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Una bolgia di suoni affrancati da catene e vincoli accordali, dove stilemi riconosciuti, appena accennati, finiscono per dileguarsi in un miasma indifferenziato ed evirato delle scale tonali. Per contro, ci troviamo di fronte ad un concept arcano, geniale e imprevedibile, che misura il tempo e lo spazio della musica con una metodologia del tutto originale…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ci sono progetti che nascono all’interno di un laboratorio creativo, finanche virtuale: a volte gli artisti elaborano teorie surreali e le mettono in pratica cum grano salis, pur non disponendo di alambicchi o contenitori perfettamente modellati, quali un mercato o un genere di riferimento. L’attività di Matteo Paggi si sostanzia in un blob sonoro che oltrepassa il concetto di idioma codificato. Il suo non è un linguaggio trascrivibile, ma forse un metalinguaggio senza regole, un esperanto proiettato verso un habitat metafisico sempre in fieri. Sostiene il trombonista: «Words è un progetto che nasce dalla tesi di laurea. Ho sviluppato un metodo di composizione e improvvisazione personale basato sull’interazione tra parole, segni e le tre sfere (intellettuale, corporea e spirituale) che compongono l’essere umano». Essendo un’opera prima, Matteo ha coraggio da vendere, pensando a un disco non proprio facile da «vendere», quantomeno da posizionare in un mercato che solitamente segue delle direttrici di marcia alquanto allineate. Matteo Paggi, è un valido trombonista, allevato alla corte di Rava, eppure tira fuori dal cilindro la carta dell’unicità non classificabile, tentando un morganatico artistico con un nugolo di musicisti sui generis: Iara Perillo al flauto, Irene Piazza al violino, Anja Gottberg al contrabbasso, Anton Sconosciuto alla batteria e Mona Creisson al violino.

L’album sfugge alle regole canoniche di una struttura jazzistica concettualmente coerente, dilaniandosi tra avanguardia e scomposizione accordale, fra dissonanze armoniche e discrepanze ritmiche; un volo libero che osserva con una lente dilatata un futuro inquieto ed inquietante, dove strani e lunatici figuri si agitano su un orizzonte che appare quanto mai indistinto. L’opener, «La gente in discoteca nel futuro», forse con una sottile ironia, immagina il popolo della notte, gli abituali frequentatori delle piste da ballo come impantanati in una palude sonora, ammantata da una fitta coltre di nebbia, mentre sonorità sospese e frantumate si infittiscono tutt’attorno in uno scenario dai contorni non tracciabili, in cui la propulsione ritmica, un flauto privo di consapevolezza armonica ed un trombone minaccioso sembrano essere più indicatori di marcia verso un’uscita di sicurezza che non un invito ad entrare in luogo deputato alle attività ludico-evasive. Il flusso sonoro si disperde senza una canalizzazione ben precisa, cosi si oltrepassa perfino la linea Maginot di un free jazz di ritorno, tanto che «Dreaming of Fossaverde» diventa una lunga escavazione ritmica basata su un groove minerario, impiantato in un sottosuolo di sonorità appena accennate come punti di sutura. Non c’è soluzione di continuità, al punto con «Speaking of Fossaverde» l’abisso sonoro trivella ancor più in profondità raggiungendo baratro coibentato al fine di non far disperdere le onde sonore che riaffiorano in superficie come scariche elettriche, mentre il trombone fa imbuto e da valvola di sfogo.

Al quarto passaggio, si giunge finalmente al nucleo gravitazionale della «Fossaverde» con i violini che intonano un canto quasi ancestrale, abrasivo e sgolato come sirene d’allarme atte a richiamare un imminente pericolo in arrivo. Più che all’interno di una camera per archi, il fruitore si trova catapultato in una camera di decompressione a sottovuoto spinto, la quale attenua i suoni, riverberandoli sule pareti di una struttura a tenuta stagna. Quasi un ostinato di otto minuti e rotti che descrive la vita nel sottosuolo prima che possa germogliare e vegetare sulla terra ferma, quella calpestata dagli umani. Siamo in dimensione post-avanguardia nel regno degli Avengers, in cui si tenta di aprire un varco nel polidimensionale, dove la forma del jazz in divenire viene solidificata e sagomata da una stampante in 3D. «Morire con la sabbia tra le dita», ancora una provocazione indotta da un senso di inquietudine, dove la musica diventa un cantico funerario, una marcia a schema libero che consegna le ceneri del mondo conosciuto disperdendole nei meandri di una civiltà lontana, in cui ognuno degli esecutori sembra agognare una meta differente. Polverizzazione degli schemi e libertà espressiva a 360°. In conclusione, «Mountain», una scalata senza legacci armonici e protezioni ritmiche su una parete sonora liscia come uno specchio riflettente cosparso di grasso, quasi un girone dantesco dove si sale e si torna indietro ripetutamente, come in un supplizio, mentre un flauto di legno ricavato da un salice piangente accompagna le corde vocate al sacrificio di un violino straziato. «Words» di Matteo Paggi», pubblicato dalla AUT Records, non è di certo una passeggiata fischiettante lungo un viale fiorito in «un giorno di allegrezza pieno», come direbbe il poeta corregionale del trombonista, ma una sauna ad alta temperatura in un una bolgia di suoni affrancati da catene e vincoli accordali, dove stilemi riconosciuti, appena accennati, finiscono per dileguarsi in un miasma indifferenziato ed evirato delle scale tonali. Per contro, ci troviamo di fronte ad un concept arcano, geniale e imprevedibile, che misura il tempo e lo spazio della musica con una metodologia del tutto originale ed una norma compositiva ed improvvisativa brevettata dall’autore.

Matte Paggi Words
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