I capolavori della Storia del Jazz: Sonny Rollins con «A Night At The Village Vanguard» (Blue Note, 1957)

Sonny Rollins
Una volta Sonny Rollins disse: «A pensarci bene, me lo fece notare anche Miles, i migliori dischi li ho fatti in trio pianoless». In riferimento ad «A Night At The Village Vanguard», il pensiero di Rollins va però interpretato non come un’esaltazione del trio, che fu del tutto casuale, ma basato sull’assioma che l’importante «non è quello che suoni, ma il modo in cui lo suoni». Questa filosofia applicata al jazz trasformò ogni pezzo, eseguito in quell’angusto spazio, in una masterclass di improvvisazione. Infatti, la pura fecondità di quel set rimane inalterata anche oggi: il suono robusto e virile del sax, l’impeto della finalizzazione, l’arguzia sorniona e consapevole, la capacità di Rollins d’ispirare coloro che lo circondavano e portarli ad altezze superiori alle loro terrene possibilità.
In questo live, ad esempio, il giovane Elvin Jones offre la sua migliore performance discografica pre-Coltrane, iniziando ad esternare quello stile indipendente e duttile che lo avrebbe presto elevato ai primi posti fra i batteristi jazz più influenti di sempre. Wilbur Ware era proiettato verso quello che sarebbe stato l’anno più produttivo della sua carriera. Prima di arrivare a New York da Chicago, il bassista aveva lavorato nella prima formazione degli Arkestra di Sun Ra; giunto nella Grande Mela si era unito al gruppo di Art Blakey. In breve tempo, Ware era entrato a far parte dello staff della Riverside Records collaborando con Thelonious Monk; nel giugno del ’57 insieme a John Coltrane e Coleman Hawkins partecipò alle sessioni che portarono alla pubblicazione di «Monk’s Music». Secondo le note di copertina curate da Leonard Feather, Sonny Rollins salì sul palco del Vanguard per una settimana con un quintetto che includeva tromba e pianoforte. Non contento dei risultati, lasciò per strada il trombettista (pare che fosse Donald Byrd) assoldando, per la seconda settimana, un nuova sezione ritmica; insoddisfatto anche del formato quartetto, optò per un trio sax, basso e batteria. Il sassofonista stava usando il palco del Village come un laboratorio dal vivo, sperimentando liberamente per la gioia dell’eccentrica clientela che frequentava il locale di Max Gordon. La presenza di Sonny Rollins, in quell’occasione, ed il successo del disco decretarono anche una rinascita del Vanguard, che da quel momento cominciò ad ospitare musicisti sempre più importanti, abbandonando la vecchia formula semi-cabarettistica del jazz mischiato a gag comiche, opere teatrali d’avanguardia e performance a base di monologhi e poesie.
«A Night At The Village Vanguard» non fu solo il primo album che documenta l’attività dal vivo di Rollins come band-leader, ma è anche il primo album live in assoluto registrato al Village Vanguard. Nonostante l’ambiente spartano e rudimentale, il piccolo locale finì per diventare uno dei principali palcoscenici del bop newyorkese e meta dei più blasonati artisti, i quali, in quello che era poco più di uno scantinato cuneiforme, fissarono su nastro pezzi di storia del jazz moderno. Sonny Rollins sviluppò una performance spontanea, sottesa da un background muscolare di basso e batteria. Gli assoli di sax nell’iniziale «Old Devil Moon» valgono il prezzo della corsa. Jones e Ware sono costantemente in comunicazione con il sassofonista e, contestualmente, tra di loro, creando un’intesa ed un’interazione perfettamente circolare. Non è un concept album attentamente tracciato, né un manifesto programmatico, ma è la rappresentazione di una nonchalance sghemba, tipica di una conversazione ascoltata per strada, estemporanea e senza impegno; è la festa dell’improvvisazione musicale che cattura un vero maestro di cerimonia in preda all’umore adatto, generoso e voglioso di accontentare il pubblico. Rollins cesella i suoi assoli come una scultura nel marmo, attraverso colpi di scalpello vibranti ed elastici, l’equilibrio ritmico del tandem assicura l’urgente desiderio di melodia. Pensando alla linea di basso di apertura di Ware su «Softly, As In A Morning Sunrise» si capisce come non vi fosse gerarchia fra gli strumenti, ma gli assoli di Ware per quanto incessanti restano al servizio della formula comune, che si estende grazie al reattivo lavoro di Jones alla batteria. L’improvvisazione di Sonny è fluida ma dipendente dallo swing, anche se il suo legame con la tradizione non è mai incatenante: caratteristica evidenziata nella compatta «Striver’s Row», la prima delle melodie suonata da Rollins con maggiore libertà, dove la retroguardia ritmica fa simultaneamente riferimento al bebop, ma lo trascende.
Ad aprire B-side, con un lancio di fuochi d’artificio, c’è «Sonnymoon For Two», un concentrato di bop costruito su blues di 12 battute in Si bemolle maggiore che si sostanzia in oltre cinque minuti di improvvisazione liquida ma graffiante da parte di Rollins; e mentre le sue idee sgorgano fuori come zampilli da una fontana, la sezione ritmica ribatte all’unisono. Scritto a conclusione del suo matrimonio, durato un anno, con la modella Dawn Finney, questo originale di Rollins fece la sua prima apparizione su «A Night At The Village Vanguard». Pur essendo Jones e Ware i soci di maggioranza del progetto, con la rilettura del cavallo di battaglia di Dizzy Gillespie, «A Night In Tunisia», Donald Bailey al basso e Pete La Roca alla batteria palesano la loro presenza come truppe speciali aggiunte. L’album si chiude con una versione ordinata e rispettosa di «I Can’t Get Started» di Vernon Duke, dove Rollins entra in modalità crooner, dispensando estratti di canna da zucchero. Jones apporta un ritmo assai innovativo per una ballata, mentre Ware gli guarda le spalle.
«A Night At The Village Vanguard» è diventato un album formativo per generazioni di sassofonisti, specie quando essi operavano nel formato trio. Rollins aveva un piede nella tradizione e la mente proiettata nel futuro, così riuscì ad estrarre, da una manciata di standard e da un paio di inediti, tutta l’energia e la voglia di vivere che sprizzava dal jazz di quel periodo. Il futuro Colosso, non essendo vincolato a nessun tipo di linguaggio codificato, possedeva la libertà armonica, l’integrità melodica e la spregiudicatezza necessaria ad oltrepassare le gabbie limitanti del bop di maniera. L’album è un excursus nel jazz del passato, del presente e di quello in divenire. Nonostante il successo dell’album non ci fu nessun altro tipo di collaborazione tra Rollins ed il proprietario del Vanguard, Max Gordon, il quale nel suo libro di memorie scrisse un capitolo quasi ironico sul sassofonista. In «Sonny’s The Greatest», il gestore del Village pone molta enfasi sull’eccentricità e l’inaffidabilità del sassofonista, facendone emergere i lati oscuri del carattere. In quei giorni Gordon aveva avuto il sentore che Rollins stesse usando il suo club come un trampolino di lancio e per fare sperimentazioni varie attraverso repentini cambi di organico. Tra i due non scorreva buon sangue, tant’è vero che Rollins in un’intervista, quando Leonard Feather gli chiese del suo rapporto con Gordon, scoppiò a ridere, fece una pausa e poi rise ancora. «Sì, certo, avevo un rapporto con Max», quindi aggiunse «Max era molto astuto. Sapeva cosa era buono per lui. Non so se sia mai diventato un esperto di jazz, ma sapeva un sacco di cose pratiche e fare bene i suoi affari».
