Haiku, con il disco omonimo, il jazz nella sua molteplicità espressiva

Loro forma compositiva è espandibile su un modello di fusion moderna che privilegia le regole d’ingaggio del jazz-funk, a cui si aggiungono marcate simpatie per l’elettronica e l’effettistica.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Gli Haiku sono figli del loro tempo, dove spesso i confini spazio temporali fra i vari linguaggi sonori si assottigliano, a volte confluiscono l’uno nell’altro in maniera quasi sfumata ed impercettibile, mentre tutto sembra sorgivamente incanalato in quella multidimensionalità tipica del jazz contemporaneo che si nutre di stimoli molteplici provenienti dai quattro punti cardinali della musica. Federico «Privi» Privitera (tromba e tastiere), Andrea Salvato (flauto e synth), Costanza «Skalli» Bortolotti (chitarra elettrica), Vyasa Basili (basso elelettrico), Alessandro Della Lunga (batteria) non sfuggono alla tentazione di mescolare stili, generi e metalinguaggi organici o limitrofi al jazz, ma con la disinvoltura e la naturalezza di chi vive l’hic et nunc della musica senza nostalgismi per il passato recente o remoto, piuttosto che eccessive smancerie nei confronti delle avanguardie più estreme. L’equilibrio instabile e multitasking del loro album d’esordio, pubblicato su CD e in digitale per l’etichetta Sun Village Records con distribuzione I.R.D. e Believe International, è l’epitome di una generazione polimorfica. Il disco, che reca in calce il nome della band, è soprattutto la conferma del desiderio di non voler cadere nella trappola dello stereotipo o del manierismo calligrafo che spesso affligge molti recenti prodotti legati al jazz.
Gli Haiku nascono nel 2020 a Bologna, città alquanto disponibile ad accogliere ed agevolare il legame tra fermenti sonori di ogni tipo. Il nome Haiku si rifà alla forma poetica nata nel Giappone del XVII secolo, caratterizzata da un’espressività immediata, intensa e diretta che diventa una sorta di manifesto programmatico della loro forma compositiva espandibile su un modello di fusion moderna che privilegia le regole d’ingaggio del jazz-funk, a cui si aggiungono marcate simpatie per l’elettronica e l’effettistica. Nelle otto composizioni originali s’intrecciano anime e corpi con differenti predisposizioni al verbo sonoro, le quali confluiscono in un crossover solido e convincente in cui coabitano groove funkified, breakbeat hip-hop e armonie soul. L’occhio teso allo specchietto retrovisore serve alla giovane compagine da orientamento sul passato, ma nuovi orizzonti si schiudono costantemente nelle dinamiche dei singoli brani giungendo progressivamente alla conquista di un sound autentico e personale.
Registrato allo @Sghetto Club di Bologna, con la suggestiva cover art di Cicca col Cappello, «Haiku» è un lavoro che si snoda su un percorso sinusoidale ad ampio spettro, partendo dall’architettura ritmico-armonica del brano eponimo, posto in apertura, che si srotola negli anfratti di un jazz-funk metropolitano, in cui flauto e chitarra diventano i principali vessilliferi del tema per poi compenetrarsi nel finale. «Cupa Cupa» riemerge dalle nebbie del passato incartata in un pakage moderno, per la serie come stravolgere e dare nuova vita ad una antica melodia lucana, la quale viene reimmaginata e proposta attraverso una forma di moderno storytelling. «Two of Us», magnificato dalle progressioni del flauto e della chitarra, s’inabissa in un labirinto di note, dove elementi soul-funk danno ospitalità ad un habitat vagamente chill-out, in cui la mescolanza di elementi provenienti da filoni diversi, si traduce in piacevole melting-pot sonoro. «051», dal prefisso telefonico della città emiliana, è un omaggio a Bologna trasformata idealmente in una sorta di metropoli americana che richiama l’epoca della Blaxploitation e di certi polizieschi nati con «Sweet Sweetback’s Baadasssss Song» e portati alla ribalta dal successo commerciale di «Shaft», le cui colonne sonore erano imperniate su un coriaceo street-funk da «combattimento» distillato da un patto di fratellanza tra basso e batteria.
«Spirit Dance» esprime il mood più elettronico dell’album, sia pur partendo da una costruzione jazz non dissimile a quello di un classico standard, attinge a piene mai a taluni modelli fusion in cui l’effettistica e l’elettronica risultavano geneticamente dominanti. In «The Chase» fa capolino un diavoletto rock ed inquieto con una chitarra elettrica in vena di follie, nonché una progressione simil-psichedelia liofilizzata. «Nostalgic» si tuffa negli anni Ottanta sulla scia di una ridda di sintetizzatori che disegna l’estetica di un momento fortemente iconico ed attrattivo per le nuove generazioni. In chiusura, quasi un’uscita in sordina da un cunicolo sotterraneo che si aggroviglia su una spirale trip-hop, dove lo sviluppo melodico trova la sua dimensione su un tappeto ritmico di tipo acrilico. «Haiku» è frutto maturo di un’epoca fatta di convergenze, dove differenti costitutivi sonori sembrano frammentari e centrifugati, ma legati ad un preciso hub che diventa il collante ed il leitmotiv di un progetto basato sulla fusion espansa.
