Trios Charles Lloyd, tre Album, perché Tre è Il Numero Perfetto: «Chapel, «Ocean» e «Sacred Thread»
//di Francesco Cataldo Verrina //
Pur mostrando una particolare devozione pere radici del jazz, Charles Lloyd è sempre stato un artista non facilmente circoscrivibile, un impollinatore trasversale ed imprevedibile, che in sessant’anni di carriera ha sempre sorpreso ed incantato gli amanti della musica tout court, trascendendo spesso e volentieri dalle normative e dalla rigida disciplina jazz. Un musicista globale capace di viaggiare sulla spinta di una fervida e fertile immaginazione in culture molto lontane dalle sue origini jazzistiche partite dalla West Coast, sua prima casa spirituale, quando da adolescente nella Los Angeles del 1956 studiava Bartók di giorno e, di notte, suonava con l’allora sconosciuto Ornette Coleman, frequentando i Beach Boys durante il suo ritiro dalle scene a metà degli anni Settanta. Dopo molti decenni di sperimentazioni e frequentazioni musicali a vario titolo, nel 2018, per registrare l’album legato all’ottantesimo compleanno che ne sanciva in ritorno in grande stile, scelse un locale di Santa Barbara, ubicato nei pressi della sua dimora californiana. Con «8: Kindred Spirits (Live from The Lobero)», l’indomito guerriero ha fissato le future coordinate sonore e le regole d’ingaggio di quelli che sarebbero stati gli anni avvenire, sfidando le intemperie della vita, non curante dei limiti anagrafici, alla medesima stregua di un highlander che si prepara a vivere una terza giovinezza artistica. Avendolo visto in azione per ben due volte, negli ultimi tre anni, al Teatro Morlacchi di Perugia in occasione di Umbria Jazz (2019 e 2022), la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un uomo ancora sano e ben saldo sulle gambe, magari rallentato nei movimenti, ma lucidissimo. Quando tocca il sassofono o il flauto tutto il resto sparisce, perfino i chitarristi dei quali ha sempre amato circondarsi, ed egli sembra dialogare intimamente con gli Dei. Tale ambientazione rivive nella recente trilogia realizzata sotto il marchio Trios Charles Lloyd, tre capitoli di un percorso umano, sonoro e spirituale pubblicati anche in vinile, uno alla volta in date diverse e in un arco di tempo che va dalla metà alla fine del 2022: in ciascuno dei tre set il sassofonista è accompagnato da differenti line-up.
A ottantaquattro anni di età, dopo la pubblicazione di numerosi album per Atlantic, Columbia, ECM e Warner Music, Lloyd estende il suo legame con il ventunesimo secolo affidandosi alle cure di un’accogliente Blue Note e sicimenta in una tripletta muovendo, con spirito libero, da un alveare sonoro da cui fuoriescono sciami di psichedelia, world music, blues, southern-rock, tex-mex, musica indiana ed essenze classicheggianti, sempre confortato dalle radici e dal background jazz che costituiscono un solido basamento su cui impiantare qualunque tipo di contaminata, antitetica ed esotica struttura musicale, attraverso una ricognizione personale che diventa un’esplorazione finalizzata ad approfondire forma e sostanza della propria estetica. Il primo dei Trios, «Chapel», prende il nome dalla Elizabeth Coates Chapel di San Antonio, in Texas, dove è stato registrato. I sodali scelti da Lloyd sono il chitarrista Bill Frisell e il bassista Thomas Morgan, musicisti già correi in un paio di sommessi album per la ECM, «SmallTown» (2017) ed «Epistrophy» (2019). Frisell era stato a fianco di Lloyd nei Marvels, i quali avevano precedentemente registrato per la Blue Note, tanto che il legame ed il rapporto di reciproco interscambio risultano piuttosto spontanei. I due sodali, sospinti da un karma sonoro superiore per sottigliezza ed intuizione, apportano tutto il loro bagaglio di esperienze, evidenziato da una riconfiguarzione quasi liquida e sfumata di «Blood Count» di Billy Strayhorn, suonata con devozione e splendidamente maliarda: una delle più seducenti versioni di sempre. Nel complesso, il trio mostra un tocco leggero, spennellando cromatismi tenui e delicatamente graziosi che risuonano nell’aria, trasportati dalle vibrazioni delle antiche mura di una mistica cappella. Il suono di Lloyd è gentilizio e signorile, simile a quello di un falco reale, lontano, però, dall’idea di un inquieto volatile alla Charlie Parker; per contro appare piuttosto dotato di una vera e propria elocuzione ornitologica. Sfogliando le vecchie pagine del suo repertorio, riaffiora «Song My Lady Sings» risalente al 1966, in cui Lloyd raddoppia il tempo, mentre l’archetipo cubano di «Ay Amor», pur mantenendo un’aura di esoticità resta anni luce lontana dal tipico flavour latino e festaiolo. Frisell è succinto nel suo vibrante proferire, le note e gli accordi risuonano limpidi e naturali, privi di artificiosità tecnica e senza abbellimenti superflui, mentre il contributo di Morgan garantisce un supporto calibrato. «Beyond Darkness», infarcita di flauti e perifrasi fiabesche, permette al trio un’interazione piuttosto sottile e raffinata. Il Climax della melodia d’ispirazione ispano-messicana si raggiunge con l’intrigante «Dorotea’s Studio, sempre a firma Lloyd. Nel complesso «Chapel» è un concentrato di sonorità oniriche, avvincenti, mai impulsive, le quali trascinano il fruitore fuori dalla dimensione temporale dell’hic et nunc, sulla scorta di una forza tranquilla ed illuminante.
In «Ocean», seconda uscita della serie Trios l’ottuagenario stilista si avvale del supporto del chitarrista Anthony Wilson e del giovane pianista Gerald Clayton, figlio dell’omonimo musicista losangelino (con cui un imberbe Lloyd aveva suonato negli anni Cinquanta), entrambi membri del Kindred Spirits. Spazi dilatati, riflessioni profonde, rispetto e devozione per le radici del jazz permeano l’intero concept. Il tono chiaro ed emotivo mantiene il costrutto sonoro, per quanto esotico, facilmente accessibile. Lo struggente tema di «The Lonely One», declamato dal sax tenore, si apre con toni torvi e bruniti, per poi evolvere in un’esplosione di jazz a volo libero, fatto di movimenti sghembi e tortuosi, mentre Clayton e Wilson circondano Lloyd con precise punteggiature dai sentori ispanici. Clayton sviluppa forme ritmico-armoniche assai diradate e basate su accordi minori, mentre Wilson esegue ricamati arpeggi di tipo flamenco. Dopo due minuti, Lloyd introduce un altro tema, il mood e le dinamiche si spostano, gli accenti e gli assoli diventano più concisi, tanto che i due accompagnatori si stringono intorno alle misteriose asserzioni modali velatamente ispanico-latine di Lloyd. «Hagar And The Inuits è un omaggio a Coleman, in cui Lloyd si libera dai freni inibitori Improvvisando da solo per un paio di minuti prima di uno call-and-response con il pianista, i cui accordi nodosi ed abrasivi chiamano al proscenio il fantasma di Monk; Lloyd cita brevemente, addirittura «A Love Supreme» di Trane, fino a quando Gerald Clayton non si lancia nella riesumazione di un vecchio boogie woogie. «Jaramillo Blues», dedicato alla pittrice Virginia Jaramillo ed al marito, lo scultore Daniel Johnson, si sostanzia come una vetrina espositiva per il rigoglioso flauto di Lloyd, arricchito dalle variazioni blues dei due sodali, le quali si adagiano su un tappeto ritmico vagamente rock e fitto di movimenti sottili e di insinuanti sfumature tonali. L’interplay e i cambi sequenziali tra pianista e chitarrista sono frutto di un malcelato virtuosismo che ne mette in in luce una provvida abilità. Infine «Kuan Yin», intitolata alla dea cinese della misericordia e della compassione, nota come Tara nel buddismo tibetano, si basa su un’iperbole latina di tipo rumba, che Clayton introduce suonando in modo percussivo, e che Lloyd implementa da presso con un fraseggio tenorile fortemente autoctono, il quale descrive sommessamente il tema melodico, che egli stesso magnificherà, in seconda battuta, con una scioltezza improvvisativa da accademia del jazz. Sul finale Lloyd s’innesta in un dinamico crescendo di gruppo, prima di sussurrare in dissolvenza fino ad esaurimento scorte, complice Clayton, la cui ricchezza tonale porta il brano alla naturale conclusione. Tutto il processo sonoro si condensa nel quadro di un colloquio a tre, quasi privato. Non dimentichiamo che l’album fu registrato dal vivo senza pubblico, il 9 settembre 2020 durante la pandemia, mentre il set venne trasmesso in live-streaming direttamente dal palco del Lobero Theatre di Santa Barbara in California. Per tutta la durata della registrazione si ha l’impressione che il trio navighi in un «Oceano» di acque quasi calme o moderatamente agitate, sospinto da una lieve brezza creativa. Sul finale la conversazione a tre s’intensifica, quanto basta per simulare un live senza un pubblico in sala e fissare l’istantanea di un momento ad imperitura memoria.
«Sacred Thread» è il terzo e ultimo album del progetto Trios evidenzia alcuni fruttuosi momenti che permettono di riconoscere la massima forma di un Lloyd, ottantaquattrenne in vena di sperimentazioni su sentieri impervi ed extra-territoriali. L’album è meno ruminante dei due precedenti e lontano dalle atmosfera degli esordi del musicista californiano con i suoi aristocratici contrappunti, le fughe sul flauto pacificamente sofferenti e le drammaturgiche frasi del tenore. Nello specifico si respira un’aria mistica ed orientale. «Sacred Thread» è imperniato su una miscela religioso-tribale di musica indiana e free jazz terzomondista, con il cantante percussionista Zakir Hussain che rivolge una sofferta e reiterata elegia ad un cielo sopra il Gange ed il Brahmaputra dominato da un’ipotetica Trimurti, in un dialogo spirituale con i sassofoni e il flauto sfoderati del band-leader alla bisogna, mentre il sostegno dal chitarrista Julian Lage fornisce scintillanti bagliori di luce: mancano solo le vacche sacre, ma è quasi come entrare in un labirinto, in un groviglio di orazioni sacre e rispettose del silenzio, quali «Guman», forgiato come un atto di devozione al guru, alla sua guida spirituale, e cantato da Hussain in stile raga con Lage in veste di accompagnatore: Lloyd, in pausa di riflessione, non compare; per non parlare di «Saraswati» un lavacro spirituale di Hussain offerto in sacrificio alla dea indù della musica e dell’arte, fino a giungere al rituale pagano declamato a bassa voce di Lloyd in «The Blessing», composizione che egli eseguì per la prima volta dal vivo nel 1983 insieme al pianista Michel Petrucciani. In seguito, il componimento venne registrato con un quartetto in maniera radicalmente diversa per «The Call» del 1993. Anche questa performance si è volta senza un pubblico pagante Il 26 settembre del 2020: il concerto è stato trasmesso dalla contea di Sonoma in California per un uditorio virtuale in live-streaming. «Sacred Thread» è l’unica delle tre uscite Blue Note ad includere percussioni e voce nonché composizioni di un altro membro del line-up che non fosse Lloyd: Hussain ha scritto tre dei sette brani contenuti nell’album. «Desolation Sound» è una ballata originariamente apparsa su «Mirror» del 2010. Il fraseggio intimo di Lloyd, bagnato di blues ed intriso di pathos, si arricchisce di colore grazie alle tablas ed ai ricercati accordi della chitarra elettrica. L’assolo di Lage segue la soffusa dichiarazione di Lloyd con reterate armonie, crepuscolari e dalle linee quasi spettrali. «Nachekita’s Lament», a firma Lloyd e contenuta in «Canto» del 1998, si adatta allo schema del raga-indiano fino a metà tragitto, quindi l’invocazione cantata di Hussain e la batteria manuale aggiungono un aspro sapore alla progressione iper-modale di Lage. «Kuti» scritta dal cantante-percussionista, è una lunga ballata annunciata dal flauto dolce. Gli accordi melodici di Lage offrono un supporto tonale rassicurante allo sfogo canoro di Hussain. A metà dell’opera, le percussioni aumentano la pressione mentre Lloyd e Lage dialogano amabilmente, quasi non curanti di quanto stia accadendo loro intorno. «Tales of Rumi», già apparsa su «Sangam (featuring Hussain)» del 2006, viene Introdotta dalle percussioni indiane, defluendo a lungo prima che Lloyd e Lage entrino in scena amalgamando temi e armonie, cromatismi e umori orientali ed occidentali in un suggestivo melting-pot sonoro. «Sacred Thread» conclude la trilogia in una dimensione, nella quale il misticismo di gruppo supera la semplice interazione o sovrapposizione strumentale. L’estetica formale viene spazzata via da una simbiosi mutualistica fra gli attanti che raggiungono un elevato livello di conurbazione spirituale, mai più così intima e compenetrata dai tempi di Trane e Pharoah Sanders.