ROBERTO OTTAVIANO & ALEXANDER HAWKINS A SPASSO CON MINGUS E CHARLIE (DODICILUNE, 2022)

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Roberto Ottaviano & Alexander Hawkins | «Charlie’s Blue Skylight»

Premessa: il titolo dell’articolo è un metafora tesa a sottolineare il fatto che Mingus non amava essere chiamato Charlie, se non dalle persone a lui più vicine. In inglese significa Carletto e lui lo vedeva come un’irrispettosa deminutio della sua importanza artistica, fisica ed umana. Ma se qualcuno ha l’ardire di usarlo nel titolo di un disco basato sulle sue composizioni, significa che gli è molto vicino, idealmente, nello spirito e nel mood.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Immaginate un contesto surreale e fumettistico in cui un qualsivoglia musicista contemporaneo e Mingus fossero dirimpettai nel quartiere residenziale di una città ideale che, per comodità, chiameremo Pitecantropoli. Fate ancora un altro sforzo d’immaginazione e pensate se il giovane ed incauto jazzista, udendo la musica del burbero contrabbassista, felice di avere un così tanto illustre vicino di casa, corresse a comprare tutti i suoi album ed improvvisamente decidesse di «rifargli il verso», ossia di realizzare un disco con una selezione di brani tratti dal repertorio mingusiano. A questo punto potrebbe essersi cacciato in un grosso guaio. Mingus è stata una delle figure più imponenti (perfino fisicamente) della nomenclatura del jazz post-bellico, operando come una cuspide in una zona astrale di confine, che anticipava di almeno un decennio il concetto di «jazz libero», regolamentato, ma non regolare e prevedibile. La storia ci dice che fu uno dei pochi a non patire il tramonto del bebop, distillando negli anni Settanta alcuni capolavori ad imperitura memoria come “Changes One & Two”.

Per chi come me ha scandagliato la musica e la vita del genio di Nogales scrivendo una monografia, sa bene che nulla è scontato e che non esistono particolari teoremi o formulette magiche per scinderne i contenuti, sintetizzarli o sterilizzarli, ma solo uno studio serio, profondo ed accurato delle partiture. Ne sa qualcosa anche Roberto Ottaviano che ne ha dato una versione ed una visone alquanto sui generis e non convenzionale. Con Mingus, o rischi di fare il compitino per il saggio scolastico, il karaoke per gli amici al compleanno del nonno, oppure ti divora per la sua irsuta complessità, ma algebricamente logica, dove complesso non significa complicato ed il concetto di semplicità, intesa come leggibilità e congruenza armonica, non corrisponde mai a semplificazione o scorciatoia, piuttosto diventa un parametro essenziale del concepimento creativo. Roberto Ottaviano ed il suo sodale inglese consapevoli di trovarsi al cospetto di una monade, hanno saputo mettere le mani su quei materiali con accortezza, senza però ustionarsi: studio, analisi e rispetto dei fenomeni intrinseci ed estrinseci alla produzione mingusiana, ma con il desiderio di addivenire ad un costrutto concettuale coerente che ne avesse l’essenza, ma che vibrasse nell’aria come un disco di Ottaviano e Howkins. In effetti, «Charlie’s Blue Skylight» è un disco di Roberto Ottaviano e Alexander Howkins, a prescindere dal fatto che il materiale provenga o meno dal repertorio di Mingus.

Si tenga conto che il lascito mingusiano incorpora elementi molteplici all’interno di una discografia dove ogni album non è mai simile al precedente e risulta piuttosto distante dal successivo. Rebus sic stantibus appare alquanto difficile districarsi in quel crogiolo di narcisismo, vocazione orchestrale, prese di coscienza, irruzioni nella politica dell’epoca ed iperbole verbale, spesso conclamata e presente all’interno dei microsolchi. Con «Charlie’s Blue Skylight», Roberto Ottaviano ed il suo socio in affari riescono perfettamente nell’impresa di non incappare in un’operazione di ricalco, attraverso un’ennesima riesposizione speculare delle tematiche mingusiane, ma si muovono sull’asse cartesiano di un’equilibrata ed aggiornata rigenerazione del songbook del contrabbassista. I due musicisti s’incarnano perfettamente in quel parenchima sonoro, per poi uscirne attraverso un modulo esecutivo ed espressivo decisamente diversificato, se non altro per il minimalismo strumentale che contrasta con la forma mentis mingusina tendenzialmente votata alle orchestrazioni con più sezioni. Nello specifico, bisogna rinunciare alla fibrillante parte solistica di un contrabbasso o all’irruenza di una brass-section Per verità storica, va detto che l’allora trentenne Ottaviano, nel 1988, ai tempi della Splasc(h) Records, si era cimentato con lo scibile del Barone di Nogales insieme ad un collettivo costituito da soli strumenti a fiato, dandone un’interpretazione, all’epoca, alquanto inconsueta. Non si dimentichi che negli anni Ottanta proliferavano dovunque le varie Mingus Tribute Band ed iniziative come quelle del batterista Dannie Richmond, le quali riproponevano l’opera mingusiana in maniera pentagrammatica ed imitativa.

Andare oltre Mingus sarebbe stata impresa ardua per chiunque, così Ottaviano e Hawkins preferiscono aggirarlo ed operare ai fianchi, pur mantenendone in essere le strutture compositive filtrate attraverso il proprio background ed il bagaglio di esperienze accumulate nell’arco di una lunga attività discografica e concertistica; soprattutto perché siffatte operazioni sono costrette successivamente trovare la giusta compliance nel passaggio dallo studio al palcoscenico, dove generalmente i punti di ancoraggio del progetto devono essere ben chiari e distinti, tanto da poter innestare nuovi elementi creativi, specie in fase improvvisativa. L’opener «Canon» mette in luce immediatamente il nitido e profondo timbro del sax soprano di Roberto Ottaviano, che procede in maniera serafica attraverso un’interpretazione quasi fedele all’originale, per poi divincolarsi in progress sulla spinta del piano di Hawkins, il quale favorisce un ampliamento dello spettro ritmico-melodico. «Hobo Ho», tratto da «Let My Children Hear Music», è dedicata alla figura leggendaria del tipico vagabondo americano di fine Ottocento, che viaggiava saltando da un treno merci all’altro. Lo scambi dialogico e contrappuntistico fra il pianoforte di Alexander Hawkins e il sassofono di Roberto Ottaviano sembra ricordare a tratti il ritmo di quei treni che viaggiano nelle sconfinate praterie americane. «Remember Rockfeller At Attica» fa riferimento al governatore di Attica (argomento trattato anche da Archie Shepp) che perpetrò una strage facendo uccidere trentuno detenuti durante una rivolta carceraria. Il componimento viene scisso in una dimensione duale: da una parte l’ancia di Ottaviano che diventa evocativa e meditabonda facendo leva sul quadro emozionale; dall’altra il pianoforte, più dinamico e descrittivo che sembra restituire tutta la rabbia repressa di Mingus recuperandone l’impianto ritmico-armonico originario.

«Oh Lord, Don’t Let Them Drop, That Atomic Bomb On Me» viene avvolta in un’aura sospesa, quasi ironica, a metà via tra jazz e riverberi di cultura classicheggiante. In «Dizzy Mood» il soprano di Roberto riesce a surrogare in maniera esemplare il contrabbasso, mentre tutt’attorno si sviluppa un’atmosfera dal gusto retrò. Il racconto che i due sodali fanno di«Smooch A.K.A. Weird Nightmare» è piuttosto personale, trasformando quasi un incubo in un sogno. La versione di «Pithecanthropus Erectus» è un elisir di pregio millesimato e fluente, magnificato dalle scorrevoli linee di Ottaviano e dal laborioso costrutto di Hawkins: i due sembrano inizialmente studiarsi attraverso sonorità primitive, apotropaiche ed onomatopeiche per poi giungere ad un punto di confluenza creativa da manuale del jazz moderno, restituendo al mondo degli uomini la tempra sperimentale del primigenio componimento, pur all’interno del minimalismo strumentale a due punte. In «Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A.» Ottaviano riscopre il suo universo lacyano emanando un lirismo avvolgente che fuoriesce dalle spire e dalle adamantine circonvoluzioni del soprano, a saldo e compensazione dello spirito più marciante del pianoforte. «Self Portrait In Three Colors» è la rappresentazione fisico-somatica del genio di Nogales, il quale sosteneva: «Sono Charles Mingus, mezzo nero e mezzo giallo… ma non proprio giallo e nemmeno bianco». Un componimento strutturalmente semplice imperniato su una melodia che si ripete tre volte e che Ottaviano ed Hawkins riescono a rielaborare con un’opulenza strumentale polifonica. Man mano che si procede verso il rush finale ci si avvede che il connubio Bari-Oxford, tra due musicisti di talento, si va sempre più solidificando nella rispettosa rilettura di un Mingus, che pur mantenendo il suo irrequieto ed infuocato corredo enzimatico, appare a tratti inedito e adatto a forme evolutive di ricerca e sperimentazione: Ottaviano e Hawkins si mostrano subito abili a smarcarsi dalla dimensione del tributo calligrafo fine a sé stesso. La mimesi narrativa, ossia il rapporto di analogia tra la realtà ispirativa e la corrispondente rappresentazione artistica dell’oggetto trattato, si ripete anche «Haitian Fight Song», legata alla rivolta degli schiavi haitiani avvenuta sul finire del XVII secolo e che Mingus lanciò nel 1957, in un momento di forti tensioni razziali: nell’esposizione di Ottaviano-Hawkins viene preservata tutta l’elettricità tensioattiva del componimento originale. A suggello dell’album uno dei momenti più riusciti dell’intero progetto con una ballata di rara bellezza, «Us Is Two» magnificata da un dialogo mercuriale fra i due strumenti, quasi una firma per dire che uno più uno spesso fa molto più di due. Assai rilevante risulta il commento dello stesso Ottaviano: «Credo sia passata l’età degli «omaggi», e l’omaggio migliore consiste nel far comprendere che il corpus compositivo e strategico, insieme al pensiero, di un artista vale ancora la pena di essere «usato». Poi, ancor meglio se Alex ed io funzioniamo ad un livello alchemico».

Roberto Ottaviano & Alexander Hawkins (foto Luca D’Agostino)

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