dalle cavate di Paolino Dalla Porta e dal kit percussivo di Stefano Bagnoli. Il Devil Quartet, rispetto al range abituale della formazione più votato ad una sorta di fusion elettrificata, in particolari frangenti, azzarda una virata netta verso la più naturale inclinazione di Paolo Fresu ad un jazz aggraziato, ma di spessore, più intenso, introspettivo e basato su melodie intellegibili, soprattutto sorretto su un lavoro collegiale, nella forma come nella sostanza. «Repens», in quintetto, con l’innesto in alcune tracce della chitarra di Ferra, rende l’idea di repentini mutamenti di passo e di mood, mentre le tinte associate appaiono più frastagliate e cangianti attingendo alla libertà dell’immaginario, ai sensi e ad una visione talvolta surreale. Altri dodici capitoli per una neverendingstory basata, contestualmente, sull’autonomia dei singoli e sulla sinergia dell’ensemble, a cui fa da contraltare la terza traccia misteriosa: «Only Woman Blleed». Paolo Fresu, tromba e flicorno, Tino Tracanna sax tenore e soprano, Roberto Cipelli piano e tastiere, Attilio Zanchi contrabbasso ed Ettore Fioravanti batteria danno vita ad una sorta di jazz decontestualizzato, un post-bop contemporaneo, dove il concept si sviluppa su una rete di arrangiamenti a larghe maglie e propedeutici all’improvvisazione perpetua come una ciclica catena di montaggio, un impeto espositivo libertario ed a tratti trasversale, in cui l’ordine sintattico risulta spezzato ed il ritmo ricreato al di là dei dettami della tradizione; così lo strumento di Fresu s’insinua in un fluorescente percorso armonico sospinto dalla pura immaginazione.
Nel complesso trattasi di un lavoro imponente, giocato su un’improvvisazione a controllo numerico, una sorta di ad lucem per tenebras che si sostanzia sulla scorta di cinquantanove brani – come già spiegato – ripartiti attraverso tre precise regole di ingaggio, calati in un precipuo habitat sonoro e legati da un aggregante humus creativo ed esecutivo. Nonostante la diversità delle tre fasi narrative, trattasi di un costrutto concettuale coerente, a cui il musicista sardo, nei panni di un abile demiurgo, fa da collettore e da collante. Il brand di «casa Fresu» è presente il lungo e largo per tutta l’opera come un fil rouge che lega il parenchima sonoro all’esistenza artistica e alle vicissitudini personali del musicista. Dice ancora Fresu nelle note di copertina: «Se la musica ci muove verso la luce, sono le relazioni a disegnare lo spiraglio libertario che oggi sembra mancare».

