BILL FRISELL CON “BLUES DREAMS”: INTORNO, VICINO, NEI PARAGGI, O SE PREFERITE NELLE VICINANZE DEL JAZZ O PER I PIÙ INTRANSIGENTI “FAR ABOUT JAZZ”

// di Marcello Marinelli //
“La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” Era una delle sue domandi tipiche del programma di Gigi Marzullo ‘Mezzanotte e dintorni’ che rivolgeva ai suoi ospiti. Il tanto vituperato Gigi Marzullo preso di mira dalla satira per il suo stile, tipo ‘si faccia una domanda si dia una risposta’, però considero la sua domanda sui sogni, degna di nota. Richiama al senso dell’esistenza e sul significato ultimo della vita e per quanto mi riguarda se guardo indietro le vicende della mia vita mi sembrano legate al sogno o all’irrealtà o ad una dimensione fantastica. I sogni aiutano a vivere meglio è un’ovvietà, senza sogni virtuali o no la nostra vita sarebbe priva di interesse e quindi i sogni, le motivazioni e gli interessi collegati sono necessari per definire una vita degna di essere vissuta.
Chi nasce però dalla parte sbagliata del mondo o chi è particolarmente sfortunato per motivi non addebitabili ad una cattiva condotta, la vita non è un sogno, diventa un incubo e la vita è solo lotta per la sopravvivenza e magari nel momento onirico notturno i sogni forse, danno un po’ di sollievo alla vita tribolata e comunque le persone che cercano di fuggire dalla loro terribile esistenza perseguendo il sogno di migliorarla. ‘Blues dreams’ è il nostro subconscio onirico, dico ‘nostro’ riferendomi agli appassionati di musica afroamericana, che non possono prescindere da quel substrato culturale dell’origine del tutto, il blues. Certo che per popolare i nostri sogni i protagonisti dell’epopea afroamericana sono passati anche attraverso incubi diurni perché una cosa, in questo caso il sogno, è composto anche dal suo contrario figurato l’incubo, legati indissolubilmente da una relazione storica di dolore. Ora però fatte queste premesse sulla natura da incubo del nascere del blues cerco di focalizzare la mia attenzione solo sul carattere bello e positivo della natura del sogno blues, spurgato da considerazioni storiche.
Bill Frisell con questo disco omaggia la storia americana in musica dedicando al blues l’importanza che merita come tratto distintivo della sua cultura insieme ad altre forme di espressione musicale di altra natura. Col primo brano che dà’ il titolo all’album siamo dentro questa storia musicale e anche dentro un itinerario geografico, siamo situati nel sud degli Stati Uniti d’America, siamo nel Missisippi, la culla del blues e mi piace pensare anche in compagnia di Win Wenders perché questa musica sarebbe perfetta per un road movie, la tromba rauca di Ron Miles e le chitarre di Bill Frisell e Greg Leisz descrivono un mondo, echi di mondo. Il secondo brano “Ron Carter” dedicato al grande bassista è un bellissimo blues a cui si aggiungono rispetto al primo pezzo il contrabbasso di David Pilctch, la batteria di Kenny Wollesen, il sax di Billy Drewes e il trombone di Curtis Fowlkes e il solo incrociato tra le due chitarre è da brividi, arrangiamento perfetto con i fiati che fanno da contrappunto. “Pretty Flowers Were Made For Blooming” e “Pretty Stars Were Made To Shine’”e “Were Do We Do” sono intrisi di elementi country, soul, gospel , oserei dire la summa della musica americana pre jazz dove il blues fa da collante, tiene insieme le varie anime. Ho sempre avuto remore nell’utilizzare il termine ‘patriottico’ nel mio lessico comune per le connotazioni non sempre positive o ambigue, che questo termine evoca, almeno dal mio punto di vista, ma per questo disco farei un’eccezione, lo definirei un disco di musica patriottica americana, riabilitando un termine e un concetto a me inviso storicamente, il lato bello dell’essere ‘patrioti’.
Musica patriottica perché dovrebbe essere sentita come tale da tutti gli americani di ogni credo, razza o religione e pacificare le varie anime di cui è composta. “Outlaws” è sempre un incedere blues e come non evocare un altro aspetto della storia americana fatta anche di famosi fuorilegge e come escludere i fuori legge da questa storia composita. “Episode” un frammento di 47 secondi, un capolavoro di 47 secondi, Davis dietro l’angolo. Geograficamente e musicalmente ci spostiamo in continuazione tra Mississippi, Tennesse, Lousiana e Alabama, blue grass, cajun, rockabilly, insieme e intrecciate alla musica nera. Echi di marching band col trombone di Curtis Fowlkes in evidenza in “Soul Merchant”. In “Greig Leisz” musicista del gruppo Bill Frisell omaggia il compagno di disco col titolo del brano omonimo e si ritorna alla lentezza e alla profondità del blues con arrangiamenti sublimi e la ricerca della sonorità perfetta, echi di America rurale, musica d’insieme, intreccio magico tra gli strumenti e tra i musicisti del gruppo. Improvvisamente con “The Tractor” si ritorna ad una tipica ballata country con mandolino e lap steel, alternanza di umori e di atmosfera con i fiati a fare contrappunto poi un frammento solo tromba e trombone uscito al nulla o di inno di non so che cosa. “Slow Dance” ancora country-blues con pedal, lap, national guitar. Le cose non possono essere le stesse “Things Will Never Be The Same” commovente tributo alle radici della musica americana un po’ rock bluescon le chitarre impazzite e i riff di fiati che sottolineano la pazzia. Si finisce col ritorno ai sogni, “Dream On” e “Blues Dream” (reprise) e al blues nudo e crudo, il gruppo è una voce sola e si ritorna all’introspezione e alla musica degli antenati. Ripongo il disco nella custodia con soddisfazione e dico a me stesso: è stato bello sognare.