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Don Cherry – «Where Is Brooklyn?», 1969

// di Francesco Cataldo Verrina //

Uno degli appunti che si potrebbe muovere alla Blue Note, è quello di non aver saputo gestire alcune tipologie di dischi e di artisti, specie quelli legati alle avanguardie ed al free-jazz. Non si può fare un processo ad Afred Lion e socio, poiché sarebbe assolutamente bagatellare, considerando l’oggetto del contendere. Quando il 1° novembre del 1966, Don Cherry varcò la soglia del Van Gelder Studio per registrale il materiale finalizzato a «Where Is Brooklyn?», la casa di produzione di Lion era già in brutte acque e presto sarebbe passata nel mani del miglior offerente. Il peccato commesso dalla Blue Note fu alquanto veniale (trattandosi di carenza di fondi o mancanza di soldi da investire, potremmo parlare di «peccato venale»), anche se si poteva fare in modo da non procrastinare al 1969 l’immissione sul mercato della sessione in oggetto. L’abbandono della Blue Note da parte di Alfred Lion, avvenuto nel 1967, lasciò orfani per strada e senza tetto tanti artisti che per lungo tempo si erano nutriti a quella sia pur parca mensa, ma ospitale e garantista di guadagni minimi e sicuri, grazie al meccanismo della turnazione.

In casa Lion giravano e suonavano tutti, a volte come band-leader, altre volte come sidemen, all’interno di un roster costituito da almeno una trentina di musicisti, tutti di alto livello. La caduta del Gran Visir e la sua fuga verso una più rassicurante vita privata, da pensionato di lusso, fece sì che alcuni di questi artisti si ritrovassero senza lavoro, mentre tanti progetti già fissati su nastro rimasero per tanti anni in un cassetto. Una curiosità, quando Alfred Lion, ovviamente a causa di forza maggiore, dovette cedere la sua etichetta alla californiana Fantasy, aveva solo 59 anni. Era ancora un uomo brillante con uno spiccato intuito nello scovare talenti e fare produzioni di successo, anche in termini commerciali. E la Blue Note di successi ne aveva inanellati più d’uno. L’unico vero limite di Lion e Wolf fu quello di non avere saputo calibrare bene la mira, puntando sulle avanguardie e, soprattutto, comprendere che il jazz, dopo la felice stagione dell’hard-bop, stesse andando in tutt’altra direzione. Per i due ex-ragazzi tedeschi che, per circa un trentennio, avevano alimentato il sogno nero-americano (rappresentato da un jazz dominante, afro-centrico e suonato al 99% da uomini di colore), fu difficile gestire quei jazzisti con il baricentro spostato in avanti: tra questi lo stesso Don Cherry.

Con «Where Is Brooklyn?», la Blue Note suggellò la trilogia relativa al trombettista-cornettista, che comprendeva già «Complete Communion» (1965) e Symphony For Improvisers» (1966). Di certo, «Where Is Brooklyn?» non è il miglior disco, né quello più conosciuto, del Don Cherry nei panni del band-leader: è meno visionario di «Symphony for Improvisers» o di altri lavori come «Mu First Part», poiché risulta in gran parte legato all’impronta compositiva e improvvisativa della prima produzione ornettiana. I primi due succitati album del trombettista di Oklahoma City per la Blue Note Records possedevano una lungimiranza creativa ed tentativo di affrancamento dal modulo ornettiano, ma apparivano condizionati dal quel senso di contenimento degli eccessi tipico dei migliori dischi prodotti in casa Lion e che guardavano anche al mercato.

I fondatori della Blue Note, Alfred Lion e Francis Wolff, possedevano orecchie e menti aperte, come dimostrarono più volte nei primi anni Sessanta documentando le gesta di taluni dei più spregiudicati musicisti presenti sulla scena come Andrew Hill, Eric Dolphy e Tony Williams. Ma fu solo quando, nel 1965, introdussero Ornette Coleman e Don Cherry nel loro entourage che si tuffarono a capofitto nell’avanguardia. Giunti a questo punto, i critici e i jazzofili più attenti capiscono che per i due produttori questa scelta divenne una sorta di terreno impervio e minato, tanto che il declino della Blue Note corrisponde con l’arrivo in casa delle vere avanguardie, quelle più spinte. Come già spiegato, i fattori contingenti furono altri ma, contestualmente, la concorrente Impulse! Records inizio a prosperare proprio laddove Lion e socio sembravano fallire. Del resto, Coleman e Cherry avevano già fatto la storia insieme anni prima, quando, nel 1959, con il loro arrivo al Five Spot Café di New York, avevano fatto capire al mondo che stava avvenendo qualcosa di nuovo e che quella sarebbe stata la forma del jazz del futuro.

Per certi aspetti «Where Is Brooklyn?» rappresentò quasi un passo indietro. Cherry e compagni, anziché affidarsi a un disinibito by-play, aspettando che le cose accadessero in tempo reale, lavorarono su un copione già tracciato, simile a quello impiegato nei vecchi dischi di Ornette, anche se, grazie all’esperienza maturata, il trombettista-cornettista si mostrò molto più deciso rispetto a quando svolgeva un ruolo di comprimario nell’organico di Coleman. Lo stesso Pharoah Sanders, libero dalle catene coltraniane, fornisce un ottimo contrappunto, dimostrando come il dialogo tra un bocchino ed un ancia possa essere più agile rispetto a quello fra due sassofoni. Ad esempio, la conclusiva «Unite», che è il pezzo forte dell’intero progetto, pur ricordando vagamente alcune sezioni dell’album «Free Jazz, influenzato dall’approccio melodico di Coleman, esprime una feroce astrazione del tono assai diversa dal giocoso lirismo ornettiano. «Unite», caratterizzato da un suono tempestoso ed esplosivo, con i suoi diciassette minuti di durata, permette a ciascun musicista di estendersi maggiormente rispetto alle altre composizioni più brevi e contenute.

Nel complesso l’intero costrutto sonoro appare molto più nitido e serrato, privo di arzigogoli e ridondanze di sorta, divenendo, al contempo, il modo più appropriato per concludere la collaborazione con la Blue Note. Pharoah Sanders, assurto, grazie alle frequentazioni coltraniane, allo status di artista di culto, negli anni Sessanta, non mostrava alcun timore reverenziale nei confronti dei limiti del costrutto melodico, addirittura in questo set suonò anche l’ottavino. In tal senso, l’accoppiata con Cherry fu quantomai azzeccata. La retroguardia ritmica, composta da Ed Blackwell alla batteria e Henry Grimes al basso, garantì alla prima linea un sottofondo scintillante. Il melting-pot sonoro di Sanders, specie in « Taste Maker», tra le note lunghe e struggenti alla Coltrane, i lamenti spettrali e svolazzanti modello Ayler, il fraseggio veloce e irregolare ispirato a Coleman e le sue urla ossessiva che ricordano gli squittii di una vecchia cornamusa appassita, potrebbero mettere in fuga i gastropatici e i deboli di costituzione già con l’avvento dell’opener, «Awake Nu». Per contro, il dialogo tra Sanders e Cherry diviene più leggero, lirico e coinvolgente in «The Thing», mentre in «There Is The Bomb» il sassofonista si lancia perfino in un ostinato, una sorta di vamp latino reiterato alla Sonny Rollins, evitando accuratamente i fronzoli. Cherry abbandona l’idea di concepire e legare tutte le parti dell’album come medley, al fine di creare una suite; al contrario, ognuna di esse viene trattata separatamente con spazi tra le singole tracce.

In fondo, a parte un breve canovaccio scritto, le cinque composizioni non hanno temi o strutture prefissate, piuttosto sono fitte di ritmi turbolenti che permettono un eccesso alla più libera improvvisazione da parte dei singoli membri del quartetto. Ogni frammento dell’album è una tela bianca su cui ciascun musicista dipinge il proprio quadro. Cherry e Sanders battibeccano continuamente, trascinando il convoglio su territori inesplorati e cospargendo l’habitat sonoro di colori accesi, stridenti e contrastanti. In «Where Is Brooklyn?», il trombettista-leader non sente il bisogno di integrare e di concatenare – come dicevamo – le composizioni in maniera ciclica tornando periodicamente sui vari temi, tanto che l’album risulta più incentrato sull’energia e sull’interazione di gruppo che non su componimenti memorabili e molto enfatizzati. Il valore aggiunto è costituito in special misura da Sanders, presente in forma smagliante e deciso a non fare prigionieri; dal canto loro gli altri membri dell’ensemble avevano già affinato in precedenza il proprio interplay fino a raggiungere un livello di sinergia piuttosto elevato. In conclusione va detto che «Where Is Brooklyn?» può essere un disco piuttosto impegnativo per l’ascoltatore della domenica, non ci sono melodie a facile presa o ritmi modello boogaloo. L’esecuzione è inequivocabile e non fa sconti. Sebbene non sia un ascolto facile, l’album potrebbe essere alquanto apprezzato grazie alla forza dell’esecuzione stessa, piuttosto sentita, vitale e sinergica. Per i cultori di jazz a vari livelli, «Where Is Brooklyn?» potrebbe essere un valido punto di accesso al ristretto club degli appassionati di avanguardie a volo libero.

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