// di Francesco Cataldo Verrina //

Senza un pianoforte e con una prima linea tematico-narrativa affidata al trombone, di per sé gravido di tensione, e alla chitarra che ricama soffuse linee armoniche, un qualsivoglia disco jazz rischia di caratterizzarsi in maniera inequivocabile: diventare un gioiello di arte jazzistica sotterranea, avvolta in un’atmosfera languida e brunita, a cui fa da sfondo una metropoli dai colori plumbei, oppure trasformarsi nella colonna sonora ideale di un noir francese. Nell’album «In The Pocket» di Francesco Mancini Zanchi si accavallano un’infinità di suggestione più di natura emozionale che strumentale, sebbene la musica contenuta nell’album assolve perfettamente alo scopo. Il disco, pubblicato da Notami Jazz, è impeccabile sotto il profilo esecutivo, la qualità del suono è eccellente, gli strumenti bilanciati, le idee compositive non mancano, ma il costrutto nel suo insieme sembra voler rimanere intrappolato in cunicolo sotterraneo, nel sottosuolo in una città nascosta dove accadono tante cose: passioni, sentimenti, amori giovanili, confitti generazionali, sogni, ricordi, ma tutto ciò che avviene, metaforicamente parlando, non si vede in superficie. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a una dimensione calvianiana al contrario: per paradosso «Le città invisibili» di Italo Calvino si vedono, per quanto siano frutto d’immaginazione. È ovvio che il racconto sonoro, operato dal bassista Francesco Mancini Zanchi con il sostegno di Andrea Angeloni al trombone, Daniele Bartoli alla chitarra e Stefano Manoni alla batteria, sia voluto ed alquanto riuscito nella sua dimensione, ossia quella che traspare. Nulla da obiettare sulla stesura dei sette brani che compongono il progetto e sulla scelta di un reiterato «andamento lento» frutto, probabilmente, di un residuale classicismo eurodotto e di un italico melodismo che, per paradosso, diventano il valore aggiunto dell’album.

«Student» è una efficace struttura funkified in tessuto pregiato, perfettamente aderente alla sagoma una città ideale, popolata di studenti e fitta di vividi umori, rumori, voci, ritmi e colori. Il componimento è caratterizzato da un’ottima linea di basso e da una batteria che non lascia aria ferma, magnificata da un trombone con forti capacità descrittive, sonore ed ambientali, mentre la chitarra assurge al ruolo di guida fornendo il substrato armonico. «Children Waltz» si sostanzia come uno struggente peana sonoro sfumato nello sguardo di un bambino, esteso nella forma e nella sostanza, in cui tutti gli strumenti trovano la giusta forma espressiva, mentre il trombone aggiunge un’aura di languido e sofferente misticismo terreno. «Fly To Me To The Sky» è un volo onirico calato in un’atmosfera dilatata e brunita, in cui momenti di profondo e siderale lirismo si alternano a una melodia ostinata ed a presa rapida, specie nei cambi di passo e di mood,. «Our Heroes» assume le sembianze di una ballata dal sapore epico e dal tratto quasi cinematografico, giocato su uno sviluppo tematico sdrucciolevole, di cui chitarra e trombone diventano i principali emissari, guidati da basso e batteria in perfetta simbiosi. «Underground Groove» è un costruzione basata su un mood soulful, slombato ed ammiccante, che richiama una Parigi autunnale, tra foglie morte ed amori impossibili, e da un groove leggero che spinge la melodia negli abissi sotterranei dell’anima, mentre il trombone gioca d’azzardo con un languido ostinato ed un swing nottambulo. «Intersezione», complice il kit percussivo, si solidifica attraverso il cadenzato walking del basso che fa da indicatore di marcia al trombone e alla chitarra, esploratori di una dimensione vagamente diafana ed impercettibile. «Play With My Friend» è l’alba di un nuovo giorno in cui luci ed ombre si compensano e dove i quattro sodali trovano la giusta complicità nel piacere di suonare.

«In The Pocket» di Francesco Mancini Zanchi ha i pregi e i difetti di un’opera acerba in cui l’entusiasmo e la collegialità superano il desiderio di osare: alcuni tratti del percorso sono ancora eccessivamente scolastici, per quanto corretti, sintatticamente precisi e ricchi di suggestioni nella forma; nella sostanza al disco, che scorre piacevole e senza intoppi dalla prima all’ultima nota, manca quella audacia e quell’imprevedibilità tipica di un jazz non solo suonato, aggiungo ben suonato, ma perfino rivoltato su sé stesso, destrutturato e messo in discussione nelle sua regolarità ed istituzionalità idiomatica. Le avvisaglie sono buone ma c’è ancora un po’ di strada da fare. Il talento non manca e neppure il tempo. Nel jazz sono determinanti anche l’esperienza e il mestiere, per quanto tutto ciò possa sembrare prosaico, il motto è memento audere semper!

Francesco Mancini Zanchi

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