“Walking In Space”: Quando Quincy Jones camminava nello spazio
QUINCY JONES – “WALKING IN SPACE”, 1969 (A&M RECORDS)
// di Mauro Zappaterra //
Siamo nel 1969, Anno Domini della corsa alla conquista dello spazio. Gli Americani hanno perso il primo round, il primo uomo in orbita è il sovietico Yuri Gagarin nel 1961, gli americani rispondono con John Glenn un anno dopo, ma la rincorsa si completerà proprio in quello storico 1969, mentre Soyuz e Apollo già si sfidano a colpi di lancio. Quincy Delight Jones in quegli anni 60 è già un musicista affermato; dopo le esperienze come trombettista nelle big band negli anni 50, non eccellendo come strumentista nel confronto con mostri sacri presenti sulla scena in quegli anni, come Gillespie, Navarro, Farmer e Brown, comincia a dedicarsi all’attività di compositore e soprattutto di arrangiatore, dove dimostra subito un talento non comune, ed il suo nome inizia a girare anche tra artisti di fama internazionale, che gli affidano la “vestizione” dei loro componimenti. Comincia così ad arrangiare per conto di Ray Charles, Dinah Washington, Sarah Vaughan, Count Basie, Gene Krupa.
A metà anni 60 si trasferisce a Los Angeles, e i cineasti Hollywoodiani gli assegnano il compito di realizzare e curare le sountracks di tanti film divenuti celebri. Dopo una pausa dai lavori cinematografici, Q progetta una Reunion con la sua vecchia big jazz band, ma sul finire degli anni 60 stanno venendo alla ribalta nuove forme musicali di derivazione jazzistica, come la fusion e il soul, e si affaccia nel mondo musicale il pop: il musicista di Chicago ne capisce immediatamente la potenzialità. Quincy, grazie alla sua straordinaria abilità nel far confluire assieme influenze e generi diversi, allarga la band a nuovi membri, ed introduce l’utilizzo di strumenti elettrici, come keybords, chitarra e basso. E arriviamo così al fatidico 1969, in piena corsa allo spazio, dove Quincy è sotto l’egida della A&M Records di Creed Taylor.
La nuova big band arruolata per questo progetto ha preso forma, e che forma. Vale la pena solo ricordare alcuni tra i top stars che partecipano alla realizzazione del disco: Freddie Hubbard, J.J.Johnson, Kay Winding, Hubert Laws, Jimmy Cleveland, Roland Kirk, Paul Griffin, Eric Gale, Ray Brown, Toots Thielemans, ed una nutrita schiera di vocalist, tra cui Valerie Simpson. La band va in studio al Van Gelder, e Quincy si rivela uno straordinario catalizzatore e conduttore, riuscendo a far convivere tante stars ed a ricavare il meglio da ciascuno di loro. Il disco ha un titolo premonitore: “Walking in Space” esce a Giugno del 1969, e soltanto un mese dopo Neil Armstrong compì quel “piccolo passo” che portò l’umanità oltre i confini del proprio pianeta.
Partendo da brani che potremmo definire degli “standard” dell’epoca, presi da diversi generi, “il sarto” confeziona un capolavoro, vestendo con classe sopraffina ed un innato senso del groove, brani che diventano un compendio di blues, soul, spiritual, gospel. Apre il disco “Dead End” (Galt MacDerrmot, James Rado, Gerome Ragni), con un riff di chitarra che traccia la strada da seguire, subito incalzata dai fiati “in sordina”; l’attacco dei tromboni è dirompente, spettacolare nella sua coralità, ed introduce i giri dei solo, con keyboard e chitarra in rapida successione, mentre il groove sgorga impetuoso e raffinato, poi il tutto sfuma dolcemente, lasciando la linea di basso a scandire, solitaria, il ritmo. “Killer Joe” (Benny Golson) appare quasi poetica nell’arrangiamento di Q, con quello swing impeccabile, elegante, mentre i fiati conferiscono allo standard la giusta connotazione spaziale, dividendosi sui canali destro e sinistro, quasi a incoronare la centralità di Ray Brown, che con la sua walking di basso marca il ritmo a beneficio dell’esecuzione collettiva, mentre l’ingresso delle vocalist a recitare “Killer Joe, don’t you go” accompagna la band fino alla chiusa.
L’atmosfera si fa quanto mai rarefatta con “Love and Peace” (Arthur Adams), con le tastiere ad aprire delicatamente la intro dei fiati, che eseguono all’unisono la linea melodica, prima che Eric Gale faccia vibrare le corde della chitarra in un virtuoso solo dai suoni cristallini, mentre la ritmica mantiene sempre una spinta costante e precisa, senza diventare mai invadente. I toni si mantengono soffusi e gli spazi dilatati con “I never told you”, (Arthur Hamilton, Johnny Mandel), con l’armonica di Toots Thielemans ed il flauto di Hubert Laws che si scambiano la scena, con un suono che è quasi un lamento underground, cupa espressione di un vacuo pensiero intriso di tristezza, appena stemperato dal crescendo dei fiati, prima della splendida chiusa di Thielemans a suggello di un brano denso di sensazioni eteree.A riportare una ventata di ben augurante ottimismo è “Oh Happy Days” (Edwin Hawkins), un motivo gospel le cui origini vengono da un inno risalente al diciottesimo secolo, ed inciso la prima volta dagli Edwin Hawkins Singers nel 1967. L’arrangiamento di Q lascia a Hubert Laws la conduzione melodica, mentre il coro in background fa risplendere le radici originali del brano in un’esplosione di gioia, con l’azione di Ray Brown al basso elettrico che si fa letteralmente incontenibile.
E siamo alla parte finale del countdown, siamo alla fase di lancio, la space walking di Quincy sta per diventare leggenda. In realtà, “Walking in Space” (Galt MacDerrmot, James Rado, Gerome Ragni), tratto dal musical Hair, è il secondo brano in scaletta nel disco, ma ho preferito tenerlo in coda per il semplice motivo che rappresenta l’apice dell’album, la visione “spaziale” di Q. Basso e trombe risuonano eterei in una camera di decompressione acustica, facendo da tappeto sonoro alla voce soul di Valerie Simpson, che lancia uno scatenato Laws al comando della band fino al primo cambio di ritmo, sottolineato dalla “fanfara” dei fiati: passiamo da un elegante funky ad uno swing più movimentato, sempre con il flauto sugli scudi.
La “fanfara” e la voce della Simpson ritornano ciclici a demarcare i confini dei solo, con in successione trombone, keyboard, tromba, sassofono. Dopo un nuovo cambio di ritmo che ci riporta ad un funky fusion, la chitarra chiama la splendida voce di Valerie Simpson a sfumare il pezzo fino a gravità zero, terminando con un’altalena in crescendo e calando. La space walking di Quincy giunge al traguardo, segnando uno dei punti più alti della sua decennale carriera, lasciando l’ascoltatore con la sensazione di avere davvero preso parte ad un’epica impresa spaziale.