RED GARLAND QUINTET CON «ALL MORNIN LONG» DEL 1958, UN CLASSICO DA RISCOPRIRE
// di Francesco Cataldo Verrina //
A volte nel jazz si creano delle alchimie particolari al netto delle gerarchie strumentali o della fama dei singoli partecipanti ad un set. Si potrebbe dire che nel jazz esista «quell’attimo fuggente» da cogliere al volo ed al momento. Ci sono luoghi e circostanze dove si sono consumati eventi irripetibili, pur senza che i partecipanti ne fossero consapevoli. Senza scadere nella facile omelia celebrativa dei gusti personali va detto che Red Garland, stimabile ed amabile pianista, partecipe di set epocali nell’ambito della storia del jazz moderno, non sempre ha avuto una considerazione da parte dei media che fosse pari alla sua abilità compositiva ed espositiva; soprattutto talune sue composizioni si muovono ancora agilmente con fluidità (a-)temporale, schivando la calcificazione, l’incrostazione e la gravosa usura degli anni.
Pur non essendo il musicista più famoso tra coloro che parteciparono a questo set, Red Garland ne fu il vero deus ex-machina, non solo a livello organizzativo e direttivo, ma anche a livello musicale, mostrando di sapersi muovere a 360° in un mondo in cui spesso era difficile trovare il sostentamento necessario per uomini e mezzi. Il suo colpo da maestro fu «A Morning Long», la title-track, una sua lunga composizione della durata di oltre 20 minuti che ricopre l’intera prima facciata dell’album. Registrato il 15 novembre del 1957 al Rudy Van Gelder Studio, il disco fu immesso sul mercato dalla Prestige nel 1958. Oltre a George Joyner al basso e Art Taylor alla batteria, il pianista Red Garland coinvolse nel progetto Donald Byrd alla tromba e John Coltrane al sax tenore. Garland condivide la scena con gli altri due solisti, ma senza ma i perdere il controllo o abdicare, nonostante Byrd fosse un esecutore in carriera con un suono ben delineato e Trane stesse già tentando di tracciare i contorni di un suo stile, al fine di aprirsi un varco attraverso un personale modus agendi nell’ambito del jazz di quegli anni.
Come in quasi tutte le registrazioni della Prestige della fine degli anni ’50, affinità elettive tra i sodali e tecnica di studio durante il set risultano impeccabili: erano anni di ricerca, competitività e di forte tensione emotiva. L’idea che si percepisce è di trovarsi al cospetto di musicisti ispirati da una forza quasi divina ed ammantati da uno speciale stato di grazia che permane dal primo all’ultimo microsolco. Nello specifico, i nomi in cartellone, sia pure con differenti livelli d’importanza, sono in seguito diventati tutti figure iconiche del jazz moderno. Garland cerca di mantenere le ruote del treno musicale sui binari, con la complicità di Art Taylor e George Joyner, mentre Byrd e Coltrane offrono assoli estesi, deformando e riformando «They Can’t Take That Away From Me» di Gershwin, dilatato sull distanza di dieci minuti e ventinove secondi e sua estesa superficie creativa (o ri-creativa), tanto il classico standard viene srotolato e trascinato attraverso un flusso di note costantemente inventivo, come un torrente impetuoso che precipita a valle, mentre i solisti svolazzano liberi per poi decollare nella medesima direzione, attraverso un lavoro assai astuto ed accattivante sulla melodia, in particolare durante le lunghe improvvisazioni. Non c’è ancora il Coltrane spirituale ed introspettivo, ma i suoi assoli sono gioiosi e coinvolgenti. Anche nel terzo brano, «Our Delight» di Tadd Dameron, nonostante il coinvolgimento di Coltrane e Donald Byrds, la vera star è Garland, il quale fa di tutto per mantenere la titolarità effettiva dell’album, il metodo applicato all’esecuzione del blocco degli accordi è pieno e determinante, mentre l’interazione con i sodali risulta propedeutica alla buona riuscita del set.
Questo quintetto, sotto la guida del pianista Red Garland, in realtà aveva già suonato a New York nell’autunno del 1957, ma anche se ciò non fosse avvenuto, il loro rapporto in studio sarebbe stato comunque eccellente. Garland e Coltrane avevano operato insieme nel Miles Davis Quintet; pensiamo anche al trio di Art Taylor con Garland, mentre Donald Byrd aveva lavorato con tutti in una forma o nell’altra. Ciò che «A Morning Long» restituisce all’ascoltatore sono proprio il senso di collegialità e le affinità musicali di tutti i partecipanti al set, che fanno di questo album un altro piccolo gioco di magia musicale da estrarre da cilindro. Lasciatevi ammaliare!