ISAIAH J. THOMPSON CON «COMPOSED IN COLOR» (RED RECORDS, 2022)
// di Francesco Cataldo Verrina //
Isaiah J. Thompson è attualmente uno dei più interessanti pianisti jazz sulla scena, dotato di una naturale predisposizione all band leader-shipping, nonché di una spiccata attitudine alla composizione. Come esecutore, sia pure attraverso un’evidente personalità dai tratti assai marcati, è la summa di tutte le precedenti esperienze del jazz moderno. Thompson riporta in auge il tradizionale vernacolo del pianismo bop, che sembrava essere caduto in disuso stritolato nella morsa del finto-jazz scandivano infarcito di barocchismo ed elettronica liofilizzata. Laureato alla Juilliard School, ha ricevuto nel 2018 il «Lincoln Center Emerging Artist Award» ed ottenuto, sempre nello stesso anno, il secondo posto al Thelonious Monk (ora Herbie Hancock) Institute of Jazz International Piano Competition.
L’album «Composed in Color», che ha segnato anche il ritorno sul mercato della Red Records, unisce tradizione e modernità in un percorso organico e lineare suddiviso in otto tracce, una sola fresca di conio, mentre tutte le altre vengono riproposte attraverso una rivisitazione originale ed un’immediatezza espressiva, tale da garantire ad alcuni classici standard un salvacondotto per una nuova terra promessa. Si capisce immediatamente che Thompson cerchi un legame con la primigenia tradizione del bebop post-bellico, ctentando di ricreare le tipiche atmosfere dei dischi Bud Powell, Ahmad Jamal, Bobby Timmons, Thelonious Monk, Cedar Walton, Tommy Flanagan, Erroll Garner e via discorrendo. Il giovane pianista, supportato da Philip Norris al basso, rilevato da Christian McBride in «Raise Four» di Monk e da TJ Reddick alla batteria, a sua volta, sostituito in alcune tracce da Joe Farnsworth e Kenny Washington, ristabilisce quella che era la normale gerarchia tra strumenti di prima linea e sezione ritmica, ridando vita al classico piano trio. Il lavoro di Thompson non è un ricalco o riproposizione manieristica di antichi moduli espressivi, piuttosto il pianista rilegge con disinvoltura, originalità e padronanza della materia talune composizioni tradizionali, ricontestualizzandole in un habitat sonoro contemporaneo, ma soprattutto evitando improbabili fughe verso l’ignoto o rocambolesche improvvisazioni con doppio salto mortale.
L’opener è affidato ad un rodato standard, «Take The ‘A’ Train» di Billy Strayhorn scritto nel 1938 e, per lungo tempo, sigla di apertura dei concerti di Duke Ellington. Thompson spreme i tasti facendo zampillare fiotti di note swinganti, introdotto da un rullo di tamburi ed imbeccato da un coriaceo walking-bass. A seguire «Senor Blues» di Horace Silver, composto nel’58 e pubblicato dalla Blue Note nello stesso anno. In questo caso la mancanza dei fiati consente al pianista di acquisirne le partiture, dimostrando una conoscenza non comune dello scibile jazzistico. Il piano diventa una sorta di all-in-one, mantenendo i medesimi connotati melodici del brano originario, coadiuvato solo dal basso nella fase improvvisativa e sorvegliato dalla batteria in fase di atterraggio. Nato dalla geniale penna di Randy Weston nel 1958 per l’album «African Rhythms», «Hi-Fly» è sottoposto ad un piccolo intervento chirurgico con l’innesto di alcuni cloni prelevati al parenchima sonoro di Gershwin. In particolare il costrutto armonico viene alleggerito e reso più agile. «Chelsea Bridge» del 1941, tirato fuori dal magico cilindro di Billy Srayhorn e divenuto famoso nei circuiti bop dopo l’interpretazione di Ben Webster in coppia con Gerry Mulligan nello storico «Gerry Mulligan Meets Ben Webster» del 1963, viene restituito al mondo degli uomini in un involucro rarefatto e brunito, caratterizzato da un’atmosfera onirica e sospesa.
«Raise Four» proveniente dal monkiano «Underground» del 1968, è velocizzato, ricondizionato e messo in sicurezza, attraverso una sequenza accordale più canonica e regolare. L’intervento al basso di Christian McBride funge da corroborante, così come l’asperità della batteria, alquanto in evidenza, stravolgono completamente il precetto del Monaco. «Twelve’s It» è un componimento di Ellis Marsalis del 1998, del quale Thompson si guarda bene dal farne un perfetto ricalco argilloso; per contro ne cambia l’andamento ritmico impiantandovi qualche seme di flavour latino. «Mikula Blues» è l’unico originale a firma Thompson, ma non sbrutteggia minimamente nel contesto di un concept a base di evergreen collaudati e sicuri. Il pianista gioca di fino ed attinge al vecchio prontuario del bop, preservandone le regole e gli assunti di base, ma aggiunge molta farina del suo sacco con estrema convinzione e disinvoltura. «Ojos de Rojo» è un omaggio al genio creativo Cedar Walton. Thompson, consapevole che il raffronto con il veterano del pianoforte sarebbe a suo svantaggio, sceglie un percorso alternativo, addolcisce il mood, ne allarga le trame, lo libera della primitiva ruvidezza e lo fa suo senza essere accusato di plagio o di appropriazione indebita. «Composed in Color» di Isaiah J. Thompson è un lavoro moderno dal gusto retrò, ma di certo il giovane pianista non mancherà di sorprendere tutti coloro che non gradiscono i dischi a base di cover con un album fatto di composizioni originali. Le premesse non mancano e la prossima uscita sarà un vero e proprio banco di prova, ma senza possibilità di appello.
Disponibile in CD nel catalogo della nuova Red Records di Marco Pennisi