PIRACCI-C

Un septet con vocazioni orchestrali che trova il suo punto di pareggio in un sistema di vasi comunicanti basato su un interplay dinamico ma non vincolato, imperniato su una serie di sapienti arrangiamenti a maglie larghe che consentono ai sodali di spaziare in un ampio territorio armonico…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nell’era di internet al quadrato asservita al virtuale, dove tutto appare perfetto e gestito da un insieme di algoritmi, i quali stanno diventando progressivamente una propaggine del cervello umano, nessuno prova più sensi di colpa, tanto che si potrebbe citare l’immarcescibile Ennio Flaiano che, in maniera estremamente predittiva, sosteneva: «Nella nostra epoca siamo rimasti davvero in pochi ad essere scontenti di noi stessi!». Perfino la musica, sovente schiacciata sotto il peso di una banalità livellante, sembrerebbe aver smarrito quell’elemento di diversità e di rottura rispetto all’omologazione, ossia quella capacità di essere non tesi ma antitesi, non canto ma controcanto, a meno che l’artista non riesca a manifestare un elemento di inquietudine e di insofferenza rispetto al normale fluire degli eventi provando un senso, se non di colpa, almeno di disagio da trasformare in una forza creativa fuori dal coro: nel jazz, da sempre, è condicio sine qua non.

Giacinto Piracci, affinato chitarrista napoletano, racconta la sua visione del mondo attraverso un tentativo di estraneazione simile a quella del regista Kurt Vonnegut, maestro nel raccontare le vicende umane come se l’uditorio fosse costituito da extraterrestri. Nelle «Sette Storie di Colpevolezza», «Seven Tales Of Guilt», c’è una sorta di catarsi liberatoria atta a raccontare le colpe di cui l’umanità continua a macchiarsi e di cui la principale pare essere quella di continuare a puntare sull’avere e non sull’essere, sulla forma e non sul contenuto, sul consumo e non sull’utilizzo. Al netto delle riflessioni sui massimi sistemi, il jazz politematico di Giacinto Piracci offre un’infinità di suggestioni. Un titolo come «And Darkly Bright, Are Bright In Dark Directed», ispirato del Sonetto 43 di Shakespeare, esprime una dualità contraddittoria, quasi l’epitome della civiltà contemporanea, nella quale convivono una luminosità oscura ed un’oscurità luminosa. Usato come opener dell’album questo brevissimo componimento ne diventa la sintesi ed il manifesto programmatico. Avvolto in un’aura sospesa ed ammantato da cromatismi chiaroscurali, il costrutto sonoro appare come il risveglio da un lungo torpore, una presa di coscienza: «per tenebras ad lucem», dicevano i Latini. Prodotto da Dodicilune, in «Seven Tales Of Guilt» Giacinto Piracci è supportato da Umberto Muselli (sax tenore), Giulio Martino (sax soprano e tenore), Francesco Desiato (flauto e sax baritono), Ergio Valente (piano), Umberto Lepore (contrabbasso) e Leonardo De Lorenzo (batteria). Un septet con vocazioni orchestrali – l’effetto è quello di una small (big) band – che trova il suo punto di pareggio in un sistema di vasi comunicanti basato su un interplay dinamico ma non vincolato, imperniato su una serie di sapienti arrangiamenti a maglie larghe che consentono ai sodali di spaziare in un ampio territorio armonico sulla scorta di moduli espressivi ed esecutivi intenti a lambire i quattro punti cardinali dello scibile jazzistico.

Sette componimenti, di cui sei originali scritti dal band-leader ed un omaggio finale a Duke Ellington tratto da «Second Sacred Concert». In «Heaven» emerge tutta l’inclinazione orchestrale di Piracci e soci, implementata dalla coralità dell’ensemble, dall’unisono dei fiati e dai singoli assoli strumentali ben profilati e sequenziali. In particolare, Piracci non inciampa mai sul narcisismo individualista da guitar-hero, tentando di surclassare o occultare i compagni di cordata: ci sono alcuni momenti cardine del concept in cui il sistema e l’apporto accordale sembra equamente suddiviso tra chitarra e pianoforte, riportando alla mente il lavoro di confluenza e di compensazione operato da Pat Metheny e Lyle Mays. Molti spunti creativi dell’album provengono da stimoli e istigazioni letterarie, soprattutto non mancano i riferimenti ai vissuti precedenti del vernacolo jazzistico del passato; cosi «Minor Figure» s’immerge in un humus shorteriano ricco di magnetismo ipnotico e di sobillazioni esoteriche, in cui i sassofoni trovano la loro perfetta compliance narrativa, insinuandosi fra le spire accordali della chitarra di Piracci. «Haiku In Eight Bars» è un costrutto basato sulla tecnica di certe poesie giapponesi che in pochi versi riescono a descrivere interi cicli legati alle evoluzioni naturali. Introdotto da un lungo assolo del sax tenore di Giulio Martino, il brano è contrassegnato del ripetersi di interventi collegiali, per poi srotolarsi una una ridda di assoli individuali. «Finzioni», ispirata dai racconti fantastici di Borges, è una costruzione sghemba e minimale, se non altro impalpabile, dove gli strumenti sembrano diradarsi e dileguarsi nella mischia, mentre i fiati garantiscono una sorta di ricamo ed abbellimento perimetrale, ad eccezione del baritono di Francesco Desiato che marca costantemente il territorio con un comping non dissimile a quello di un contrabbasso. «Ospedale delle Bambole» è una composizione di breve durata ma intensa nel suo effluvio tematico locupletato dagli innesti solistici del pianoforte di Ergio Valente e dal flauto di Francesco Desiato, i quali ne dilatano l’incanto sostenuti dagli intarsi melodico-armonici dei sodali. «Bartleby», che trova linfa ispirativa nel racconto di Melville «Bartleby lo scrivano», ha una struttura anomala, vagamente retrò e ricca di suspance, proprio come una storia fitta di misteri. L’inizio è affidato ad un scambio riverberato fra i due sassofonisti che sembrano rifarsi il verso, mentre il tema s’intensifica progressivamente con la solita regola d’ingaggio che alterna coralità d’insieme ed impennate solistiche. «Seven Tales Of Guilt» di Giacinto Piracci Septet è un album di notevole cubatura compositiva e strumentale che taglia trasversalmente l’idioma jazzistico, trapassandolo da una parte all’altra con un affilata lama creativa, un lavoro concettuale sospinto dalla precarietà terrena e dalle inquietudini contemporanee che allargano a dismisura il quadro percettivo del fruitore rafforzando il legame con la musica.

Giacinto Piracci
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